Il concetto già espresso del “dimorare” in Dio, a questo punto offre ulteriori precisazioni. Si dimora nelle cose come l’acqua dimora in un alveo: il libero arbitrio, l’individuo lo esercita pertanto in che cosa sceglie di dimorare. L’acqua, per dimorare in un alveo, vi accede perché prima è stato rimosso l’argine che manteneva una separazione. Fuor di metafora, l’uomo deve pure lui decidere quali argini togliere, ovvero verso cosa arrendersi. Perché si può dimorare in qualsiasi cosa e in qualsiasi creatura. La libertà maggiore, la cima più alta, è raggiunta quando ci si arrende a Dio e in Lui si prende dimora. Ecco che se si tiene conto dell’immagine dell’acqua che prende posto in un nuovo corso, si intravede il significato che l’uomo e Dio finiscono per essere sovrapposti, confusi, uguali, concreti.
Per lo stesso principio, anche se si fosse coscienti di ciò, non lo si potrebbe mai essere appieno, malgrado sia una rivelazione riformatrice sul proprio considerare ogni cosa. Nel senso che il rendersi conto di non essere una coscienza a sé ma una cosa sola con Dio non permette di affermare anche di essere Dio se si è “qualcuno” che sta facendo quell’affermazione. Perché per poterlo affermare bisognerebbe appunto essere una coscienza separata che osserva il tutto e ne diventa cosciente.
Tale processo è l’occasione per scoprire che Dio è dentro di noi. Ma fino al momento che sentiamo di avere fatto questa scoperta oppure che siamo convinti di stare osservando o prendendo coscienza di ciò, stiamo facendo un’azione possibile soltanto se ne siamo separati: se intendiamo Dio come esterno da noi. Proprio come qualche post fa si puntualizzava che se uno è colui che produce dei pensieri, come potrebbe essere quei pensieri se ne è l’artefice?
Allora, è accettando di trovarci al cospetto di qualcosa che non si può comprendere che ci si potrà aprire a un progresso ulteriore, quello che porta la persona a non comprendere ciò che si potrebbe dire di Dio perché non è comprensibile. Il fedele diverrebbe cosciente che non vi è altro al di fuori di Dio: non possono esserci punti esterni da dove osservarLo. La coscienza della persona è la coscienza di Dio e, per la sua natura umana, la persona fa anche l’esperienza da umano di poterLo osservare e, eventualmente, inventarne un’immagine.
È l’uomo, infatti, che in realtà crea Dio a propria immagine perché diventando cosciente della propria divinità, riconosce nel corpo umano la forma di Dio. Le forme identificabili nella realtà, come abbiamo già trattato, sono appunto le forme che Dio può prendere. Rivolgersi direttamente a Lui è guardando alla propria coscienza. La quale è sempre in presenza di Dio o, se vogliamo, è la continua presenza di Dio nel proprio corpo e in questa realtà.
Si può affermare che chiunque, in qualsiasi momento della propria vita, è in presenza di Dio. Anche se costui passa un’esistenza attratto dai sensi e dalla mondanità o è ignorante delle cose spirituali. Diventarne coscienti cambierà per sempre la vita e non come quando si apprende qualcosa di sconvolgente o rivelatore perché non ha a che fare con nuove nozioni che si imparano o segreti che si svelano ma con il proprio essere più profondo, con il modo in cui si è. Un po’ come dire che si scopre veramente la propria identità e si può rispondere alla domanda: chi sono?
Se un individuo può affermare di essere Dio, non lo sarebbe effettivamente perché non ci sarebbe quell’individuo: se è Dio non può essere “qualcun altro” che si sta osservando. Egli diviene a tutti gli effetti Dio quando si arrende a questa assolutezza non ospitando più tale separazione.
Per fare esperienza in una dimensione differente da quella da cui proviene, un essere umano deve per forza dotarsi di strumenti per adattarvi il proprio stato. Ad esempio, ogni qual volta scende negli abissi di un oceano oppure si muove nello spazio esterno della sua astronave o sulla superficie di un corpo celeste con un’atmosfera diversa (o assente) rispetto a quella terrestre. Quindi, si doterà di una muta o di uno scafandro atti a proteggerlo e fornirgli con una tecnologia sostitutiva delle capacità fisiche e mentali che in quell’ambiente si modificheranno rispetto alle abitudini. Così, egli potrà fare l’esperienza in un’altra dimensione seppure subendo le limitazioni causate dall’involucro che ha addosso e che evidentemente fungerà da filtro alla naturalezza dei movimenti e della capacità di analisi.
Queste congetture servono a fare un paragone anche con l’esperienza dell’uomo nella dimensione che gli è quotidiana. Egli non è il corpo che anima, ma è l’essenza, la coscienza che sta utilizzando quel corpo che è come lo scafandro per poter fare esperienza al pari dell’astronauta che cammina sulla Luna. E questo scafandro è l’essere umano con il suo corpo biologico, la sua personalità e la sua mente, l’Homo Sapiens potremo sintetizzare.
Questo corpo che ci ritroviamo addosso è l’involucro migliore, infatti, che potremmo avere per vivere su questa terra con la sua particolare atmosfera e nelle comunità che la abitano. Senza di esso, non potremmo neppure accedervi, proprio come sarebbe impensabile per il cosmonauta uscire dal modulo lunare senza tuta spaziale.
A questo punto, dobbiamo riconoscere che se fantasticassimo che il selenita che incontra l’astronauta terrestre o il pesce che vede il palombaro sul fondo dell’oceano cercassero di capire chi si trovano di fronte, arriverebbero alla conclusione che quello è il modo in cui è un essere umano. In quella dimensione, l’essere umano non può stare senza lo scafandro, quindi per chi in quella dimensione incappa per la prima volta in un uomo non lo potrebbe considerare indistinto dallo scafandro. Questo, infine, sarebbe riconosciuto proprio come il suo corpo: la forma che ha un essere umano.
Allo stesso modo, se la persona del nostro esempio rimanesse a vivere in quella nuova dimensione, con il passare del tempo finirebbe per ricordare sempre meno la sua vera natura, la sua forma originale. Ancora meno dai suoi figli e con il passare delle generazioni, così che finirebbe del tutto obnubilata la memoria su chi e come è veramente un essere umano. Ed è comprensibile, dato che essi si sono sempre visti in quella guisa per via della natura di quella particolare dimensione. Così, nella nostra similitudine, noi ci siamo scordati della nostra vera natura identificandoci con la struttura biologica e mentale di cui siamo dotati fin dalla nascita. Struttura quindi che non è me ma sarebbe “soltanto” la muta per poter sopravvivere e fare esperienza in questa dimensione. Ci viene costruita addosso proprio perché altrimenti saremmo vacui o non saremmo concreti ed essa è infatti il meglio che potremmo avere per le caratteristiche dell’ambiente che abitiamo.
Infatti, si deve essere grati dell’opportunità che si ha nell’essere incarnati e di poter così sperimentare questa esistenza. La quale, essendo possibile solo attraverso il filtro del corpo e della mente, deve essere vissuta accettandone i limiti e anche le pratiche che permettono di vedere il corpo e la mente per quello che effettivamente sono: caratteristiche degli strumenti (del proprio involucro) che si hanno in dotazione e non del proprio vero sé. Buone pratiche, abbiamo individuato, sono quelle meditative quando finalizzate al semplice percepire la silenziosa separazione tra il sé e il proprio involucro. Se esse sono praticate invece allo scopo di migliorare le condizioni della propria esperienza in questa realtà, porteranno a un rafforzare la credenza e la forza di questa realtà illusoria su di noi (al posto di affermare la Verità). Ad esempio, meditare per stare meglio, rilassarsi, capire o alleggerirsi dal capire troppo, controllare un vizio o attrarre ricchezza, ecc. Contrariamente a ciò, come abbiamo imparato, tutto quello che si necessita verrebbe ottenuto spontaneamente come effetto collaterale.
Il proprio strumento è: la struttura biologica che abbiamo addosso, quindi l’intera gamma di esperienze materiche e sensuali che vanno anche oltre il corpo comprendendo tutto ciò che si compie ed esiste per dargli soddisfazione; la mente, quindi tutti gli edifici di pensieri che si maturano nel ciclo dell’esistenza includendo anche tutta l’intelligenza che è stata necessaria nel corso della Storia per il progresso dell’umanità. Pertanto, se tutto ciò è “solo” il mezzo così che come coscienza ci possiamo manifestare in questa dimensione, la vera esperienza qual è?
Il mio essere una persona non mi descriverebbe, perché quella persona è lo strumento che la mia coscienza adopera per manifestarsi. E pure il mio essere un artista, un italiano, un marito, un Homo Sapiens e, infine, anche l’essere coscienza. Se si mette da parte tutto ciò, quello che rimane è soltanto l’unica Coscienza, l’unico Sé, che essendo un Uno non può ospitare nient’altro. L’uomo, essendo quella Coscienza, alla domanda “chi egli è” può rispondersi solamente che egli “è”. Non può aggiungere nulla a causa dell’universalità della Coscienza che, pertanto, è solo quello: egli può esclusivamente “essere”.
Tutte le parole che posso aggiungere dopo la definizione “io sono” non stanno veramente descrivendo chi sono, ma solo lo strumento che uso e che, per sua natura, cambia continuamente. Allora, il mio affermare di essere un artista è una bugia visto che vent’anni fa non mi sarebbe mai passato per la mente di definirmi così; proprio come il dichiarare di essere un essere umano. Sono entrambe menzogne, o meglio: illusioni di questa realtà oppure, come abbiamo ultimamente puntualizzato, gli espedienti che la vita crea per portarci alla Verità.
Questa realtà non potrà mai per davvero dirti chi sei e, perciò, neppure tu (inteso come componente della realtà) ne avresti la capacità. La meditazione accompagna verso un rendersi conto di tale distinzione e così che pure quello che credi essere te non esiste per il fatto che la parte vera di te è la coscienza, la quale è scevra da definizioni per il suo essere universale e unica. E, oltretutto, presente in ogni cosa: l’unica Coscienza che, se vogliamo, possiamo anche chiamare Dio e che è la vera realtà. È sorprendente che si possa rinvenire questo profondo epilogo del nostro progresso nelle Sacre Scritture già chiaramente svelato all’inizio della stessa Bibbia, quando Dio si presenta con la spiegazione “Io sono colui che è.”
La caratteristica di unicità e universalità della Coscienza, del nostro vero Sé che è Uno, è la vita stessa. La quale può anche prendere forma in qualcosa di caduco e transitorio come la realtà materica. Nella Sua totalità, la Coscienza non può che essere creatrice, e per esserLo non può che essere innanzitutto amore. Un amore che diventa creatore quando è rivolto verso ciò che non ha una forma; mentre amare ciò che ha forma è amarne il surrogato. Questo non significa che è vano il sentimento rivolto alle cose e alle persone di questo mondo, ma si intende che nell’amare le cose di questo mondo si diventa creatori. E si intercetta la vera realtà, Dio, la Verità quando si ama oltre la forma che quelle cose e persone assumono.
Allora, la vita è come se fosse attratta e si aizza quando si va verso la vita e quindi oltre la superficie, oltre le forme: non un amare le cose del mondo per via della loro forma, benché bella e seducente. Quando si sta insieme, quindi, un vero amore sussiste nel momento in cui si intercetta e vive qualcosa che è oltre il nostro mero essere partner, amici, famigliari. Nel momento in cui ci si affeziona alle forme delle cose, si ama solo la superficie e si potrà assistere a quest’esperienza amorosa come qualcosa che finirà prima o poi. Proprio perché la vita si accende quando si va oltre e si svilisce quando si galleggia sulla superficie, anche se lo si fa con sentito trasporto e passione. È un’ulteriore rivelazione che questa realtà, considerata un contesto che ospita forme, è esclusivamente una scusa per aprirci al mondo oltre le forme. Difatti, tutto ciò che si finisce per apprezzare delle forme proviene comunque sempre dalla sostanza che le plasma, dalla “assenza di forma”. Quando si riesce a portare qualcosa del mondo oltre le forme all’interno di una relazione (nel mondo delle forme), quello è il reale amore che è la vita.