Non aver più bisogno di una religione o comunque di un percorso spirituale prestabilito, non significa essere contrari alla religione o a quel percorso spirituale. Voler essere contro vale solo quando ci si identifica di nuovo nella mente logica che riconosce le esperienze esclusivamente in una modalità oppure nella sua opposizione. La religione è stata indispensabile, anche con le sue regolamentazioni non sempre comprensibili, proprio per portarci al punto di non averne più bisogno. Al pari del genitore che accompagna il figlio fino a che diventi autonomo. Non percepire più come essenziale un percorso spirituale vuol proprio dire di averlo realizzato, portarlo al suo maggiore sviluppo. Come il bruco che nel suo apice spontaneamente svanisce per lasciare spazio alla farfalla.
Allo stesso modo, desiderare di rimanere aderenti e partecipi di un dato cammino spirituale a volte ha più a che fare con un desiderio di sicurezza, piuttosto che di vera sete di Verità. Sono desideri di cui si ambisce un appagamento al pari di un qualsiasi altro desiderio a cui si mira. Le religioni forniscono “un’immagine” di Dio (anche quelle che non permettono formalmente di raffigurarLo per immagini perché anche questa sarebbe un’immagine, un’idea) a coloro che ancora non sanno vederLo. A coloro, cioè, che non lasciano sufficiente mano libera alla propria mente visionaria. È essa che dischiuderà al fedele la lettura di ogni cosa; quello che precedentemente si specificava con il termine “intuizione”.
La razionalità è allora il mezzo che permette di adoperare la mente visionaria, creativa, al di sopra dei desideri che rendono inquieti finché non si soddisfano. Fa guardare con pace alle vicissitudini mondane, alla rete delle agitazioni sensuali e a tutte le minime preoccupazioni. Tutte le pratiche per ricercare la conoscenza, riscontrabili fin dall’antichità e in ogni luogo, prevedono questa quiete a favore di una maggiore introspezione. Il capovolgimento che Cristo chiamava metànoia nell’indicare un cercare non fuori ma dentro di sé. Che prevede una serenità e una meditazione atte a scoprire in sé la conoscenza, il Divino, la Coscienza che è unica e universale.
Spesso si rimane legati a un cammino spirituale o a una religione perché nella certezza che tale legame porti qualcosa in cambio. Che evidentemente si perderebbe al cessare del legame. Un miglioramento, un benessere, un sentirsi adeguati perché parte del gruppo che si considera giusto o migliore, una guarigione, una tradizione, possono esserci davvero tanti motivi. Non un superare il bisogno di avere qualcosa in cambio, ma il contrario: cercare la soluzione, anche spirituale, utile per il proprio vivere, per quel che dovrà avvenire. Si tratta di un impegnarsi in quello che avverrà in questa realtà, in questo tempo invece che superarlo e scoprire cosa vi è dietro. È un credere a questo tempo e non a ciò che sta oltre al tempo, cioè Dio. Purtroppo, è proprio il credere che il tempo passi e che porti così a vivere in balia di complicazioni e vicissitudini che si vorrebbero controllare, a far sì che si legga il tempo come un nemico da cui correre ai ripari. E il cercarne un sollievo, anche attraverso un cammino spirituale, è uno sforzo che invece di liberare, alimenta ulteriormente la convinzione che il tempo sia dominante.
Ed è per questo che un cammino spirituale non viene lasciato cadere: perché lo si pratica per intervenire sul tempo. E non lasciare che ci mostri che il tempo, come realtà transitoria, non esiste. Sarebbe come sforzare che il bruco rimanga così com’è invece che lasciare che cada e liberare in questo modo la farfalla.
Non appena si inizia il percorso per conoscere la Verità, iniziano a cadere i desideri interessati. Si smette di essere convinti su cosa è giusto e cosa non lo è, nel senso che si legge la realtà come una composizione di esperienze che sono tutte giuste per me, per il percorso stesso che ho da compiere. Il quale, inteso come scopo, non deve portarmi a conquistare nulla di più che non la conoscenza della vera realtà, che è Dio. Il praticante scoprirà, infatti, che in verità egli non è più contro alcunché perché tutto ha motivo di essere. Al di là delle personali ragioni, delle personali convinzioni e prese di posizione sul mondo e sui desideri a cui si aspira.
Quando si smette di sentire di avere ragione, che la verità è oltre al sentimento di “avere ragione” ed essere dalla parte giusta, anche oltre alla mia ragione che vorrebbe la verità differente da come è, pure la religione smette di essere indispensabile; poiché era praticata per desiderare la verità più vicina alle proprie idee. E questo è, appunto, un passare ad altri percorsi. Come il bambino che passa dalla scuola primaria a quella secondaria.
Una religione che ti promette di sentirti amato o di soddisfare quanto desideri per la tua vita, ti aiuta a superare ciò che funge da ostacolo? Oppure accresce il tuo sentirti non amato o insoddisfatto se non ottieni quello che vuoi? Non è che invece un cammino spirituale ti deve portare a vedere che i tuoi bisogni e la paura di non accontentarli, sono solo delle illusioni? Il tendere a essere più forti per vincere le proprie paure è un modo, a contrario, per credere che le paure siano reali.
Ed è così che sondando tutte le religioni, facciamo la conoscenza di persone che le hanno praticate come un’esperienza interna piuttosto che esterna. Un viaggio psicologico che porta a scoprire cosa c’è dentro di sé, prima ancora che soddisfare riti e cerimonie. Non tendere a considerare la realtà come prodotto della somma dei propri pensieri perché lo si è scoperto dai libri, ma attraverso una meditazione che vede nell’osservazione di sé la porta per un passo più profondo.
Questo nuovo passo, non è detto che sia per tutti, non subito almeno. Già il giungere a dubitare che la realtà che si vive sia quella vera, è un enorme progresso. Di quello successivo, si può essere informati e, anche se non verrà compreso, le informazioni si depositeranno come un seme che al momento giusto germoglierà.
Questo ulteriore passo è possibile quando nell’osservazione di sé, ci si domanda chi è esattamente che sta facendo l’osservazione. Mi accorgo di avere un desiderio, vivere un piacere o subire un dolore: chi sta in realtà vivendo tali esperienze? Ovviamente, sono io a viverle, ma abbiamo imparato a considerare tali esperienze come degli ospiti che ci viene richiesto di dare asilo. Una sofferenza, ad esempio, non prendo a viverla come una condanna che mi domina. Ovvero non mi identifico in essa, è qualcosa che compare nella mia vita, come se mi camminasse accanto. Così, è qualche cosa che io posso guardare, e se io la posso guardare, infatti, non è me. Se fosse me, non potrei vederla, proprio perché non potrei guardarmi come se fossi esterno da me.
Eppure, questa sofferenza riesce ugualmente a influenzare quello che sono. Ma essa lo può fare proprio come qualsiasi esperienza finora vissuta mi ha condizionato rendendomi quello che sono. Il passato, infatti, non determina chi sono, ma determina questa struttura di impressioni, di pensieri, che creano una struttura più grande formata dal mio corpo e la mia mente. La quale mi permette di vivere in questa realtà, tuttavia non è me: sarebbe bastata una manciata di esperienze diverse nel mio passato per rendermi un’altra persona rispetto a quella che sono.
Allora, io non sono uno scrittore, un artista, né alcunché di quello che sono stato finora se non a causa del mio passato. Il quale, se fosse stato differente, mi avrebbe potuto portare ad affrontare un presente diverso. E, allo stesso modo, se fosse possibile cancellare il nostro passato, cosa saremmo?
Quello che viviamo, pertanto, non è veramente chi siamo se non come mero strumento per sperimentare questa realtà e, iniziando un percorso di consapevolezza, si rivelerebbe finalizzato a farci scoprire la vera realtà. Quello che io chiamo “io”, in definitiva, si scopre essere un’illusione quando ci si accorge di ciò. Ovvero, quando ci si accorge che ciò che si crede essere “io” è invece qualcosa di osservabile. E se è osservabile allora è esterno da noi, proprio come so che l’abito che indosso non è il mio corpo: lo posso levare, appendere nell’armadio e guardare.
Il mio vero “io” sta al di sotto di tutto quest’apparato e quando si giunge a vederlo è di fatto uno spalancarsi alla verità. Ma non è ancora la piena libertà, l’unione totale con Dio, la grazia. Ciò perché si sta ancora credendo che ci sia un “io” che fa qualcosa: osservare quello che questo “io” è e quello che non è.
Innanzitutto, un buon risultato è così accorgersi che pure la sofferenza, anche la croce che abbiamo in questa vita, non è da combattere o da cercare di accettare. Perché vedremmo che anch’essa non esiste: è il prodotto dei pensieri fuoriusciti da quella struttura fatta di mente e corpo che non è me, seppure, per convenzione, chiamo “io”. Questa, che abbiamo visto essere effimera per il semplice costituirsi di casuali esperienze passate, creerà a sua volta casuali sofferenze. Casuali perché è solo per quel che abbiamo vissuto e crediamo, che ci convinciamo che siano delle croci insuperabili.
Io accolgo la mia croce come gesto di amore di accogliere una creatura di Dio, ma essa è effettivamente una croce solo perché il mio “io” la crede tale. Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nel ricordare tutte le varie sofferenze che abbiamo sperimentato nella nostra vita: quando le si vivevano erano intollerabili, mentre, con il passare del tempo, appariranno più lievi o addirittura fanno sorridere quando ci ritornano alla memoria. Oppure quello che io considero una croce, per un’altra persona, a causa delle esperienze del suo passato, lo percepirebbe di una diversa gravità.
Questo accogliere riempie la vita di pace e ci si alleggerisce da preoccupazioni e timori. Personalmente, me ne sono accorto di ciò proprio perché da un certo punto in poi non registravo più nella mia vita le cose che fino ad allora mi procuravano angustia e inquietudini. Dov’erano finite, come potevano essersi dissipate? Si è trattata di una vera sorpresa, tuttavia non ero ancora del tutto in pace. Questo perché, come scritto più sopra, c’era ancora un “io” che si domandava queste cose.
È ottimo arrivare a osservare la propria croce come se fosse un mero vestito, e questo sottende comunque anche un continuare a provare dolore se è qualcosa di doloroso. Non è che si diventa insensibili, semmai le sensazioni e i sentimenti che si provano sono vissuti accogliendoli e non subendoli o cercando di contrastarli oppure ignorandoli. Dopodiché, si può anche arrivare a vedere se stesso che sta osservano la propria croce. Ovvero, capire che c’è solo un “io” e, successivamente, che pure quell’io in realtà non esiste.
Io sono tutt’uno con la vera realtà, con Dio, come potrebbe allora esserci effettivamente quell’io? Che la pensa, la osserva, ne dà definizioni. Già da vari capitoli abbiamo preso l’abitudine a leggere la realtà che viviamo come visionaria. Addirittura il nostro mondo interno e Dio possono essere sperimentati esattamente come vengono “immaginati”. Qui, inoltre, si svela che le personali sofferenze e la croce sono solo un prodotto dei propri pensieri e credenze. Così, allo stesso modo, pure il proprio “io” è il risultato di pensieri e credenze; solo grazie a tali presupposti esisterebbe. La vera realtà è che tutto è un unico contesto con Dio, che è Dio.
Più ci si fida dei propri pensieri e delle proprie credenze e più difficile sarà l’accesso alla vera realtà. Alla vera realtà, al vero io ci si avvicina quando non servirà più definire ciò che è reale e ciò che è “io”.