29/03/23

LO SCOPO DELLA TUA INTERA VITA - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 33

Qui di seguito il trentatreesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


LO SCOPO DELLA TUA INTERA VITA


La realtà è la vita, che abbiamo voluto immaginare per similitudine come un mare mosso da una corrente perché tutto, anche ciò che crediamo essere distinto, è fuso insieme. Infatti, per poter distinguere e differenziare qualcosa da questa assolutezza, bisogna distanziarla dal “mare”. La separazione è possibile esprimendo un giudizio, che fa credere in due elementi opposti. Sia nel dichiarare, ad esempio, che una cosa è accettabile e un’altra non lo è, che nel valutare in modo soggettivo (come la bellezza e la bruttezza) oppure oggettivo (come una misura o un peso).
Pure un essere umano, per potersi distinguere, deve riconoscersi a sé stante. Così egli si giudica “io” ed è in ciò, che crederà. Si può sottolineare, difatti, che una differenza è rilevabile ogni volta che è l’ego ad agire. Il quale alimenta la convinzione dell’io come della realtà nella quale si pensa di vivere (dove l’io farebbe esperienze). Realtà che ha concretezza nell’essere costituita da elementi che si percepiscono distinti poiché ricercati a seguito di una preferenza e non di un’accoglienza. Questi elementi sono sia gli obiettivi da soddisfare, come i desideri, che le persone che si vuole accanto, ecc.
In altre parole, questa dinamica diventa concreta nel cedere alla tentazione di ingrandirsi. Apparentemente un’assurdità, essendo tutto un fluire indistinto. Addirittura, se la realtà è questo fluire, allora ciò che si crede da esso staccato è, appunto, una mera credenza, un’idea; è il motivo per cui ciò è già stato nominato, nei capitoli passati, come “irrealtà”, benché sia costituita dalla complessità tangibile che invece l’uomo chiama abitualmente realtà e vita.
Volersi ingrandire significa desiderare di essere sempre “più grande”, possedere sempre più cose, accrescere la propria carriera, ricercare senza arrestarsi la gratificazione di piaceri e voglie. Tale ingrandimento dev’essere continuo perché comporta un rafforzamento dell’ego, della credenza di sé e di quest’idea sulla realtà. In questa distinzione dall’assoluto, non c’è in verità un vero “io”, non si può rintracciare il vero se stesso perché esso è invece quel mare. Così, per poter individuare un proprio sé, si cerca di occupare più spazio (più vuoto) ingrandendosi. Allora, l’esperienza dell’essere è sostituita da quella dell’avere, dall’accumulare: oggetti, esperienze, persone, successi, conoscenza.
L’ingrandirsi è sempre attivo, non è limitato in alcuni contesti o situazioni. In effetti, bisogna notare che, per questo, materialità e spiritualità si mescolano. La spiritualità e le ricerche nel profondo di sé traghettano comunque verso qualcosa di illusorio come potrebbe essere considerata la materialità. Perché quello che si troverà al termine delle proprie ricerche sarà ugualmente un credere a una cosa o un non credere a un’altra. Gli elementi che si rinvengono, fondamentalmente, sono irreali, idee, se non vengono messi da parte per lasciare spazio all’assoluto. Una ricerca personale o di auto-conoscenza è illusoria poiché non vi è alcuna persona, in realtà.
Il caos fra reale e irreale si districa solamente quando si smette di volersi ingigantire, di diventare di più. Qualsiasi cosa, ma “di più”: per poter ottenere, avere, “aumentarsi”. Il paradosso è che invece, liberandosi da questa tentazione, si inizierà a beneficiare direttamente di tutto, poiché si aderirà al tutto. Si riceverà il “sovrappiù” promesso nel Vangelo, si diviene finalmente la totalità che tramite l’ego non sarebbe accessibile.
Per converso, le scelte vengono affrontate guardando a quanto ci si potrà ingrandire, si potrà avere in cambio. Come abbiamo detto, anche nella spiritualità. Così, se si segue una religione è per via di quanto essa promette; si prega per avere una benedizione; si va in pellegrinaggio per ottenere una guarigione; si medita per attrarre ricchezza; si è devoti a un cammino spirituale per diventare migliori; si cambia credo perché urgono risposte; si fa un fioretto per potersi liberare da un vizio. E così via potendo aggiungere molti altri esempi, ma ciascuno di essi sarà sempre caratterizzato da un volere qualcosa in cambio. E questa cosa che si vuole è sempre proiettata avanti nel tempo. Ovvero, si tratta di un’idea su come dovrà essere il proprio vivere. Se esiste il tempo come condizione del nostro essere, allora già ci accorgiamo che non ha a che fare con la realtà, con la vita, ma riguarda il proprio ego. Il quale è appunto soltanto un’idea che si ha e si deve mantenere nel tempo. È una credenza, ma quanti credi una persona cambia nel corso della sua vita? Come può sembrare affidabile e realistico tutto ciò? Quello a cui si credeva da bambini, ad esempio, lo si lascia sicuramente alle spalle non appena si è cresciuti. E allo stesso modo, ciò che consideravo allora come qualcosa da risolvere o da desiderare, se lo rivedessi oggi non mi sembrerebbe più così problematico o desiderabile. Pertanto, anche i miei sforzi attuali nel cambiare qualcosa nel tempo, nel futuro, potrebbero apparire slegati o inadeguati quando poi il tempo passerà. A tutti verrebbe da sorridere nel ricordare quanto sofferente era un desiderio di noi bambini quando non veniva soddisfatto o quanto insuperabile una preoccupazione.
La realtà è la vita, abbiamo ripetuto. Ma la vita non è lo scorrere del tempo, un immalinconirsi nel ricordo del passato e un occuparsi di questioni che verranno affrontate nel futuro. La vita è quando si vive, quindi non passato e futuro ma quando si è: il presente. La vita non è neanche il momento presente se sto struggendomi nei ricordi o progettando il futuro, quello è essere distratti. Se si porta invece attenzione al presente, ci si accorge che esso è esclusivamente il momento in cui si vive. È questo istante in cui sto scrivendo queste parole. Tutto quello che ho vissuto fino a ora è stato funzionale a questo istante. L’intero passato di un uomo ha avuto motivo per portarlo a fare quello che sta facendo nell’istante del suo presente. Poiché la vita è il momento in cui si vive, lo scopo della sua vita è quella cosa che sta facendo nel momento attuale.
Per il fatto che stai leggendo queste parole, lo scopo dell’intera tua vita, il motivo per cui hai vissuto tutto quello che ti è capitato, è leggere queste parole. Fra cinque minuti potrebbe essere qualcos’altro, però ora è questo. Per il significato che la vita è l’attimo in cui si vive. Allora ogni attimo è vitale e così, non distraendosi, si vive realmente.
Questo è un modo per fare pratica dell’assoluto. Se la vera realtà è vita e questa è solo quando si vive, allora scoprirò che non è attuabile un’azione che mi permetta di ingrandirmi. Perché questa è possibile quando si calcola una conseguenza che avverrà nel tempo. Tutte condizioni che sappiamo adesso essere irreali, dei semplici convincimenti che uno si fa. Sarebbe sì un affidarsi a qualcosa di imprevedibile (come è la fede in Dio), ma che non è esistente. È alla stregua di un calcolo azzardato che si spera porti qualcosa di concreto in un futuro.
In conseguenza, l’ego permette di riconoscere sé e il resto del mondo con distinzione. Quindi distinto dalla fusione che sarebbe la realtà, la vita (Dio). Ciò permette di credere a un’irrealtà, ma che favorirebbe il prendere coscienza della realtà vera. Quando si svela che non ci sarebbero distinzioni ma unità (un unico corpo, dice la teologia cristiana), allora si prende coscienza del proprio vero sé. Il quale è l’unico, universale, assoluto Sé: ci si rende conto di esserLo. Da questa conoscenza, il resto della vita in cui si è incarnati in una persona verrà vissuto sicuramente con leggerezza. I momenti di pace a ciò conseguenti e arrecati con la meditazione sono un assaggio dell’armonia totale che si abita.
Fare esperienza della “irrealtà”, che altrove abbiamo chiamato realtà materica e oggettiva, è fondamentale proprio per l’opportunità che porta nel farci accorgere della vera realtà. Diversamente, se si sceglie di ricercare la felicità credendo a quanto si potrebbe trarre nella realtà materica, ci si sforzerà senza sosta a ingrandirsi come spiegato più sopra.
La vita insegna che chiunque, se privo di malattie o devianze psichiche, può sospettare che la ricerca della felicità condotta attraverso esperienze basse e il mero piacere non porterà a nulla di esaustivo, totalizzante. Anche qualora si ottengano traguardi come gloria e fama, poiché ugualmente sono il prodotto di quello che la gente che non è famosa e la persona famosa credono a tal proposito. Nulla di consistente, se non idee, pensieri. Tuttavia, tale comportamento assurdo viene perseguito se l’individuo non sa come trovare un’alternativa, cos’altro cercare.
A essere precisi, come già sostenuto, le persone sono già l’assoluto. Quindi, la conoscenza sulla Verità e le indicazioni da seguire per ricordarla sono già nel suo intimo. La meditazione che semplicemente richiede a Dio di venire nella nostra vita, e di farlo senza aspettarsi qualcosa in cambio, è la fiducia necessaria. Perché è rivolta all’ignoto e non nei confronti del mondo; è rivolta all’esserci senza aggiungere nulla di più.
L’aspirante alla libertà, alla Verità, ovvero alla vera realtà, dovrà dedicarsi alla teoria e alla pratica il meno possibile fra loro slegate. Può darsi che solo parzialmente riuscirà a registrare i passaggi che i maestri tramandano. Ma questo sarà comunque favorevole a una qualche forma di apertura, alleggerimento e contatto con il Divino. Oppure, potrebbe indicare che egli ha raggiunto tutte le conquiste che ci si aspetterebbe da lui e non se ne rende conto. Perché quando infine si dimora in Dio, nulla di quello che si potrebbe dimostrare nella realtà materica eccita l’attenzione della persona che è giunta alla meta. E, parimenti, senza vederlo: un’abilità nel mostrare agli altri la via in lui eccellerà spontaneamente per il suo semplice esserci.











22/03/23

DARE VITA ALLA VITA - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 32

Qui di seguito il trentaduesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


DARE VITA ALLA VITA




Personalmente, il primo vero momento di pace vissuto è stato quando, imponendomi di cessare di giudicare, constatavo di essere obiettivamente nell’impossibilità di individuare divisioni e differenze. Questo vale per le persone, le azioni, le esperienze; mentre rifuggire il male e cercare il bene non è giudicare, ma discernere. Se non ero nella posizione di poter dare un giudizio, allora ogni cosa era da accogliere e nulla da respingere. Se ero in difficoltà ad accettare qualcosa o se la presenza di qualcuno mi infastidiva, si trattava per forza di un mio moto contrario (un mio giudicare, quindi) che seguivo senza esserne consapevole.
A quel punto, un’approfondita indagine su come sono mi avrebbe certamente aiutato. La quale mi aprii a una fase di studi sull’uomo, a partire dalla psicologia fino ai comportamenti sociali e agli eventi storici. Malgrado un aumentare delle mie conoscenze mi garantiva apertura a riflessioni nuove, non approdavo alla libertà maggiore che avrei dovuto trovare come conseguenza di un saper dare risposte a sempre più domande. In effetti, avevo già comprovato che l’apertura maggiore e la promessa di libertà erano direttamente precedute da uno smettere di dare valutazioni alle cose, agli eventi e alle persone. Più credevo di sapere e più trovavo limiti a sviluppare i miei pensieri. Ciò era collegato al fatto che la conoscenza di cui mi alimentavo non è assoluta, indiscriminata ma si esprime nel credere in una cosa e non credere in un’altra.
Questa attitudine influenzava così anche la quotidianità, dai pensieri banali alle scelte importanti. Se credevo, a causa delle mie ricerche, che la psiche umana reagisce in un dato modo, allora crederò che non possa comportarsi altrimenti. E questo era pure nei processi scientifici, nelle descrizioni dei fatti, nell’aspetto della natura, nei misteri dell’universo, finanche in ciò che riguarda la spiritualità. E, ovviamente, ancor peggio: nelle relazioni con me e con gli altri.
La conoscenza, allora, può essere una chiusura e me ne accorsi grazie al presupposto iniziale di questa mia ricerca. Questo era il dovermi mantenere scevro dal giudicare. Si trattava certamente di una regola tratta dalla dottrina cattolica, ma, seppure ragazzo, ne avevo colto un potere misterioso: attuandola potevo modificare me e il mondo circostante. Quando si è bambini spesso si scherza e ci si prende in giro; forse perché particolarmente sensibile, io ne soffrivo. Era chiaro che il mio malessere nel venir preso in giro era connesso a un venir giudicato. Perciò, provai a non giudicare gli altri bambini e la conseguenza fu che finirono gli episodi dolorosi e si manteneva un’atmosfera di divertimento. La quale era dovuta proprio al fatto che i miei amici in mia compagnia si sentivano liberi di dire e fare tutto quello che passava loro per la mente. Se non venivano giudicati da me, potevano lasciarsi andare e così io con loro: uno scherzare senza timori di venir rimproverati.
Certamente, il rimprovero che subivamo dagli adulti sotto varie forme, era una sofferenza che esorcizzavamo ripetendola a nostra volta contro gli altri. Essa era dovuta da: paternali a casa, giudizi scolastici, modelli da seguire e non seguire proposti dalla tv, urla a bordo campo negli sport e così via. Ma a queste osservazioni, ci sarei giunto solo più tardi. Nel frattempo, crescevo disorientato nel notare che il contesto in cui vivevo si esprimeva in un modo così ingiusto. Ed era inoltre distante, se non opposto, a quanto noi bambini venivamo educati; comprendendo in questo anche gli insegnamenti cristiani che da varie parti ricevevamo.
È stato così che ho iniziato ad avere la netta sensazione che la mia esperienza del mondo fosse caratterizzata spesso da persone ipocrite e arroganti. Le quali agivano in modo iniquo giustificandosi all’occorrenza per ciò. Forse, è questo che fa nascere in un ragazzo degli atteggiamenti che potrebbero essere interpretati come contestatari. Di certo, io, oltre a questi, avrei nel tempo sentito l’urgenza di capire veramente il giusto modo di comportarsi: non ci stavo a partecipare a quell’abbozzo di felicità, al dirsi che va tutto bene anche se non è così, alla rassegnazione del non poter cambiare le cose.
Il modello che avevo in mente era senza dubbio il mio stare con i miei amici gioiosamente perché protetti dall’assenza di giudizio. Eravamo noi, con quel comportamento, a proteggerci l’un l’altro. Ora che sono adulto, è nel rileggere questo episodio del mio passato che posso garantire che è sufficiente far entrare il Vangelo nella propria vita ed essere convinto della sua realizzabilità, che un processo verrà innestato. Anche se non ne siamo consapevoli e cercassimo di focalizzarci su altro: quando si ricerca la Verità, verrano continuamente forniti degli espedienti per coglierla.
Così che la Verità, la vera realtà, è che c’è solo vita. Tutti siamo immersi in essa senza distinzione e ne costituiamo il flusso, il nostro procedere è in realtà la sua corrente. Se non posso giudicare, non posso creare distinzioni: tutto è un’unica cosa. Se vedevo la vita in questo modo, pertanto, come avrei potuto respingere qualcosa? Sarebbe come respingere me: era, questo insegnamento, la sconfinata libertà di cui andavo in cerca. Addirittura, fa percepire di essere diffusi, non soffermati dal corpo e dalla mente. È percepirsi effettivamente “essere tutto” e così, in modo naturale, anche la conoscenza su tutto diventava leggibile.
Tuttavia, questo stato porta anche a una crisi, dovuta proprio a non sentirsi più. Perlomeno separati e distinti: che senso ha, a questo punto, concentrarmi su quello che voglio o che penso di dover fare? La realtà di tutti i giorni perde la sua gravità: questa crisi, che potremo definire di identità, può essere infatti ben affrontabile solo se si accetta che ogni cosa è intrinsecamente leggera. Non nel senso di poco importante, ma soave, quieta, amabile. La realtà di tutti i giorni è costituita anche da problemi e preoccupazioni, però caratterizzati da mutevolezza e transitorietà, malgrado la loro apparente pesantezza. Come se fossero le nuvole che, anche se si fanno grosse e minacciose, non potranno mai coprire interamente e per sempre il cielo. È il cielo, sottofondo di tutto, la vera realtà, Dio. Il quale è amore, che permane, sempre presente benché ci si soffermi a guardare le nuvole invece che il cielo.
Alla base di questa crisi c’è il dover procedere d’ora in avanti senza affidarsi a nulla di certo. Facendo uso sempre della stessa sintesi del non giudicare: se non posso dare giudizi, non posso neppure sapere cosa accadrà. Si lascia una vita già pianificata dal tendere ad allinearsi al giudizio proprio e degli altri su di sé. E si inaugura allora una vita volta sempre all’imprevedibile. È a questo punto che si scopre che come non si può giudicare e conoscere il mondo esterno, così, in realtà, si ignora il mondo interno.
Tale crisi è sintomo di un progresso verso la Verità, la scoperta del vero sé. Difatti, se siamo tutti uniti in una sostanza, un solo sé, come farei io a osservare ciò? Nel senso che ero arrivato al punto dove “vedevo” che tutto è un’unica cosa. Non mi accorgevo che nel fare ciò, esistevo come “io” che osservava il tutto. Se esiste questa fusione globale, come può esserci un “io” che riesce a scostarsi un poco per guardarla? Scopro che stavo facendo una distinzione; dichiaro che mi si prospetta solo l’ignoto d’ora in avanti, ma mantenendomi attaccato a una posizione nota: me.
Allora, anche quello che io credo di me è una “credenza”, un’idea creata appositamente per potermi descrivere, dare uno scopo, un’immagine. Ovvero, potermi riconoscere in qualcosa e così giudicare e poter essere giudicato. In realtà, anche se dico “io sono” è un esprimere un giudizio: c’è un “io” che “è”; non solo dire com’è specificatamente quell’io. Nell’astenermi dal giudicare, non posso più affermare: “io vado” da qualche parte, “io mangio”, “io sento”, ecc. Non si può neppure affermare: “io”.
Utilizzando l’esempio del capitolo precedente: avevo scoperto che non sono distinto dal resto del mare, ma un’onda che è il mare. Ero solo un’onda che veleggiava nella corrente del mare. Soltanto quello, ma ora riconosco che in realtà non c’è nessuna onda. È solo una interpretazione, un’illusione: c’è solo mare. E non perché io non esisto: perché io sono il mare. Il mio sé è l’unico, vero sé, assoluto: Dio. È il Regno, quello che nella teologia cristiana viene indicato con espressioni come “dimorare” nel Signore (la grazia).
Certo, il me che vive nel mondo c’è sempre. Vado a lavorare, non guadagno mai abbastanza, mi ammalo, rimango a piedi con la macchina. Però ogni cosa viene vissuta rimanendo a contatto con il Divino, e per questo, permane beatitudine, consapevolezza e pace.




15/03/23

COME VEDERMI SE POSSO VEDERE SOLO DI FRONTE A ME? - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 31

Qui di seguito il trentunesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.

COME VEDERMI SE POSSO VEDERE SOLO DI FRONTE A ME?




Questo nuovo passo (vedi capitolo precedente) in avanti si rinviene quando si smette di focalizzarsi su “io” che faccio le cose, che vivo certe esperienze e credo o no a ragionamenti. Non avviene nello sforzo di cambiare punto di vista ma a seguito di un naturale processo che ha inizio con il semplice accettare che non si può conoscere tutto. Che lo sconosciuto è costantemente da accogliere, in ogni sua forma. Le credenze personali o di una società possono variare o mutarsi: più si crede di essere in un modo determinato e meno ci si apre al mistero.
Così, la conseguenza sarà che diminuirà la considerazione di se stessi e di ciò che si vuole o che si prova come le cose più importanti, e questo si rivelerà molto utile. Non sono neppure veramente delle “cose”, in quanto la conseguenza di questo processo sarà l’essere fusi in Dio. Quello che nel mondo cristiano viene chiamato “grazia”. Tuttavia, se si fa difficoltà a cogliere tali espressioni, si può cambiare il termine Dio, perché è solo una parola; se può aiutare, si può sostituirla con: la Coscienza Suprema, l’Amore, il Tutto, la Consapevolezza, la Vera Realtà.
Ci si accorge di essere a questo punto perché si vive nella beatitudine e nella consapevolezza. Non è che per questo non si incapperà più in sofferenze, angosce o problematiche della vita di tutti i giorni. Ma verranno vissute senza perdere di vista cosa in realtà esse sono e senza mai perdere la gioia. Allora, uno può essere vittima di un evento negativo o passare un periodo di dolore, ma mantenendo comunque la felicità. La quale è imprescindibile dal suo stato, dalla grazia. Essa è autosufficiente, come già anticipato: non è creata da qualcosa di esterno né può così venire condizionata. C’è e basta, proprio come il vedere che quanto si vive (anche un evento negativo o un periodo di dolore) non equivale al sé, ma solo a un ospite che si accoglie in sé.
Addirittura la propria morte verrà vissuta in questa modalità. Potrò guardare la mia morte che uccide il mio corpo e impaurisce la mia psiche, perché io non sono intrinsecamente quel corpo e quella mente che subiscono quel momento. Io sono colui che osserva ciò che avviene: se uno impara a guardare le proprie emozioni, allora vuol dire che non è quelle emozioni ma egli è nel punto dal quale sta guardandole.
Lungo il viaggio che abbiamo effettuato del Vangelo, abbiamo scoperto di essere come onde di un mare. Ecco che ci appare lampante che in verità viviamo una realtà dove solo ci si è convinti, di essere separati dal tutto: ogni onda è in realtà lo stesso mare. Ora, ci accorgiamo che l’onda che scoprivamo di essere, neppure esiste. Se non per il lasso di tempo che le serve per vedersi innalzata dalla massa totale dell’acqua, approfittando del temporaneo punto di vista esterno.
Il vero sé è soltanto testimone di questo sé transitorio.
C’eravamo convinti di essere delle onde, distinte seppure unite all’immenso mare. Ma questa è solo un’illusione di un attimo: l’onda, in realtà, si torna a infrangere nell’acqua sottostante dalla quale, per il caso del vento, si era eretta e increspata. Il passo nuovo, di cui qui parliamo, è il momento in cui si ritorna nel mare. E tale fusione non permetterebbe più di rilevare dove era l’onda di poco prima. E l’onda rappresenta il nostro “io”, il quale, appunto, è solo una congettura che è utile per prendere coscienza di cosa siamo veramente e della nostra vera realtà: l’appartenere confusi al mare.
Infatti, l’onda del nostro esempio ora è tornata al mare ricordando l’esperienza di quella temporanea (solo apparente) separazione. E quindi avendo coscienza di come è effettivamente il mare, la vera realtà. Mentre, maggiormente essa si attacca a quello che crede e ulteriormente durerebbe la sua esperienza come onda e la sua distanza dall’essere mare.
Fuor di metafora, le persone passano l’esperienza di questa vita devote a un credo. Il quale può essere nei confronti di qualcosa di spirituale oppure materiale, anche il non credere a nulla o cambiare credenze nella maturazione delle esperienze sono un credo. E queste convinzioni porterebbero a essere convinti, persuasi (e quindi avvinti) sulla verità di questa realtà. Sono idee costruite su pensieri, come potrebbero infatti fare accorgere di qualcosa che va oltre la mente? Possono solo realizzarsi attraverso quello che si percepisce in questa realtà. Che è importante proprio in misura dello stimolo che dovrebbero dare a cercare oltre, come nell’esempio già fatto delle religioni.
Qui non si vuole invitare a non credere a nulla, ma a far notare che se si crede in qualcosa che si può osservare, studiare e far evolvere con ragionamenti si rimane nel regno del già conosciuto. È come se l’onda credesse solo all’essere onda e quello che approfondisce della sua vita è solo quanto potrebbe conoscere dell’essere onda; la struttura, la profondità, lo spessore di tale esperienza e non la verità: che l’onda non esiste, è in realtà mare (è solo un attimo di increspatura dell’immenso mare) e non sa (temporaneamente) di esserlo perché si vede onda.
L’invito ad accogliere lo sconosciuto è appunto finalizzato a questo, a un andare oltre a quello che si potrebbe meramente registrare con i sensi e i propri pensieri. Nel Vangelo, ciò è espresso nella raccomandazione di “non giudicare”, che porta a un accogliere e amare in maniera indiscriminata e senza preferenze. Altrimenti, il momento di essere “onda” si protrae in modo indefinito: ci si impedisce da sé, con la propria condotta, a tornare al vero Sé (Dio).
Allora, in questa esperienza nel mondo, l’uomo ci rimane finché è convinto che essa sia la sua vera natura, la sua realtà. Come se, nella similitudine che ci siamo abituati a usare, l’onda potesse venir congelata e in quello stato rimanere. Bisogna proprio essere testardi per volere una simile assurdità, protraendo un evento che invece durerebbe un istante. L’infinito oceano ha preso la forma di tante onde, ma le onde non esistono che per il momento di essere onde. Esse, in realtà, sono l’oceano: quello che l’uomo vive è il modo in cui l’onda crede invece di esistere e di essere una cosa diversa e distinta dall’oceano. L’essere umano, grazie anche ai suoi “credi”, alle sue religioni quando non praticate in modo profondo, alle proprie idee, rafforza la propria sensazione di sé. Egli arriva anche a non guardare più all’oceano dal quale proviene, lo dimentica (come introdotto qualche capitolo fa).
Come il mare, Dio appare in tante forme, anche in quella dell’uomo. Ma l’uomo, come l’onda, non esiste, è semplicemente Dio che ha preso quella forma. È un’illusione convincersi di esistere come essere umano e la realtà in cui vivrebbe sarebbe a sua volta un’improvvisazione; proprio come se le onde, nel lasso di tempo che sono onde, guardandosi attorno e vedendo solo se stesse si convincessero di vivere in una realtà “ondina”, fatta a misura di onda, magari anche creata da Dio per le onde e che tutto l’universo è a loro disposizione.
Scoprire di non essere un essere umano non è una contraddizione. Né farebbe perdere l’occasione di vivere veramente o indurre a vivere fuori dal mondo. Ma il contrario, perché si scopre l’essere in realtà il “mare” e si comincerebbe a vivere il vero sé; che è un unico Sé universale (o se vogliamo giocare ancora con l’esempio: oceanico). Chi lo scopre, continuerà a vivere nel mondo (si ricorda che il Regno di Dio non è un andare da un’altra parte, ma un cambio di stato), ma lo farà con la beatitudine e la consapevolezza del percepire la fusione (la grazia). Cioè l’essere in realtà l’oceano; tutti possono vivere così, c’è stato mostrato come fare.
Quello che c’è stato mostrato dai maestri e la fondatezza di quanto trascritto in questi capitoli sono autentici perché portano a un effettivo cambiamento nell’esperienza di questa vita. Cambiamenti che non possono essere rilevati se si crede innanzitutto alla realtà umana (“ondina”). Poiché essa non potrà mai portare ad assolute felicità, soddisfazione e realizzazione proprio perché manca di assolutezza. Caratteristica che sappiamo avere solo Dio e, nel nostro esempio, “un oceano” sconfinato.
Per riassumere, se questa realtà non è la vera realtà, ma una costruzione di convinzioni che aiutano l’uomo a credere che sia vera, allora si può osservare ciascun componente di questa realtà come un oggetto. E questo proprio perché è stato creato apposta, artificialmente, e ciò vale anche per i sentimenti, le sofferenze, i desideri e così via. Quando si giunge a vederli in questo modo allora si è liberi di considerarsi come un “io” che sta osservando. Pertanto non si è quell’esperienza che si vive e quell’io che sta vivendola. Successivamente, si scoprirà che pure quell’“io” che osserva la vita non esiste, esiste solo la vita. E questo processo è vero perché comporta uno stato di pace, gioia e consapevolezza permanente. Inoltre, bisogna ricordare che tale processo non può avvenire perché lo si è letto o lo si è afferrato con la mente, perché altrimenti sarebbe solo un altro pensiero realizzato o un altro desiderio soddisfatto. Può essere intrapreso senza uno sforzo, senza volerlo intraprendere a tutti i costi, cioè per avere qualcosa in cambio (la felicità, ad esempio). Esso sarà una spontanea conseguenza del lasciarsi andare senza giudicare. Uno può anche essere già a questo punto e non saperlo neppure.
Ce se ne può accorgere osservando con quanta facilità accogliamo quello che propone la vita. Quanto turbamento o paura ci prende nei momenti di difficoltà: quando si è a contatto con Dio, infatti, c’è solo pace; smettono di esserci inquietudine, sofferenza, preoccupazioni. E se esse capiteranno, non faranno mai perdere la propria gioia.



08/03/23

INTERVENIRE NEL TEMPO E OLTRE IL TEMPO - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 30

Qui di seguito il trentesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


INTERVENIRE NEL TEMPO E OLTRE IL TEMPO




Non aver più bisogno di una religione o comunque di un percorso spirituale prestabilito, non significa essere contrari alla religione o a quel percorso spirituale. Voler essere contro vale solo quando ci si identifica di nuovo nella mente logica che riconosce le esperienze esclusivamente in una modalità oppure nella sua opposizione. La religione è stata indispensabile, anche con le sue regolamentazioni non sempre comprensibili, proprio per portarci al punto di non averne più bisogno. Al pari del genitore che accompagna il figlio fino a che diventi autonomo. Non percepire più come essenziale un percorso spirituale vuol proprio dire di averlo realizzato, portarlo al suo maggiore sviluppo. Come il bruco che nel suo apice spontaneamente svanisce per lasciare spazio alla farfalla.
Allo stesso modo, desiderare di rimanere aderenti e partecipi di un dato cammino spirituale a volte ha più a che fare con un desiderio di sicurezza, piuttosto che di vera sete di Verità. Sono desideri di cui si ambisce un appagamento al pari di un qualsiasi altro desiderio a cui si mira. Le religioni forniscono “un’immagine” di Dio (anche quelle che non permettono formalmente di raffigurarLo per immagini perché anche questa sarebbe un’immagine, un’idea) a coloro che ancora non sanno vederLo. A coloro, cioè, che non lasciano sufficiente mano libera alla propria mente visionaria. È essa che dischiuderà al fedele la lettura di ogni cosa; quello che precedentemente si specificava con il termine “intuizione”.
La razionalità è allora il mezzo che permette di adoperare la mente visionaria, creativa, al di sopra dei desideri che rendono inquieti finché non si soddisfano. Fa guardare con pace alle vicissitudini mondane, alla rete delle agitazioni sensuali e a tutte le minime preoccupazioni. Tutte le pratiche per ricercare la conoscenza, riscontrabili fin dall’antichità e in ogni luogo, prevedono questa quiete a favore di una maggiore introspezione. Il capovolgimento che Cristo chiamava metànoia nell’indicare un cercare non fuori ma dentro di sé. Che prevede una serenità e una meditazione atte a scoprire in sé la conoscenza, il Divino, la Coscienza che è unica e universale.
Spesso si rimane legati a un cammino spirituale o a una religione perché nella certezza che tale legame porti qualcosa in cambio. Che evidentemente si perderebbe al cessare del legame. Un miglioramento, un benessere, un sentirsi adeguati perché parte del gruppo che si considera giusto o migliore, una guarigione, una tradizione, possono esserci davvero tanti motivi. Non un superare il bisogno di avere qualcosa in cambio, ma il contrario: cercare la soluzione, anche spirituale, utile per il proprio vivere, per quel che dovrà avvenire. Si tratta di un impegnarsi in quello che avverrà in questa realtà, in questo tempo invece che superarlo e scoprire cosa vi è dietro. È un credere a questo tempo e non a ciò che sta oltre al tempo, cioè Dio. Purtroppo, è proprio il credere che il tempo passi e che porti così a vivere in balia di complicazioni e vicissitudini che si vorrebbero controllare, a far sì che si legga il tempo come un nemico da cui correre ai ripari. E il cercarne un sollievo, anche attraverso un cammino spirituale, è uno sforzo che invece di liberare, alimenta ulteriormente la convinzione che il tempo sia dominante.
Ed è per questo che un cammino spirituale non viene lasciato cadere: perché lo si pratica per intervenire sul tempo. E non lasciare che ci mostri che il tempo, come realtà transitoria, non esiste. Sarebbe come sforzare che il bruco rimanga così com’è invece che lasciare che cada e liberare in questo modo la farfalla.
Non appena si inizia il percorso per conoscere la Verità, iniziano a cadere i desideri interessati. Si smette di essere convinti su cosa è giusto e cosa non lo è, nel senso che si legge la realtà come una composizione di esperienze che sono tutte giuste per me, per il percorso stesso che ho da compiere. Il quale, inteso come scopo, non deve portarmi a conquistare nulla di più che non la conoscenza della vera realtà, che è Dio. Il praticante scoprirà, infatti, che in verità egli non è più contro alcunché perché tutto ha motivo di essere. Al di là delle personali ragioni, delle personali convinzioni e prese di posizione sul mondo e sui desideri a cui si aspira.
Quando si smette di sentire di avere ragione, che la verità è oltre al sentimento di “avere ragione” ed essere dalla parte giusta, anche oltre alla mia ragione che vorrebbe la verità differente da come è, pure la religione smette di essere indispensabile; poiché era praticata per desiderare la verità più vicina alle proprie idee. E questo è, appunto, un passare ad altri percorsi. Come il bambino che passa dalla scuola primaria a quella secondaria.
Una religione che ti promette di sentirti amato o di soddisfare quanto desideri per la tua vita, ti aiuta a superare ciò che funge da ostacolo? Oppure accresce il tuo sentirti non amato o insoddisfatto se non ottieni quello che vuoi? Non è che invece un cammino spirituale ti deve portare a vedere che i tuoi bisogni e la paura di non accontentarli, sono solo delle illusioni? Il tendere a essere più forti per vincere le proprie paure è un modo, a contrario, per credere che le paure siano reali.
Ed è così che sondando tutte le religioni, facciamo la conoscenza di persone che le hanno praticate come un’esperienza interna piuttosto che esterna. Un viaggio psicologico che porta a scoprire cosa c’è dentro di sé, prima ancora che soddisfare riti e cerimonie. Non tendere a considerare la realtà come prodotto della somma dei propri pensieri perché lo si è scoperto dai libri, ma attraverso una meditazione che vede nell’osservazione di sé la porta per un passo più profondo.
Questo nuovo passo, non è detto che sia per tutti, non subito almeno. Già il giungere a dubitare che la realtà che si vive sia quella vera, è un enorme progresso. Di quello successivo, si può essere informati e, anche se non verrà compreso, le informazioni si depositeranno come un seme che al momento giusto germoglierà.
Questo ulteriore passo è possibile quando nell’osservazione di sé, ci si domanda chi è esattamente che sta facendo l’osservazione. Mi accorgo di avere un desiderio, vivere un piacere o subire un dolore: chi sta in realtà vivendo tali esperienze? Ovviamente, sono io a viverle, ma abbiamo imparato a considerare tali esperienze come degli ospiti che ci viene richiesto di dare asilo. Una sofferenza, ad esempio, non prendo a viverla come una condanna che mi domina. Ovvero non mi identifico in essa, è qualcosa che compare nella mia vita, come se mi camminasse accanto. Così, è qualche cosa che io posso guardare, e se io la posso guardare, infatti, non è me. Se fosse me, non potrei vederla, proprio perché non potrei guardarmi come se fossi esterno da me.
Eppure, questa sofferenza riesce ugualmente a influenzare quello che sono. Ma essa lo può fare proprio come qualsiasi esperienza finora vissuta mi ha condizionato rendendomi quello che sono. Il passato, infatti, non determina chi sono, ma determina questa struttura di impressioni, di pensieri, che creano una struttura più grande formata dal mio corpo e la mia mente. La quale mi permette di vivere in questa realtà, tuttavia non è me: sarebbe bastata una manciata di esperienze diverse nel mio passato per rendermi un’altra persona rispetto a quella che sono.
Allora, io non sono uno scrittore, un artista, né alcunché di quello che sono stato finora se non a causa del mio passato. Il quale, se fosse stato differente, mi avrebbe potuto portare ad affrontare un presente diverso. E, allo stesso modo, se fosse possibile cancellare il nostro passato, cosa saremmo?
Quello che viviamo, pertanto, non è veramente chi siamo se non come mero strumento per sperimentare questa realtà e, iniziando un percorso di consapevolezza, si rivelerebbe finalizzato a farci scoprire la vera realtà. Quello che io chiamo “io”, in definitiva, si scopre essere un’illusione quando ci si accorge di ciò. Ovvero, quando ci si accorge che ciò che si crede essere “io” è invece qualcosa di osservabile. E se è osservabile allora è esterno da noi, proprio come so che l’abito che indosso non è il mio corpo: lo posso levare, appendere nell’armadio e guardare.
Il mio vero “io” sta al di sotto di tutto quest’apparato e quando si giunge a vederlo è di fatto uno spalancarsi alla verità. Ma non è ancora la piena libertà, l’unione totale con Dio, la grazia. Ciò perché si sta ancora credendo che ci sia un “io” che fa qualcosa: osservare quello che questo “io” è e quello che non è.
Innanzitutto, un buon risultato è così accorgersi che pure la sofferenza, anche la croce che abbiamo in questa vita, non è da combattere o da cercare di accettare. Perché vedremmo che anch’essa non esiste: è il prodotto dei pensieri fuoriusciti da quella struttura fatta di mente e corpo che non è me, seppure, per convenzione, chiamo “io”. Questa, che abbiamo visto essere effimera per il semplice costituirsi di casuali esperienze passate, creerà a sua volta casuali sofferenze. Casuali perché è solo per quel che abbiamo vissuto e crediamo, che ci convinciamo che siano delle croci insuperabili.
Io accolgo la mia croce come gesto di amore di accogliere una creatura di Dio, ma essa è effettivamente una croce solo perché il mio “io” la crede tale. Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nel ricordare tutte le varie sofferenze che abbiamo sperimentato nella nostra vita: quando le si vivevano erano intollerabili, mentre, con il passare del tempo, appariranno più lievi o addirittura fanno sorridere quando ci ritornano alla memoria. Oppure quello che io considero una croce, per un’altra persona, a causa delle esperienze del suo passato, lo percepirebbe di una diversa gravità.
Questo accogliere riempie la vita di pace e ci si alleggerisce da preoccupazioni e timori. Personalmente, me ne sono accorto di ciò proprio perché da un certo punto in poi non registravo più nella mia vita le cose che fino ad allora mi procuravano angustia e inquietudini. Dov’erano finite, come potevano essersi dissipate? Si è trattata di una vera sorpresa, tuttavia non ero ancora del tutto in pace. Questo perché, come scritto più sopra, c’era ancora un “io” che si domandava queste cose.
È ottimo arrivare a osservare la propria croce come se fosse un mero vestito, e questo sottende comunque anche un continuare a provare dolore se è qualcosa di doloroso. Non è che si diventa insensibili, semmai le sensazioni e i sentimenti che si provano sono vissuti accogliendoli e non subendoli o cercando di contrastarli oppure ignorandoli. Dopodiché, si può anche arrivare a vedere se stesso che sta osservano la propria croce. Ovvero, capire che c’è solo un “io” e, successivamente, che pure quell’io in realtà non esiste.
Io sono tutt’uno con la vera realtà, con Dio, come potrebbe allora esserci effettivamente quell’io? Che la pensa, la osserva, ne dà definizioni. Già da vari capitoli abbiamo preso l’abitudine a leggere la realtà che viviamo come visionaria. Addirittura il nostro mondo interno e Dio possono essere sperimentati esattamente come vengono “immaginati”. Qui, inoltre, si svela che le personali sofferenze e la croce sono solo un prodotto dei propri pensieri e credenze. Così, allo stesso modo, pure il proprio “io” è il risultato di pensieri e credenze; solo grazie a tali presupposti esisterebbe. La vera realtà è che tutto è un unico contesto con Dio, che è Dio.
Più ci si fida dei propri pensieri e delle proprie credenze e più difficile sarà l’accesso alla vera realtà. Alla vera realtà, al vero io ci si avvicina quando non servirà più definire ciò che è reale e ciò che è “io”.





01/03/23

L’UOMO E’ IL MODO IN CUI DIO E’ IN QUESTA REALTA’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 29

Qui di seguito il ventinovesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


L’UOMO E’ IL MODO IN CUI DIO E’ IN QUESTA REALTA’




Nel percorrere i vari capitoli, il lettore è stato spinto a perdere l’equilibrio che porta a vedere secondo ordini e conseguenze specifiche. Dio stesso, argomento centrale del libro, viene presentato sotto luci che Lo mostrerebbero in modo diverso a seconda del tema trattato. Ad esempio, all’inizio viene ricordato che ci si sbaglia a umanizzarLo, che semmai deve essere considerato pura coscienza, e si finisce presentandoLo di nuovo, inaspettatamente, come una persona.
Il senso di questo labirinto intellettivo è che non ci serve precisare come una cosa è, neppure Dio. Perché se la reale realtà è eterna e infinita, essa si manifesta senza limiti. Tuttavia, per la mente umana non è così, essendo invece di questa realtà transitoria e temporanea. Pertanto, vengono fornite al lettore le informazioni che sul momento ha bisogno per cogliere determinate sfumature.
L’aspetto fondamentale è l’avanzare sempre di più senza l’abitudine di appoggiarsi al conosciuto, ai dati sicuri e riscontrabili in questo mondo. La libertà che ne consegue deve portare come consuetudine l’affidarsi a oltre ciò che si può cogliere con la mente. Ovvero, che non debba per forza esserci una logica che in modo lineare soddisfi tutti i ragionamenti che servirebbero per portare la propria comprensione da un punto a un altro.
La mente servirebbe proprio a permettere di deviare dal ragionamento prevedibile e analitico. Questo, abbiamo stabilito, è un sano uso della razionalità, invece di un mero reiterare nozioni già acquisite e cercarne conferma. È proprio grazie alla mente, quindi, che si riuscirebbe ad affrontare l’esperienza materiale in modo compiuto. Perché la mente svelerebbe i confini che il pensiero umano ci impone e che devono essere superati dal praticante. Esperienza che si mostra ancora una volta indispensabile per realizzare la reale realtà, conoscere l’Assoluto. Se invece di questa vita terrena si sperimentasse solo l’infinito, non potremmo accorgercene.
L’assoluto non può essere compreso, come si è già scritto, proprio per il suo essere impossibile da contenere, da inscrivere in qualcosa di finito. Nei vari capitoli, si è lasciato intendere che l’episodio approssimato che è questa realtà, è reso in forma tangibile ed esperibile direttamente per mezzo dell’essere umano. Il quale crea la realtà in quanto, in verità, dimostrazione divina (e Sua Rivelazione). Negli ultimi capitoli, si è introdotto che la realtà, come ogni elemento in essa inserito (si faceva riferimento a qualcosa di astratto, addirittura, come la religione), è visionaria. Trattasi del prodotto della visione dell’uomo: quanto egli immagina, così prenderà forma la vita, che essendo assoluta non avrebbe altrimenti una forma definita.
La sostanza diviene materia ed essa, in questo modo, dà forma alla sostanza; benché ogni cosa sia la medesima sostanza, la stessa vita. Allora, pure Dio acquisisce la forma a seconda di come noi decidiamo di vederLo, proprio come l’essere umano prende una forma in questa realtà a seconda di come egli si vede. Dio e l’uomo sono la stessa sostanza, e noi, seppure incarnati, diamo una forma all’universo per il semplice fatto di essere implicati in esso. Una questione di identità, si potrebbe precisare.
L’essere umano non è qualcosa di staccato o differente da Dio, è Dio che si manifesta e si comporta in questo modo (il modo in cui si comporta l’uomo) in una realtà come quella materica. Per aiutare, una similitudine potrebbe essere l’immagine di un elemento, come l’acqua, che cambia di stato e si comporta in modo differente a seconda delle condizioni esterne. E questo applicarsi a cercare di spiegare qualcosa che è inspiegabile testimonia la preziosità della mente umana. La quale può arrivare fino a questo punto: il creare immagini per suggerire una comprensione logica. Oltre, e quindi per una piena esperienza, bisogna paradossalmente (e coraggiosamente) accantonare la mente e affidarsi ad altro, alle intuizioni: arrendersi a esse.
L’esperienza totale della vita si rivelerà compiuta nel conoscere se stessi: il sé più profondo che si intuisce essere appunto tutt’uno con il Sé assoluto, la divinità universale, la vera realtà. Conoscersi, così, diviene un tendere a un mettersi da parte a favore di altro; quel qualcosa di immensamente più grande di noi che ora ci appare essere (anche) noi.
Tale conoscenza di sé si può compiere, di conseguenza, nel ricercarla, nel fare l’esperienza del mettersi da parte. Non può in alcun modo essere acquisita o imparata tramite lo studio. E il praticante l’otterrà nel vivere la propria vita accogliendo; proprio come ci mostra Cristo nel Suo essere grato per ogni cosa, pure per la croce. La stessa trasmissione della conoscenza, della gnosi, avviene in maniere varie: si veda, ad esempio, la moltitudine di religioni e filosofie espresse dalla civiltà umana. Questo proprio perché la conoscenza non può essere svelata direttamente: il maestro prepara il praticante a ospitarla dentro di sé mostrando come essa ha cambiato innanzitutto lui. Ecco perché, spontaneamente, una religione istituzionalizzata, una cerchia di adepti irrigiditi nelle formalità, una chiesa gerarchizzata possono solo fungere da punto di partenza. Verrà da sé scorgere quanto poco le formalità potranno aiutare quando si incontra la libertà dell’aprirsi all’incontro con Dio. Da qui in avanti, il percorso dovrà essere condotto autonomamente: i maestri, sotto qualsiasi forma, verranno all’occorrenza. E la meditazione e la preghiera sono il “propulsore”.
Come è indispensabile che la propria smania di migliorarsi e perfezionarsi venga provocata da una religione, allo stesso modo è utile che, con gratitudine, il fedele sappia salutare il nido sicuro di una Chiesa e aspirare solo all’unione con il tutto. Un impegno che deve valere come faro nella vita intera perché sicuri che comporterà la felicità, soddisfazione e realizzazione; allo stesso modo di quanto si ha sperimentato che nulla della realtà materica potrà portarci a tali traguardi in maniera esaustiva e completa.
Quindi, non bisogna neppure rifuggire dal mondo perché tramite esso le possibili delusioni spingeranno a cercare altro come: l’accoglienza totale, l’amore assoluto. È probabilmente grazie alla natura divina dell’uomo che egli sospetta che tali obiettivi siano raggiungibili. Ed è così che ne inizia la ricerca; e chi ne intravede il traguardo sia nella posizione, in modo naturale, di mostrare agli altri la via. È come se nel profondo dell’essere umano echeggiasse un richiamo all’assoluto. Più egli si interroga su ciò che vi è oltre il percepibile e più sente che questo richiamo fa parte della sua indole. Infatti, come è forte la tentazione a crogiolarsi nelle esperienze sensuali e mondane, tanto attrattiva è la salita verso un piano dove è tangibile la beatitudine e la grazia con la vera realtà.
La mente logica permette di ottenere le grandi conquiste che sono servite all’uomo per progredire. Ma è la mente visionaria, creativa, che le ha trasformate in qualcosa che possa generare la spinta. La vera realtà, il “Regno di Dio”, può offrire accessi attraverso maestri inaspettati come l’arte, la filosofia, la scienza se le persone si “mettono da parte” a recepire, in tale umiltà, le intuizioni che faranno affiorare la conoscenza.
Un ostacolo, allora, è quando si confonde la mente logica con quella creativa. La prima permette di essere più idonei nel mondo proprio come la seconda più eccentrici. Oggi viviamo la condizione privilegiata che la tecnologica può fare i lavori mentali e logici al posto nostro. E lasciare così le persone libere di trasformare e sperimentare i materiali a disposizione. Attraverso questa libertà, questo gioco, sicuramente si può partire per il viaggio verso la conoscenza di sé.
Un palese fraintendimento è, ad esempio, quei social network dove spesso i fotografi presentano le loro fotografie cercando innanzitutto di essere più perfetti, più esatti. Quindi in linea con un parametro, sempre lo stesso (che forse aiuterà loro a venire più facilmente selezionati nelle ricerche in Internet), e non maggiormente creativi. Affidarci ai soliti parametri, alla logica quindi, è un procedere nel prevedibile. È una sicurezza che la tecnologia ci sta evidentemente togliendo. Nel nostro esempio: non ci sarà più bisogno di un fotografo per fare foto perfette, basterà la macchina. E lo stesso per i calcoli matematici, le composizioni musicali, e tante altre attività. Questo non è un problema che si aggrava, forse è invece un dono per liberarci dall’obbligo di fare noi il lavoro “da macchina”. Cioè un focalizzarci nell’uso della mente logica e utilizzare invece la razionalità per espanderci senza le sicurezze usuali, i punti di riferimento.
Paradossalmente, quando si va a perdere queste certezze si fa la scoperta di una sicurezza nuova, che non avremmo mai saggiato senza incappare in tale crisi. La nuova sicurezza si basa sul sollevarci dall’avere necessità di appoggiarsi a sicurezze. Avanzare senza anteporre nulla che funga da sostegno perché sicuri che qualcosa di immensamente più grande di noi agirà. Non doversi preoccupare di nulla, che equivale a non ritrovarsi nella paura. È quello che nel mondo cristiano viene chiamato “salvezza”.