31/03/14


Ho aggiunto un'altra nuova pagina al mio blog, si chiama "shop". E' nata dalle riflessioni sui progetti delle mie nuove performance che mi hanno portato a pensare a quanto sia importante la condivisione nei miei lavori: ho una enorme quantità di foto che invece rimangono solo per accumulo. Per queste foto non ho più un interesse ben riconoscibile, sono servite per miei studi o test su pellicole e macchine fotografiche, alcune hanno contribuito a comporre altre immagini. Quindi, rimanevano accantonate seppure hanno contribuito a qualcosa e mi sono state utili, o lo sono ancora in un qualche modo approssimativo. Così, ho creato quello spazio per renderle fruibili. Voglio che abbiano un valore, che non siano considerate erroneamente degli scarti, e allora hanno avuto ognuna un prezzo di vendita. Ma in tutto questo programma non avevo messo al centro il fatto che qualcuno le avrebbe poi acquistate, cosa che sta invece succedendo, ma il metterle a disposizione, farle circolare. Le cifre sono piccole, ma sufficienti per coprirmi le spese fisse.
La mia idea era quella di mettere un po' d'ordine perché stavo sempre con il pensiero che avrei perso le tracce di qualcosa, che non potrei trattenere e ricordare tutto; oltre al rischio della trascuratezza c'è da considerare che ho anche perso un sacco di materiale nell'attesa di utilizzarlo al meglio, rompendo un hard disk. Anzi, proprio questa atmosfera di incompletezza, di messo da parte, di qualcosa insomma che sta lì in attesa di un mio intervento, di una mia considerazione finiva in realtà per limitarmi, appesantirmi piuttosto che arricchirmi e darmi stimoli in più... Così, una parte l'ho buttata e un'altra l'ho messa in ordine in gruppi.
Personalmente, trovo molto stimolante questa operazione perché il liberarmi di quanto potrei considerare superfluo o non più utile era stato in passato profondamente deleterio, invece; mentre oggi mi ravviva. Era stato deleterio perché lo vivevo in un modo fondamentalmente differente: il prepararmi ad una vita senza aver bisogno di nulla, senza alcuna saldezza o cura. Stavo per dedicarmi alla vita di un barbone e ci sono riuscito, per un lungo periodo ho pensato di essere del tutto slacciato e alleggerito. In realtà, non ho fatto che accumulare: il liberarmi dal rendere conto alle\delle cose si era dimostrato, a contrario, lasciare che queste avessero un peso. E questo capitava proprio perché non ricercando punti fermi, qualsiasi cosa, anche mentale, poteva disperdersi facilmente e pertanto me ne attaccavo. Tutto l'opposto di ora che invece, paradossalmente, le cose amplificano la loro importanza (il loro posto nel mondo anche) nel lasciarle andare, dividendole con altri.
Vedi ad esempio, la collaborazione con l'artista Marinella Senatore che ospita una traccia audio di Kriptoscopia per il suo progetto Estman Radio, all'interno di una mostra alla Kunst Halle di San Gallo.
Perlomeno, ora ci guadagno nel vedere con più agilità ciò che voglio e come ottenerlo. Amen.

30/03/14


In continuazione al testo precedente: sostanziale differenza fra arte elettronica e arte meccanica.
Paradosso: in una situazione estrema, di disastro come una guerra o un terremoto, oppure in un mondo post apocalittico, non potremmo produrre e conservare testimonianze fotografiche perché oggi la fotografia è dipendente dall'elettronica. In teoria si dovrebbe ricorrere alla tecnologia della pellicola.

29/03/14


"A te piacciono di più i cani o i gatti?"
la mia nipotina, chiacchiere davanti alla tv


Per la centesima volta ho assistito ad una di quelle discussioni che mettono in competizione o in confronto la fotografia digitale con quella analogica. In realtà, sono due cose fortemente distinte, già il fatto che una volta la fotografia a pellicola veniva semplicemente chiamata fotografia, mentre oggi bisogna aggiungere il "neologismo" analogica, lo dovrebbe far capire: non è più unica.
(Sarebbe come fare preferenze o comparazioni fra affresco e dipinto dato che sono entrambi pittura.)
Così, avendo notato che siamo nel 2014 e ci sono ancora di questi discorsi, riporto qui di seguito la mia opinione una volta per tutte.

La fotografia raggiunse livelli interessanti di qualità già nel diciannovesimo secolo, e i pionieri di questa nuova arte non faticarono nel farla conoscere. Da allora, e per molto tempo, fu considerata come una sorta di variante della pittura o meglio come se si trattasse di una nuova tecnica per dipingere. Una cosa normale per il fotografo era addirittura, se necessario, considerare il pennello per eventuali ritocchi della stampa fotografica o colorare il soggetto ritratto perché la pellicola a colori sarebbe stata inventata il secolo successivo.
Ai giorni nostri le due arti non si mettono in comune in modo così diretto, ma all'epoca la pittura stava vivendo il trionfo del realismo e la posa fotografica permetteva una rappresentazione più sicura della realtà, impossibile da raggiungere per mezzo della pittura. Non ci si può allora meravigliare che al momento dell'arrivo in commercio della prima macchina fotografica alla portata di tutti, i pittori affermati come Delaroche dichiaravano sconsolati: "Da oggi la pittura è morta".
Potrebbero essere stati questi fatti a spingere autori come Delaroche a riprodurre nelle proprie tele i personaggi irraggiungibili dalla macchina fotografica, cioè quelli vissuti nell'antichità. Invece, la fotografia testimonia un soggetto, un evento precisamente come appare, così da renderlo eterno, che non possa mutare: il soggetto, con uno scatto fotografico, diventa senza tempo.
A differenza che nella pittura, è su una fotografia che un soggetto si può rivedere e quindi ricordare così come esattamente era al momento dello scatto. 

Con l'utilizzo odierno della fotografia, il digitale ha fatto accadere un ulteriore cambiamento. Il soggetto lo si può rivedere già un secondo dopo lo scatto fotografico e quindi, la foto non avrebbe più la funzione di far ricordare, perché non abbiamo bisogno di una foto per sapere com'era il mondo un secondo fa. Infatti, le tante foto digitali che facciamo, vengono spesso per lo più accantonate. Questa nuova immediatezza permette alle persone di realizzare ritratti in un modo che non gli era mai stato possibile, proprio come era successo nell'Ottocento con il sorpasso della fotografia sulla pittura. 
Come allora i pittori confusero la novità della fotografia con una nuova tecnica pittorica, oggigiorno non bisogna confondere il digitale con la fotografia di una volta. La fotografia digitale non è migliore di quella più lenta e ingombrante prodotta con la pellicola, ma esse sono due cose differenti proprio come avrebbero poi scoperto i nostri antenati comparando la pittura e la fotografia. La fotografia digitale è un qualcosa d'altro, che ancora non ha nome, ma che ha il potere di rappresentare la realtà in modo fedele e immutabile ma al tempo stesso transitorio, precario, instabile. Per la prima volta, come neppure i pionieri della fotografia avrebbero immaginato, il soggetto fotografico smette di avere il valore di simbolo.

La fotografia digitale e quella analogica finiranno di essere in contrapposizione quando i fotografi impareranno le regole di questa nuova "frontiera" artistica, proprio come è successo con la pittura e la fotografia stimolando poi il cambiamento della produzione artistica del xx secolo. Consapevoli di ciò, possiamo affermare allora che come è accaduto fra pittura e fotografia, grazie al sorpasso del digitale sull'analogico, l'analogico può essere sperimentato in un modo totalmente nuovo. Questo modo è: staccato dal compito di essere universale, "testimoniale", neutro; cioè con esso l'artista può apportare dei segni propri, mettendo sé stesso al centro dell'opera e non più il soggetto: creare il segno personale, divenire egli simbolo (ripeto: come è accaduto alla pittura nel xx secolo a causa del sorpasso o convivenza con la fotografia).
Piuttosto, a questo punto, le domande da porsi sono allora: è possibile considerare con il termine che abbiamo sempre utilizzato per indicare la fotografia, un'immagine che appare identica all'originale anche se replicata quante volte vogliamo?; e riflettendo su questo e notando che a dispetto di tutto ciò la fotografia non è più visibile, cioè come oggetto tangibile, possiamo ancora considerarla fotografia? e in campo artistico non potrebbe essere più corretto farla rientrare nella net art piuttosto che nella digital art, dato che un'enormità di foto esistono, sono viste, esposte, trasportate (trasferite) e commercializzate prima ancora (o senza) l'essere stampe?; in riferimento a ciò, ad esempio tenendo conto che solo su facebook sono presenti centinaia di miliardi di foto, possiamo considerare la foto stampata un qualcos'altro oppure un prodotto d'elite o semplicemente anacronistico (si legga inutile) come il cinema o la televisione per la visione dei film?; se l'immagine è un prodotto digitale (proveniente da una elaborazione di dati), è ancora una "mia" fotografia oppure è il prodotto visivo di una macchina?, specie se ci si accorge che la fotografia non testimonia più esclusivamente quello che vede il fotografo ma funge da organo visivo di un enorme numero di macchine e tecnologie che abbiamo in casa o in cui incappiamo quotidianamente... La cosa affascinante è che le macchine in realtà non vedono, ma riscrivono l'immagine in un codice per poterla capire, quindi concettualmente la tecnologia adoperata fa un salto all'indietro bello grande rispetto a dove ci aveva portati l'invenzione della fotografia!

28/03/14


"Pare un assurdo, e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni."
Leopardi, Zibaldone


Il motivo per cui ho atteso almeno dieci anni prima di mostrare i miei lavori di arte visiva.

Avevo dei problemi con il linguaggio. Creare un'immagine è il linguaggio; un'immagine può palesarsi non semplicemente con una stampa bidimensionale, ma con una struttura tridimensionale, come anche nell'accostamento (composizione, armonia, equilibrio) di più oggetti: ad esempio, quando lavoro nell'orto con mio padre, lasciare le erbacce significa rovinare l'immagine dell'orto (che vogliamo). Così, tra le varianti disponibili, il linguaggio che più a lungo ho preferito è stata la poesia in versi: con la parola potevo suscitare delle immagini nel modo più vago che conoscessi. Perché aver bisogno della vaghezza? per ambientarsi nell'indefinito dato che consideravo la realtà assolutamente inaffidabile ovvero, innanzitutto, il prodotto delle percezioni sensoriali tanto personali quanto irriproducibili. Spiego meglio ricordando che il mio immaginario proveniva esclusivamente da esperienze avute in sogni o sogni realistici, visioni dove tutto può accadere e quindi nulla è saldamente come appare.
Il passaggio a mostrare le immagini in una chiave più visibile, tangibile succede nel rendersi conto che comunque si deve scrivere e poi leggere l'immagine\l'opera attraverso proprio quelle percezioni personali. Pertanto, in ogni opera ci posso trovare sempre me stesso, perché la utilizzo: sia come autore che come pubblico... Quindi, anche se l'immagine rappresentata è astratta, diventa reale, perché io (e il modo in cui mi convinco di percepire il mondo) sono reale. Purtroppo, questa è un'affermazione molto traballante, perché è proprio qui che sta l'impedimento all'emergere come artista visivo: ero convinto che non fossi reale.
Effettivamente, quando lavoro mi baso sulla fotografia ma non significa che mi fido di essa (della sua capacità o funzione di testimone): l'ho già affermato più volte, la fotografia è solo un segno. Se vogliamo, la si può anche identificare come la parte da cui scaturisce la teoria del mio lavoro, mentre la parte pratica del mio lavoro è possibile solo con la condivisione: utilizzo di foto altrui, performance, azioni, collaborazioni, confronti, sfide, ecc; anche se non emerge mai, raramente faccio qualcosa da solo e sono principalmente delle performance che faccio senza pubblico, con una finalità strettamente personale (come dei riti). Più propriamente, bisognerebbe dire che tutta questa attenzione nei confronti della condivisione si concentra in questo periodo perché è attraverso riflessioni su questa materia che mi è stato possibile giungere alla soluzione, al dispiegamento del mio nuovo progetto " ". Il quale appunto si sviluppa tutto grazie alla condivisione, cioè condividendo si accresce. Tutti i pensieri a tal proposito mi erano sorti già da un pezzo (tra l'altro pensando al sesso): che in un modo o nell'altro, per produrre qualcosa, per combinare qualcosa bisogna essere in due; bisogna dividere\dividersi. (n.b.: sesso deriva infatti dal verbo secare: dividere. Tagliando in due ci si moltiplica, non si diminuisce.)
Allora, essendo in due, quello che si crea è altamente imprevedibile, quindi la formula ideale di quanto vado in cerca con i miei lavori. Non so cosa mi porteranno queste esperienze, per ora è una sorta di curiosità del mistero, una curiosità spirituale sapendo che la verità, anche se rientra nell'illusione, sta comunque sull'altro lato della superficie, sull'altro corpo. O forse, sarebbe meglio dire che creando in due si porta la verità dalla nostra parte, su di noi, nella nostra procreazione, zona franca fra il visibile e il non visibile.

27/03/14


Ho portato a termine il programma del mio nuovo progetto. Non ha nome ancora o non l'avrà mai.
"Il progetto “” smaschererà e risolverà l’impossibilità da parte di un giovane artista o di chiunque voglia cominciare un’impresa, di realizzare la propria opera nell’attuale contesto generale di instabilità. Per instabilità, si intende il momento attuale di passaggio della nostra società, durante il quale si esige una novità nelle relazioni attraverso la condivisione. Questo progetto, quindi, avverrà con la creazione di nuovi segni con l’obiettivo di formulare una sorta di linguaggio neutrale basato sulle differenze di ciascuno. Dei nuovi segni, pertanto, che l’artista deve concepire ricercando le difficoltà e differenze degli altri: un segno che non verrà realizzato individualmente. Con il contributo di ciascuno si potrà mettere in scena un segno realizzato così in modo condiviso.
Il progetto sarà scandito in tre azioni."
Queste saranno:
“un fenomeno di filosofia e un uomo disgraziato” che avrà come tema, motivo l’impossibilità.
“case” che avrà come tema, motivo l’imprevedibilità.
“sport” che avrà come tema, motivo l’inutilità.
Ho studiato molto, ora mi prenderò una pausa, però non posso come al solito presentare i miei lavori con una spiegazione teorica che ne spiega lo svolgimento, seppure ho scritto tanto. Altrimenti ricorrerei alla solita procedura senza produrre affatto la novità relazionale\comunicativa di cui vado in cerca. Ovvero, sarebbe come se si rimanesse a metà strada senza diventare la rappresentazione che si vuole realizzare; cioè, non si svilupperebbe una crisi per produrre qualcosa di nuovo. Farò così: con la ragione posso fare le domande, mentre le risposte le darò con l’azione. L’azione, però, deve intendersi senza una direzione prefissata, se no sarei punto a capo.
Dando spazio alle differenze, si creerà un linguaggio univoco. Mi accorgerò di riuscirci quando vedrò che i segni che realizzo vanno avanti da soli, vengono letti senza che ne dia spiegazioni.
Mi torna in mente che molti anni fa avevo scritto un romanzo breve che raccontava di un mondo dove non esisteva la parola. La gente comunicava quindi in modo non verbale e la città era piena di simboli per indicare e direzionare; ma non era questo che portava la maggior differenza dal nostro mondo. La gente, in realtà, era felice, libera, diretta: la parola nasce per indicare le cose e la necessità di indicare è per potersi capire, l’incomprensione infatti genera paura. Insomma, era un mondo senza paura: se qualcuno voleva fare una cosa, semplicemente la faceva perché non doveva dare spiegazioni a nessuno. Era un mondo, infatti, in cui si viveva molto velocemente; c’era la narrazione di una storia d’amore che comincia con il facile gesto di un personaggio che si siede accanto ad un altro: è un concerto e lei si alza e si va a sedere vicino al musicista che sta suonando e di cui evidentemente si è innamorata. Non ha dovuto tentennare o non ha temuto il giudizio degli altri a proposito della sua azione: non esistono gli strumenti per fare tutto ciò. Purtroppo, raccontando del danno della parola, ho capito che non aveva senso usare la parola per spiegarlo e così ho poi deciso di eliminare quel libro; e l’ho bruciato. Speriamo di riuscire a spiegare un mondo senza parole con le immagini visive.

25/03/14


In confronto a quando c'era l'esigenza di studiare la tecnica per essere dei fotografi e si era formati nel corso degli anni, oggi sono in pochi a possedere questa esperienza. La fotografia è giunta ad essere considerata un qualcosa di facile, chiunque può fotografare. Così di frequente il risultato è mediocre. Di conseguenza, appena qualcuno è dotato tecnicamente viene subito notato. Per me la tecnica è sempre stata un qualcosa di spontaneo perché ho iniziato a fotografare da bambino e sono poi restato sempre legato ad una cultura della fotografia e del cinema. Piuttosto, quello che è fondamentale per me è il tentativo, il desiderio di mostrare quello che voglio nel miglior modo possibile. Da qui il motivo dell'importanza della tecnica, per me: la perfezione è basilare quanto il soggetto stesso della foto. E, se necessario, questa può essere raggiunta anche creando delle lacune, delle imperfezioni; cosa possibile solo se si conosce il perché queste avvengono, la loro storia e quindi cosa diventeranno se inserite.
Le imperfezioni, che hanno molto a che vedere con il distorcere, smontare e distruggere, si focalizzano sempre su un elemento specifico che noto nell'immagine, un "motivo" come si direbbe se si trattasse di musica. Questi gesti non rispondono mai a un programma, seppure so che avverranno; non meritano neppure di essere considerati un'esecuzione totalmente consapevole. Per lo più hanno altre ragioni se accadono, piuttosto che il controllo o la pianificazione. Tuttavia, quando mi aspetto di essere giunto alla conclusione e mi accorgo che il nuovo motivo che ho inserito o il modo in cui ho modificato quanto già c'era, non mi piace o stona, cerco di insistere con la lavorazione fino a trovarlo sopportabile. Qui di nuovo devo lavorare lasciandomi andare. Ed è a questo punto che inizia un più profondo lavoro di ri-disegno per raggiungere il miglioramento dell'immagine. A volte il tutto si conclude in un'ora, altre volte una giornata o settimane; non ha importanza il tempo, in alcune occasioni sono movimenti, cambiamenti, disfacimenti di pochi dettagli. Tutta la macchina si fermerebbe se cercassi di capire i perché che mi hanno portato al risultato finale; i lavori che più ho ammirato, osservato e su cui ho più ragionato sono infatti quelli che in breve mi hanno stufato poiché non ne percepivo più il mistero.

24/03/14


Ascoltare amici che non vedono l'ora di fare un figlio e figli che non vorranno mai fare i genitori.

22/03/14


Il rendere la visione di un soggetto difficile o sfocata non è semplicemente finalizzato a mettere in scena la sensazione di indefinitezza, incertezza, vaghezza della realtà, ma più onestamente il mio rapporto con essa. Ognuno infatti può avere un proprio rapporto con quanto vive quotidianamente e il modo in cui giudica la realtà. Non c'è un mero scopo didattico nella mia arte. Io uso le foto perché esse sono il veicolo per trattare il presente, il reale e cercare il presente, il reale non significa mettere al centro il pezzo lavorato, ma la lavorazione: è lì che sta un punto di svolta, la ricerca dell'attuale: fare esperienza di quello che si sta vivendo.
La quasi totalità delle volte, si parte parlando di queste sfocature, filtri, difetti visivi, per spiegare i miei lavori. Eppure quelli non sono la spiegazione dei miei lavori, ma il motivo per cui faccio quei lavori.
A questo si aggiunge però un processo che non è veloce e repentino (anche se alcuni lavori prevedono una esecuzione nervosa e immediata) seppure non viene cercata una pianificazione. La perdita di un gesto compiuto di getto viene sbilanciata con un aspetto che dà l'idea di immediatezza: mancanza di cornice, sbavature, strappi, sporcizia. Questo mi fa prevedere che cesserò di lavorare in questo modo.

20/03/14


Uno degli argomenti principali che si intavolano al momento di discutere di fotografia è il dove mettere il confine fra quella digitale e quella analogica. Per me è un ragionamento che occupa molto spazio di solito, perché lavoro indifferentemente in entrambi i modi a seconda dell’estetica che voglio raggiungere; il più delle volte utilizzo le stampe e le pellicole per elaborarle poi in digitale. Per me non ha senso scegliere una modalità e rinunciare ad un'altra, per il semplice fatto che la fotografia non è affidabile totalmente nel trasmettere la realtà. Proprio come non lo è la pittura, e quindi sarebbe come un pittore che si dovesse attenere esclusivamente ad una tecnica, ad un tipo di pennello o di colore: se non credo che la fotografia sia affidabile, allora posso adoperare tutti gli stili disparati che mi vengono in mente.
Vale a dire che a differenza della fotografia, con i miei lavori, la mia immagine, seppure fotografica, non testimonia il reale, ma mette in scena qualcosa che potrebbe esserlo. Anche se questo qualcosa è assurdo si precisa sempre che "potrebbe esserlo", reale, perché la fotografia ha comunque un ineluttabile riconoscimento (o dogma, forse) di affidabilità. Che allora mi torna utile proprio per aumentare l'assurdità. Cioè, i miei lavori mettono in parallelo il reale con qualcosa di non comprensibile: dare una forma e quindi una possibilità di incontro a un non visibile. Più faccio fatica a comprendere l'immagine che sto realizzando e più so che sto ottenendo il risultato; meno è ovvia la lettura e maggiormente posso considerare buona quell'immagine. Le immagini di facile lettura le trovo senza senso e non c'è bisogno di farne, non aggiungono niente a quelle che già ci sono: impegnarsi a mettere in scena qualcosa di oscuro ti permette di tenerti lontano dal mettere in scena roba senza senso, idiota. (questo anche per compensare che mi son dato dell'imbecille nel testo precedente)

19/03/14


Non mi sono mai trovato a disagio quando è capitata della indecisione nel catalogare i miei lavori (fotografia, pittura, azione, poesia?) oppure fuori luogo in contesti dove una definizione era dichiarata o richiesta. Perché quello che faccio è comunque creare un'immagine; e si tratta sempre di utilizzare un linguaggio per arrivare a questo scopo. In pratica, quando si usa un linguaggio, per il solo fatto di usarlo, lo si sta anche modificando in un qualche modo; anche per il semplice fatto che l'informazione (l'immagine) giunge a destinazione (il fruitore dell'opera) attraverso il "filtro personale" dell'autore e/o attraverso il "filtro personale" dell'ascoltatore. Ogni autore (e ogni fruitore dell'opera) valorizza le caratteristiche di un'immagine in modo distinto: alcune vengono notate di più, altre di meno, altre predominano... le quali di certo sono ciò che danno l'importanza al lavoro. Quindi, ogni volta, inevitabilmente, si finisce per trovarvi (anche) se stessi; pertanto è sempre la rappresentazione di qualcosa di reale, pure nel caso di una raffigurazione astratta. Questa è per me una considerazione fondamentale, perché ho iniziato a ricercare la fotografia dato che è impossibile rappresentare la realtà in modo fedele con la pittura, e poi, come conseguenza, l'intervento sulla fotografia poiché è impossibile fidarsi anche della fotografia.
Sostenuto da tali riflessioni, ho iniziato a utilizzare la fotografia seguendo regole che m'inventavo. Prima nella decisione di precisi stili, poi anche nella scelta dell'attrezzatura, dando pure per le diverse macchine fotografiche e pellicole delle motivazioni; infine, andando ad alterare ancor di più l'immagine con degli interventi sulla pellicola o sulla stampa oppure in post produzione digitale (a volte anche in quello che potrei chiamare pre produzione: la preparazione delle fotocamere e delle pellicole). Ero convinto che questa pratica potesse riscrivere ciò che avevo di fronte, fino a raggiungere l'esagerazione utilizzando le foto trovate, fatte da altri, ovvero riscrivere quanto era già successo, il ricordo e la prova "storica" di quanto si ha vissuto. Va oltre l'utopia di inscenare mondi nuovi, è, perlomeno da un punto di vista concreto, tangibile, l'insistenza di un imbecille.

18/03/14

Se io dipingessi, produrrei la rappresentazione di una realtà inesistente, anche se copiassi dal vero, perché comincerei dalla tela bianca. Partendo invece da una fotografia, gli oggetti rappresentati incarnano già quel mondo in cui sono inseriti, che per me è incomprensibile perché sono foto fatte da altri. Incomprensibile ma reale. E tanto più questo mistero aumenta quanto per me quella foto è inutile (in relazione al suo provenire da un mondo a me estraneo). Ecco il motivo dell'attrazione e dell'importanza nei confronti delle foto trovate piuttosto che di quelle che giungono dai souvenir della mia famiglia o in vendita nei mercatini. E il mio intervento nella fotografia non rappresenta qualcosa di definito, non è figurativo, perché quello che io tratto intervenendo sulla fotografia è la fotografia stessa. In altre parole, non raffiguro oggetti perché la fotografia, il supporto, è l'oggetto al centro dell'intervento. Questo spiega il motivo per cui questi lavori sono assurdi: perché mi concentro su elementi che non hanno senso essendo rappresentazioni di un mondo a me estraneo. Insomma, gli elementi che compongono un mio lavoro sono lì senza "contenuto": non hanno una funzione, che è il valore che conta stimolando nei confronti dell'opera una voglia di essere "utilizzata".

17/03/14


Le mie riflessioni insistono molto sulla realtà, il modo di percepirla e raffigurarla; nel mio caso ricercando l'astratto. Non riesco a cogliere dove ci sia nella mia produzione lo spazio per affrontare e inscenare i desideri, le voglie, i sogni; specialmente i miei. Forse semplicemente tengo queste cose riservate.
Il modo di rappresentare la realtà è quello mio personale, quindi io lo vivo come una sorta di "soggettiva", di punto di vista soggettivo. Tuttavia, così facendo rimango abbastanza vago, di certo non "corporeo", palpabile, come era invece la mia intenzione quando ho iniziato qualche settimana fa la nuova serie (che sto continuando ad ampliare). Mi sembra che da allora la cosa più passionale, personale che ho fatto sia stata il mio intervento alla performance di Michele e Sissy: uno suonava e l'altro, mascherato, ballava durante il vernissage di una mostra a La Fenice Gallery a Venezia. Ad un certo punto, mi sono staccato dal pubblico, mi sono tolto il cappotto e ho iniziato a ballare e a interagire con Sissy; non era stato avvisato nessuno della mia aggiunta, è stata una cosa pensata fra di noi. La particolarità è che sotto il cappotto indossavo alcuni abiti della ragazza con cui stavo insieme fino a pochi giorni prima, che ho così riportato in mezzo al mio mondo.


A volte sono stanco della poca definizione delle immagini che realizzo. Sono stanco che siano difficili da guardare, che non sia immediata la loro lettura. Vorrei semplicemente fotografare, rappresentare in modo nitido, che i soggetti che si possono vedere siano solo quelli mostrati nella foto, cioè quelli presenti al momento dello scatto. Nessun'altra aggiunta o sfocatura che sposti altrove.
Ritraggo in questo modo perché è quando l'immagine è sporca, incompleta, sfocata che mi inquieta, mi smuove.

15/03/14


Ieri sera sono stato all'inaugurazione di una mostra di foto antiche di un secolo, provenienti da un catalogo originale di geishe. Forse l'evento è stato curato più dell'esposizione in sé, ed è comprensibile essendo ospitato in un negozio di abbigliamento, perché le fotografie meritano una profonda attenzione. Le geishe offrivano una fascinazione basata sulla tensione che si creava dal loro avvicinarsi e al contempo sottrarsi; un far percepire un'intimità speciale a chi è presente ed anche l'impossibilità di potervi accedere. Questo tipo di seduzione è definita con un termine, "iki", che non è traducibile in italiano. Eppure è espresso nei loro volti visibili in quelle immagini: gli occhi comunicano mentre la bocca no, con lo sguardo sono presenti e con la bocca assenti.
Anche in questa occasione, come ad ogni evento a cui prendo parte, incontro persone che parlano in modo contrariato della imminente chiusura degli spazi espositivi di via Bertossi a Pordenone, specie perché verranno sostituiti da uffici e un nuovo museo verrà aperto. Ieri sera, però, ha fatto la comparsa una raccolta firme sostenuta da un gruppo che cerca di sensibilizzare sull'argomento chiamato "il ballo della scrivania". Conosco le persone che ci sono dietro, quindi sono certo che avrà sviluppi propositivi, temo però che se vogliono fermare la macchina di questa specie di trasferimento sia troppo tardi, che tutto sia già stabilito. Per ora, l'arte a Pordenone fa effettivamente muovere l'economia, come dice l'assessore, ma soltanto delle ditte di traslochi.

14/03/14


Il mio lavoro non è propriamente una proposta stilistica, ma il contrario: un'impossibilità forse di proporne una. In altre parole, dato che io traggo e\o baso il mio lavoro pittorico o compositivo sulla fotografia, affronto piuttosto un problema stilistico. Questo è causato dal mio muovermi all'interno dell'artificio: riutilizzare una immagine di seconda mano. La ricerca delle forme è un approccio naturale, ma l'area di lavoro il contrario. Vale a dire che il mio intervento non è neanche artistico ma soltanto un ridurre ciò che è già rappresentato all'essenziale, intuendone certe forme (quelle che mi servono) ed evidenziandole. Come il fotografo che quando stampa le foto del cliente decide come presentarle regolandone l'aspetto in post produzione: ecco, quello che faccio è un'ulteriore post produzione (che precedentemente avevo definito "traduzione"). Il risultato, però, non mira a rendere la foto gradevole o artistica (nel senso più ampio del termine o pensata che sarà inserita in un contesto artistico), ma accentua solo degli oggetti o dei soggetti già cercati, vissuti, fotografati e quindi conosciuti e interpretati da altri. Quello che mi interessa, quindi, è spingere gli elementi che enfatizzo verso un aspetto artificiale che non ha nessun motivo di esistere, di essere ricercato e inserito se non per fare l'esperienza di un genere di formalismo che, specie in fotografia, non si ha mai cercato di toccare.
Descrivendo in un modo più approfondito, c'è da dire che io affermo di rappresentare in una maniera astratta, però la fotografia da cui parto è già un'astrazione perché mostra un mondo a me estraneo. Sarebbe un qualcos'altro anche se ne fossi io l'autore. Pertanto, devo mettere da parte qualsiasi pensiero che potrebbe decifrare l'immagine e procedere con una lavorazione in cui escludo la comprensione.

13/03/14


Sono stato all'inaugurazione della mostra della stilista Agatha Ruiz de la Prada tenutasi negli spazi espositivi di via Bertossi a Pordenone. E' stato un evento molto interessante perché si tratta di una rappresentante di spicco della moda e del design: sicuramente dà lustro alla città, peccato che in realtà la mostra latita. Nel senso che non sono esposte le sue creazioni, ma loro foto o disegni...! L'unica cosa concreta sono degli oggetti (due porte e una stufa) prodotti da società della zona perché decorati da lei: ha dato l'idea quindi che fosse quello il motivo della presenza di quell'artista a Pordenone, e così la mostra può passare per una pubblicità...
Della mostra precedente, "Percezioni instabili", alla provincia, non mi è piaciuta la volontà da parte del curatore di classificare i lavori dei partecipanti creando così dei temi e dei titoli per coppie di artisti: mi sanno sempre di forzature queste cose. Ma forse sarebbe sembrata ancor più forzato mettere insieme artisti differenti senza spiegarne il motivo. Per me il motivo potrebbe essere che sono tutti di queste parti, per questo credo che siano stati scelti e non per l'affinità al tema (quello sarà venuto in mente dopo averli coinvolti).
Tuttavia, sono solo pareri personali, quello che per davvero mi fa pensare è il discorso dell'assessore fatto ai vernissage. Il solito ragionamento sul valore della cultura, sull'impegno dell'amministrazione di proporla ugualmente e investirvi seppure ci sono i famigerati tagli. In effetti, anche se a breve chiuderanno gli spazi espositivi di via Bertossi, dovrebbe aprire un altro museo, in centro. Un altro contenitore, temo, che verrà riempito senza sapere che direzione dargli.
E' molto importante proporre l'arte, mostrarla ma le funzioni di un museo sono anche altre. Anzi, pensando specialmente a Pordenone, bisogna ammettere che manca un posto per produrla pure: spero di incontrare l'assessore per segnalarglielo: piuttosto dividere il nuovo museo che faranno in stanze da destinare agli artisti per sistemarci i loro atelier. Un posto dove lavorare, incontrarsi, mostrare e fare entrare la gente. Investono nell'arte contemporanea senza neanche cercare gli artisti contemporanei.
In questa città, chi lavora con la creatività è una comunità abbastanza nutrita, eppure non viene tenuta in considerazione per aiutarla nella sua realizzazione: possono aprire un altro museo, ma Pordenone, per i creativi, rimane un passaggio senza offrire riferimenti. Quando si accorgeranno che queste persone corrispondono anche a tanti voti, si occuperanno di noi.
Così mi sono arrangiato andando a fare visita e guardando un po' i loro nuovi lavori, gli artisti Guerrino Dirindin e Raffaele Santillo, nei loro atelier.

10/03/14


Se di solito gli incontri con Michele sono arricchiti dagli aggiornamenti sul suo percorso di crescita personale, durante questa giornata passata assieme ci siamo scoperti discordanti sul modo di agire e reagire. Lui tende a essere fatalista e io preferisco considerare che il progresso degli accadimenti dipenda innanzitutto dalle mie scelte. Forse è per questo che io tendo a non arrendermi se voglio una cosa, mentre lui si diverte spesso ad accettare quello che gli viene incontro. Infatti domani partirà per Berlino e io continuerò verso la mia priorità di realizzare il mio lavoro. Ciò rientra anche per me in un percorso di crescita personale che seppure differenzia dal suo come direzione (lui s'è stancato del materiale e cerca lo spirituale, mentre a me sta capitando l'opposto) porta a simili effetti come la serenità e la voglia di impegnarsi.
Ieri ho visitato una mostra a Pordenone (alla provincia) che è la migliore che abbiano mai proposto, riscattando le consuete aspettative. Mi ha fatto venire voglia di avere anch'io un posto in quell'ambiente.

08/03/14


Per me le foto sono innanzitutto degli oggetti, non rispetto del tutto quanto vi è rappresentato. Cioé non mi faccio influenzare dall'idea che con il mio intervento potrei coprire o alterare l'aspetto di una figura umana raffigurata nella fotografia. Ciò mi permette una libertà che una volta non conoscevo: in principio tenevo in considerazione la figura umana per comporre la nuova immagine, la quale era quindi in funzione di essa.
Ora la foto è per me prima di tutto una composizione costituita da forme e colori, che unendosi costruiscono delle figure umane oppure lo sfondo o i dettagli in primo piano e per questo principio possono allora essere smontate e rimontate per formare qualcos'altro. All'inizio, quindi, io vi vedevo delle persone con delle vite e per questo spesso intervenivo con dei limiti e dei riguardi. Non ero giunto ancora alla ricerca delle forme e alle trasformazioni attuali, il mio intervento era una sorta di commiato a quelle persone, da diversi punti di vista. Fondamentalmente mi convincevo che le figure umane delle foto sono prima di tutto delle persone che ora non ci sono più. Così accadeva che mi interessava dar loro commiato dalla vita, ovvero estrapolare, estraniare il soggetto dall'ambiente circostante (ciò che attornia la persona fotografata), il quale corrisponde alla sua vita di tutti i giorni, le abitudini, il lavoro.
Forse, ora sto rappresentando in un modo più neutro, ma allora trattavo di qualcosa non facilmente rappresentabile: i morti. Il cambiamento è accaduto sicuramente quando ragionando su questo ho scorto la morte raffigurata in tutta l'arte. Vorrei che i miei lavori siano sempre così: cercare la rivoluzione e accorgersi di fallire mostrando così che quello contro cui mi scontro è ineluttabilmente invincibile, il nemico più grosso.


07/03/14


Non mi sento cittadino italiano perché questo Paese e almeno il contesto in cui abito non permettono di realizzarmi. A me, questo posto fa vivere in povertà: il motivo per cui una persona emigra.
Abituato ad abitare qui, mi sono convinto che non mi realizzo per una mia qualche incapacità, ad esempio nel non riuscire a mantenere relazioni con le persone. Ora, penso che potrebbe dipendere molto anche dall'ambiente; ovvero, che potrebbe esserci un altro posto dove invece mi potrei realizzare e avere un credito maggiore.
In effetti, non faccio altro che cercare un modo per lasciare Pordenone.
Queste riflessioni mi sono venute ieri sera, ascoltando la conferenza della scrittrice Taiye Selasi.
Poi, ho chiacchierato con Davide che, come film maker, mi ha potuto sbrogliare alcuni dubbi tecnici per le nuove performance che sto progettando e che proporrò all'estero.

06/03/14


La natura adatta sé stessa all'ambiente, l'uomo adatta l'ambiente a sé stesso. E' questa caratteristica che mi attrae e che cerco nelle fotografie, questo tipo di presenza dell'uomo. Perché esprime vitalità, come un'incessante bisogno di qualcosa, come una passione che non si esaurisce. Nei miei lavori, infatti, vi compare sempre; non troverei interessante la sola presenza della natura. In essa deve farci parte l'uomo.
Sono come racconti superficiali, ma è lì che mi interessa cercare e trovarvi l'accesso verso una parte più profonda. Sono immagini di avvenimenti che si ripetono sempre allo stesso modo: ho centinaia di foto che raffigurano situazioni simili vissute allo stesso modo: foto souvenir di viaggi, gite, cerimonie, vacanze al mare, amori... A volte pure le persone sembrano le stesse (in serie, in scala) perché hanno simili abiti, colori, espressioni, pose... Si può tentare di esprimere un contenuto universale in quella limitatezza, mancanza di novità, di parola. Tutte caratteristiche che sono proprie anche di un paesaggio immerso nella natura, quindi forse trovo l'uomo talmente disumano da percepirlo come qualcosa d'altro: la natura.

05/03/14

Fino a che la tecnica della raffigurazione astratta mi darà risultati diversi da quelli che potrei prevedere all'inizio della lavorazione, non l'abbandonerò. Le fotografie e le pellicole fotografiche sono strati sovrapposti di sostanze chimiche; lavorandole ottengo sempre gli stessi risultati in fatto di colore. Devo aver imboccato una strana diversa, perché nell'ultima elaborazione è apparso un colore che non avevo mai visto prima. Quando non accadranno più queste cose, inizierò a distruggere; cioè rendere visibile il nulla, ma per ora mi piace troppo il contenuto. La roba. Per ora le mie foto sono ricche di contaminazioni tendendo a visualizzare in un modo differente ciò che di solito può essere visualizzato.

04/03/14


Oggi ho iniziato a ragionare su un nuovo lavoro di poesia. Già da un po' sapevo che avrei cercato di scrivere sulla terra, la materia, la bassezza però non ne risolvevo la scelta stilistica più adatta.
Nella poesia umana bisogna avere la giusta misura, raccomandava il Leopardi. E la giusta misura non la si può immediatamente cogliere, perché la società è da poco cambiata, nel modo in cui l'individuo pensa e ritiene le proprie priorità; una svolta al pari del boom economico degli anni '60, '70, il periodo fascista, la rivoluzione industriale...
E' necessario trovare nuovamente i limiti dentro ai quali poter muovere il proprio pensiero, ovvero registrare di nuovo le convenzioni della nostra vita personale e comune. E, appunto, la strada giusta è scrivere senza riflettere troppo, cioé quello che si pensa in superficie ("la ragione è nemica della grandezza, la natura è nemica della ragione, la natura è grande, la ragione è piccola").
Allora, scriverò di quello che uno dice solo a sé stesso, o alla persona con la quale va a letto; saranno dei testi, pertanto, che potrò leggere in pubblico una volta sola perché non mi inviteranno una seconda volta. Ma qualcuno deve scrivere in questo modo per poter ridiscutere il modo di fare poesia oggi: non si può ripetere uno stile che, a causa dei cambiamenti della società, possa sembrare anacronistico o fuori luogo. Tuttavia, questo tentativo lo possiamo fare in pochi: chi non ha nulla da perdere; ad esempio, chi non teme di fare una magra figura leggendo di argomenti bassi o solitamente banditi (o magari volgari) di fronte a tutti.

03/03/14


Se dipingessi, dovrei avere un'idea sul primo tratto da fare sulla tela: anche se dipingessi pittura astratta, dovrei ugualmente partire da un'immagine di partenza. Adoperando come base una fotografia, invece, ho già essa come punto di partenza. Di conseguenza, sono lanciato nel vuoto perché non sono io a dirigere: le mie scelte sull'operare sull'immagine sono condizionate non da me, ma dalla foto. Pertanto, se gli interventi che faccio su una foto all'inizio pensavo fossero casuali, ora scopro che sono influenzati; sempre casuali, per me, perché non partono da una mia diretta indicazione. Fondamentali, quindi, sono le scelte che la foto mi spinge a fare, e la casualità che ne segna il loro sviluppo.
L'unicità dell'opera sta proprio nella produzione del mio intervento che non è mai lo stesso perché condizionato dal mio modo di reagire alla scena raffigurata nella foto di partenza. Sento questo lavoro come più di un dialogo fra me e la fotografia, anche una specie di traduzione o correzione della scena fotografata grazie alla quale sarà possibile vedere una sorta di realtà oltre il primo strato superficiale.
Il mio lavoro è, infatti, quello di fare da accompagnatore verso un altro mondo. E' giusto che questo lavoro diventi un mero pezzo di arredamento? Sì, più entra a far parte dell'ordinario è più ha valenza.

02/03/14


Nella raffigurazione astratta c'è un'esistenza che si muove, che progredisce, non è un'immagine fissa, che definisce. Da essere considerata, paradossalmente, d'impossibile raffigurazione. E' più che assurdo, è ignoranza. Intesa in non sapere con cosa avrai a che fare, in che modo le forme si trasformeranno durante la lavorazione, camminare nella nebbia.
Nell'ignorare c'è l'improvvisazione, la mobilità, quindi la vita. Dà leggerezza, infatti. Quest'arte è una relazione con lo spirito, cercando la materia. Infatti devo ricordarmi che per le composizioni utilizzo pezzi di foto o stampe intere, di conseguenza emergono in ciascuna dei soggetti riconoscibili. Questo è creare delle forme, e le foto sono dei pretesti per partire da una parvenza di precisione. Insomma, è armonia che può (deve) emergere nello storpiare la realtà.
Usare le fotografie significa ospitare le mie visioni in mezzo agli altri, farle comparire sotto gli occhi di tutti, perché le foto sono testimonianze della realtà, di fatti accaduti. Il lavoro che più mi ha soddisfatto è appunto il video "All Rome": una vhs rovinata in modo da trasmettere le alterazioni che creo nelle foto, che fino ad allora erano solo fisse su una stampa. In quel video queste si vedono nelle riprese in città, come se le mie foto diventassero immagini in movimento; la gente può vedere il mondo come lo vedo io.
Per molto tempo, ho cercato più l'aria che la terra; questa cosa mi ha reso poco mondano, poco pratico. Una mia conseguenza a questo, e che non gradisco, è che sentendomi poco pratico risolvo le mie esperienze e le mie relazioni in un modo terreno, prevedibile: il perfetto opposto in cui ci si aspetterebbe. Allora, ora sento un'attrazione verso il concreto e il terreno, la materia, così che quando dovrò affrontare le relazioni sarò maggiormente in grado di discernere.



01/03/14


La fotografia è una riproduzione, ma di per sé anche un'astrazione della realtà. Pertanto, spingere l'immagine fotografica verso un'ulteriore esito astratto, addirittura da capovolgere l'aspetto iniziale, porta ad una sorta di esplorazione. O estrapolarne totalmente la realtà che mostra rendendola da fittizia (la mera immagine fotografica) a esistente.
Praticamente, quando realizzo un'immagine, parto da una fotografia ma non so dove essa mi condurrà. Non verrà prodotto qualcosa di identificabile come un oggetto oppure un'altra fotografia, ma un ambiente dentro il quale muovermi come qualcuno che si è perso o che è al buio. Ogni foto ha degli elementi, esaltati o pacati, sui quali mi concentro per fare esperienza di tutte le loro possibilità, come un regista con di fronte un attore che mette in scena tutti i modi per interpretare una battuta. Scelgo la versione migliore e gliela faccio ripetere, quindi sposto l'attenzione verso un altro dettaglio.
So che ho i mezzi per far emergere tutte le qualità dell'immagine e potrei così potenzialmente insistere su di essa all'infinito. Mi fermo, e capisco che il lavoro è completato, non ha bisogno di altri interventi, quando percepisco che si bilancia quanto potrei aggiungere e togliere. Questo accade non appena avverto che da come era all'inizio (un percorso senza una meta) ora mi fa scorgere un risultato preciso: essere utile.
L'opera d'arte perfetta è un'immagine impossibile da non utilizzare.