28/12/22

LA MENTE RAZIONALE COME SPINTA O FRENO - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 20

Qui di seguito il ventesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


 LA MENTE RAZIONALE COME SPINTA O FRENO




Le immagini sollecitate nel precedente capitolo a riguardo della realtà, il Padre e l’universo con la sua armonia non hanno lo scopo di portarci verso visioni astratte e ipotesi irreali. Il passaggio importante che vi dobbiamo trarre è che fino a quando ci si basa sul consueto modo di relazione con il mondo esterno, non potremo mai ottenere cambiamenti rivoluzionari come qui trattati. Né raggiungere una più ampia e rinnovata comprensione facendo riferimento alle informazioni che già si sanno.
Il vantaggio stupendo che l’essere umano ha nello sperimentare questa vita è la mente razionale. La quale permette di abbracciare gli imprevedibili dettagli che stiamo scoprendo. Tuttavia, essa diviene del tutto inutile o controproducente se le lasciamo pieno controllo. Attraverso la ragione, infatti, l’uomo è in grado di poter espandere i propri pensieri fermi a limiti che invalicabili sono solo in apparenza.
Si potrebbe affermare che si è presa l’abitudine di considerare la mente razionale come lo strumento per ottenere il parere razionale su ogni cosa ci capiti. Invece, la mente razionale è un vero e proprio trampolino verso qualsiasi ulteriore direzione, senza possibilità di vederne i limiti. La ragione viene sfruttata per lo più per avere ragione, e ciò non è razionale dato che sappiamo che nulla può esattamente essere considerato in un modo soltanto. La ragione, quindi, può essere riconosciuta come l’appropriato sistema per poter facilmente convivere con esseri diversi (le altre persone) perché rende accettabile la possibilità di omologare le esperienze che si condividono. Tale caratteristica è certamente fondamentale, tuttavia ci permetterebbe una convivenza che potrebbe essere descritta non troppo al di sopra di quella caratterizzante soggetti di qualsiasi altra specie: animali e inferiori agli animali. Quel guizzo in più che ci offre la nostra mente deve sicuramente garantirci uno stadio più elevato dell’animalità. E non confermarcelo.
Infatti, la mente razionale può essere parimenti utilizzata per spingere i ragionamenti anche oltre l’avere o no ragione sulle cose. Il rischio, altrimenti, è innalzare di importanza quanto può essere riscontrabile a seguito di prove tangibili. Ovvero, l’attitudine a credere più a esperti esterni che confermano ipotesi piuttosto che alle proprie intuizioni. Una tendenza, infine, a mettere al centro la materialità, il concreto, in luogo, piuttosto, di una tendenza a elevarsi da tali limitazioni.
Razionale non è affermare che una data cosa sia in un modo e non in un altro, ma ammettere che è così qui e ora; in un altro contesto potrà essere diversamente. La razionalità allora sarebbe solo lo strumento che permette all’essere umano (a differenza, ad esempio, degli animali) di facilitare i propri pensieri a dirigersi verso destinazioni imprevedibili. Il chiaro metodo per registrare intuizioni tanto descritto nel precedente volume ("Vangelo Pratico").
È adoperando in questo modo la mente che si può concepire di amare la propria croce. E pure di constatare il danno che si fa nel non amarla, come, ad esempio, il fare la guerra a chi consideriamo dei nemici. Difatti, come varie volte abbiamo notato nel corso delle nostre esposizioni, la medesima dinamica è avviata quando si verificano eventi che si possono giudicare positivi e costruttivi. Malgrado ogni elemento sia unito, tutto l’universo ci appare duale così l’oppressore e l’oppresso sarebbero in realtà la stessa persona. Ed è raggiungendo tale consapevolezza che colui che vuole mettere fine all’oppressione potrà effettivamente ottenere i risultati voluti. Non facendoci la guerra, che equivarrebbe a fare la guerra a se stesso. Tuttavia, si sottolinea che la consapevolezza di ciò deve essere per davvero raggiunta, non la si può solo sapere. Bisogna esserla, come a dire che la si deve realizzare, non basta leggerlo in un libro. Il percorso per poterlo realizzare è seguendo quanto la vita propone, in quanto le esperienze saranno la via ideale per imparare quanto necessario.
Tecnicamente, non è che se voglio arricchirmi mi basta pensarlo e il mio conto corrente aumenterà miracolosamente, come in un esempio passato bastava il pensiero per far sbocciare un fiore. Ciò potrà anche essere possibile, ma solo a seguito di un cambio di coscienza. Il quale porterà a scoprirsi non separati, ma parte del tutto a cui stiamo partecipando: in una forma distinta seppure la medesima sostanza. Come la cellula di un organismo che si rendesse conto di essere contemporaneamente distinta e appartenente a una totalità; nella quale la cellula è presente come in essa vi è il DNA dell’intero corpo. Così è l’essere umano con l’universo.
Una prova di ciò è offerta proprio dall’ordine che armonizza l’universo. Ordine che permette proprio la sequenza di esperienze più adatte a seguito delle quali personalmente si giungerà a scoprirlo. Più si ha fede, infatti, e maggiore sarà l’ordine che si godrà. Mentre il disordine può essere interpretato come un aumento di difficoltà ad accordarsi con l’universo. Gli elementi che vi prendono parte sono sempre gli stessi, non vi è alcuna perdita.
A un test scientifico, si rileva che due particelle sorte insieme si possono passare una informazione all’istante anche se venissero allontanate. Anche se poste a due estremi dell’universo, si ipotizza per far capire meglio questo concetto che mostra l’universo “non locale”. In realtà, non è che si comunicano velocemente o che effettivamente si comunicano un’informazione. È che entrambe le particelle sono una sola, che l’uomo percepisce raddoppiata perché a lui l’universo appare duale. Allora, sarebbe ancora più corretto se considerassimo ogni cosa presente nell’universo come se concentrata in un unico contesto. Non si può aspirare a fare esperienza di fusione con il tutto senza considerarsi allo stesso momento sia un elemento unico e distinto, sia la totalità (il contesto stesso).
Maggiormente io sono convinto di essere una particella distinta dal resto del corpo, ovvero maggiore è lo spazio che lascio al mio ego di imperare, e meno ordine posso godere (ad aiutarmi ad accordarmi all’universo). Minore è l’importanza che do al mio essere distinto e indipendente dal tutto e maggiore sarà la complementarietà e la simmetria con tutto il resto.
A questo punto, bisogna evidenziare che più ci si mette in sintonia con il tutto e maggiormente si perde la propria coscienza. Ciò acquisisce un valore solo nell’esperienza che comporta infine un mettersi in sintonia con qualcosa di infinitamente più grande di noi. E infinitamente vitale come l’amore divino di cui qui trattiamo.
Tale precisazione va fatta perché lo stesso sistema avviene anche laddove si voglia svuotare le persone per indurle a obbedire. Come un esercito dove i soldati vengono omologati fino nelle azioni e nei gesti più semplici in modo che essi si accordino a una comune risonanza. Oppure gli operai in una catena di montaggio o i cittadini che vengono spinti a consumare e votare in modi predefiniti. Bisogna riconoscere come possibile un ritrovarsi tutti suggestionati come quando si ascolta una musica: è fondamentale fare attenzione, pertanto, a chi si pone sul podio del “direttore dell’orchestra”. Più una persona è consapevole (votata a diventare un eletto, come ci si esprimeva in un precedente capitolo) e maggiori sono le opportunità di divenire un ricevitore di informazioni stimolanti libertà e realizzazione.
Precisazioni su tale aspetto sono, allora, a dir poco fondamentali per cogliere l’attuabilità della pratica. Il divenire consapevoli della realtà in cui si è inseriti è frutto di un processo che è il risultato di esperienze dirette e non per intermediazioni. Non avviene, pertanto, nel sentirsi uniti sotto il manto della stessa religione, o nell’appartenenza a un gruppo politico, a una tifoseria sportiva oppure nella schiera di coloro che sono convinti di una particolare chiave di lettura sulla realtà. Se così fosse, si rimarrebbe allo stadio in cui si subirebbe una innumerevole varietà di probabilità per la propria vita perché non si arriva a percepire autonomamente la via da prendere.
Semmai, è arrendendosi a qualcosa di infinitamente più grande, anche di tutti quei gruppi e leader che garantiscono i risultati a cui si aspira.
In conclusione, è con la razionalità che si ha accesso a una visione più pura sulla realtà da non sentire il bisogno di dover far parte di un gruppo per convincersi di essere in grado di determinare il proprio futuro e modificare così la realtà. È con il corretto uso della razionalità che una persona può scoprirsi distinta e contemporaneamente unita al tutto. Come un’onda del mare che grazie al suo essere onda si differenzia dal resto del mare, ma anche, sempre per il suo essere onda, è il mare. La totalità del mare e una sua particolarità: essere complesso, globalità e la particella.
Nel prossimo capitolo verrà proposta una similitudine per poter fornire delle sfumature di significato a comprendere meglio tale fondamentale passo.




21/12/22

TUTTO CIO’ CHE PER TE E’ INVIOLABILE, TI CONTROLLA - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 19

Qui di seguito il diciannovesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


TUTTO CIO’ CHE PER TE E’ INVIOLABILE, TI CONTROLLA




Si tenga conto della capacità creativa dell’essere umano attraverso l’amore, come dimostrato quando si giunge ad amare la propria croce. E anche della possibilità di arrivare a dare vita a questa realtà, come nell’esempio del far sbocciare un fiore per il semplice pensarlo. Infine, a ciò collegato, si tenga conto della vera fede: si veda l’episodio di San Pietro che è stato in grado di camminare sull’acqua. A questo punto, è logico pure supporre che l’uomo muore semplicemente perché si convince che dovrà morire.
È perché si è convinti che si giungerà alla morte, come avviene per tutto quanto sia osservabile, che pure in se stesso l’essere umano è come se permettesse il processo di invecchiamento. Oppure catalizzerà quegli eventi negativi che altereranno la sua armonia.
È innanzitutto il constatare che la gente invecchia (ovvero essere immersi nella realtà materiale), che ci si convince di avere la prova che si sta a poco a poco morendo. E non potremmo che esserne convinti in quanto abitatori di un sistema che si basa su questo equilibrio.
Con queste osservazioni, non si vuole suggerire che non si debba morire o che ci sia qualcosa di sbagliato nell’aderire alle regole di transitorietà della nostra realtà. Le quali, come confermato anche nella dimostrazione della croce, sono un altro evento a cui dare ospitalità. Piuttosto, si invita a riflettere che tali regole vengono accettate come se inviolabili, come, cioè, se fossero al pari di un dio. Invece, il creatore dell’universo ha fornito di mutevolezza la realtà proprio per indurci a vederne la natura illusoria.
I problemi che una persona può subire, personali e sociali, non potranno mai venir risolti se affrontati ignorando la vera natura della realtà. Un percorso di crescita interiore favorisce l’accorgersi che dietro a tutto quello che si considera reale e tangibile sia presente una componente assoluta. Nelle sembianze di ogni cosa che capita di vivere, pertanto, vi è qualcosa di infinitamente più grande dell’uomo che la sta in quel momento vivendo. E solo accettando e considerando tale componente divina che si ha una vera visione della realtà e di quanto sta succedendo. Se si ignora tale equilibrio, si reputa che il problema che sta capitando possa avere risoluzioni in modalità e varietà innumerevoli. Mentre, se si considera l’equilibrio con l’assoluto, la soluzione giunge all’istante; anzi, non si coglie neppure di star di fronte a un problema.
Essendo la maggioranza della popolazione vittima di questa ignoranza, ogni gravità viene attraversata subendola passivamente. Oppure nello sforzo di affrontarla e risolverla come un qualcosa di separato da sé, e quindi soltanto tramite vie trasversali. Ovvero, azioni che possano entrare in contrasto con essa, non tentando una diretta trasformazione. Senza, pertanto, alcuna sicurezza che possa infine venire modificata verso un esito giusto. Questa modifica, abbiamo visto che è possibile a tutti quando si ama la gravità che ci sta di fronte. Così, a problemi apparentemente irrisolvibili si trova una soluzione in modo creativo. Sia nella vita di tutti i giorni, sia a livello ampio come portare pace dove c’è la guerra, salute nella malattia, vita nella sterilità. La pratica del Vangelo è un mezzo per arrivare ad amare anche la propria croce; infatti, constatiamo che chi vi riesce è anche colui che può creare dal nulla o agire anche contrariamente alle leggi della fisica. Si legga di Gesù o dei santi che forniscono assistenza e soluzioni tramite azioni che si dimostrano illogiche da un punto di vista concreto.
Se la maggioranza delle persone è tenuta all’oscuro da una simile possibilità, alla quale in realtà tutti avrebbero accesso, è sicuramente per dei motivi ben precisi. Abbiamo imparato che sono vari i maestri che ci hanno mostrato come poter essere liberi e felici, oltre che beneficiari di uno stato beato di figli di Dio. Malgrado queste conoscenze siano alla portata di tutti, le persone tendono ugualmente a rimanere insensibili a tale possibilità, seppure permetterebbe loro di conseguire la vita felice e gratificante alla quale comunque anelano. La quale, non ottenendola, diventa invece solo una parentesi di approssimazione di felicità e gratificazione. Allora, non è sufficiente che le biblioteche e Internet forniscano tutte le informazioni per intraprendere un simile cambio di coscienza. Non è cioè una rivoluzione possibile con la mente. Se essa avviene con un amore così pervasivo, allora deve tutto centrare nel cuore, non con i ragionamenti e i pensieri. Pertanto, l’ostacolo che le persone si trovano tra la loro libertà, felicità e divinità sta nella fatica di praticare un amore degno di tale contingenza.
Il motivo preciso, perciò, a comportare un impedimento nell’apprendere come praticare il vero amore e goderne direttamente i frutti è collegato a una forma di controllo sull’essere umano. Controllo che non deve essere immaginato come costituito da un gruppo di potere che voglia comandare sul mondo. Tale controllo parrebbe esistere a prescindere, come forma di sopravvivenza dell’umanità. L’ecosistema prolifica se le specie che vi abitano si adeguano a determinate e simili modalità di vivere. Mentre una vita di fede presagirebbe una condotta fuori controllo perché imprevedibile e non programmabile. Sta all’individuo diventare cosciente, per prima cosa, di quanto abbia permesso che in sé prendesse corpo la paura a infrangere la prevedibilità e la programmabilità.
Semmai, il fantomatico gruppo di potere approfitterebbe di questa dinamica già esistente per mantenersi l’unico a vivere nella totale libertà di modificare gli eventi a proprio comodo e accedere alle risorse dell’universo che in modo naturale sono inesauribili. Se un individuo si volesse opporre a questa élite da cui si sente essere comandato, non dovrebbe farci la guerra, come sappiamo. Paradossalmente, infatti, lo sforzo che il cittadino compie per contrastare i gruppi di potere che influenzerebbero il destino della società va in realtà a rafforzare la potenza di quel gruppo e a svilire la propria. Più egli si oppone come se ciò che volesse cambiare sia soltanto esterno a lui e più questa convinzione si radica da impedirgli di vedere chiaramente come realmente è organizzata la società stessa e su quali sottili equilibri si muove. Dalla guerra che subirebbe, l’élite dominante trae l’energia che ne permette l’esistenza; perché quella guerra è la concreta manifestazione di quanto l’oppositore sia convinto che quell’élite esista e sia in grado di fare quanto denuncia. Maggiore è la guerra, il contrasto a essa, maggiore sarà così l’autorizzazione al suo esistere.
Questa situazione opprimente sussiste perché chi si oppone all’oppressione vuole che essa esista, in verità: non si deve scordare che è lui a crearsi la realtà che percepisce. Quindi, piuttosto, dovrebbe modificare la sua coscienza e vedersi anche lui un usufruttuario e creatore dell’universo come chiunque altro. Ovvero, dovrebbe anche lui iniziare ad amare la propria croce.
È indubbio che qualsiasi società per poter comandare in modo totalitario sui propri abitanti, li debba innanzitutto controllare. E tale controllo deve di conseguenza essere su questa potenza liberatrice: sul loro modo di amare. Se le persone non venissero in un qualche modo distratte da ciò o sedate, non potrebbero mai accettare di vivere le condizioni così rigide a cui vengono indotte. Ed è a tali finalità che la gente viene bombardata da stimoli riguardanti l’amore e la sessualità che invece di accenderle e approfondirle le banalizzano, le opprimono e le rendono monotone.
L’amore e l’eros sono sicuramente delle energie che permettono a qualsiasi cosa sia in vita di espandere ulteriormente la vita. Per amore, l’uomo può costruire qualsiasi cosa e prendere qualsiasi decisione. Pertanto, solo controllando tali energie si potranno comandare le decisioni delle persone.
Lo stesso insegnare il Vangelo e la religione come un mero statuto sull’amorevolezza per poter convivere insieme con benevolenza è un gettare il fumo sugli occhi. Piuttosto, il Vangelo può essere senza difficoltà letto come una guida per poter scatenare questa fonte di energia creativa; che tutti possiedono per il semplice essere in vita. Energia che comunque non sussiste per creare il mondo come si vuole, ma per permettere di realizzare senza limiti la volontà del Padre.
Quando si sperimenta un simile amore, quando cioè si riesce ad amare la propria croce, si è tutt’uno con Dio. Non si crede più all’inviolabilità di questo mondo, alla verità di questa realtà. Ma a quanto ci sta dietro.
Si torna a unirsi al Padre, come mostra Gesù quando sulla croce muore solo apparentemente, nella forma. E ciò avviene conoscendo Dio veramente, proprio perché si è provato il perfetto opposto. Pertanto, anche la morte appare come un mero dettaglio, un pretesto per amare.
L’intero universo è come se fosse una persona ed è inserito in una popolazione di innumerevoli universi che nascono, vivono e muoiono all’interno di un unico sistema al pari di una società, nella quale conducono ciascuno un’esistenza diversa. La quale è distaccata o passibile di connessioni come già accennato. Tale sistema è la fonte di tutto, ed è quello che ci siamo abituati a chiamare “Dio” o “Padre”. E singolarmente Dio è anche ciascuno di questi universi, seppure differenti. Per la nostra comprensione, quindi Dio è come una persona. È una persona, come l’uomo; o meglio, l’uomo è una persona come Dio. E, parimenti, l’essere umano ha in sé inscritte le regole stesse che permettono la vita nell’universo. Essendo creato da Dio, in lui è travasata la stessa fonte di energia che permette tutto e crea: essa è l’amore. Che può tranquillamente venire pensata come sinonimo di Dio, come il sangue lo è per un organismo.



14/12/22

ESSERE UNA MANIFESTAZIONE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 18

Qui di seguito il diciottesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


ESSERE UNA MANIFESTAZIONE




Il chiarimento svelato nel precedente capitolo permette di estendere la nostra comprensione. Innanzitutto sulla struttura stessa dell’universo nel quale siamo inseriti. Poiché ogni cosa in esso contenuto, quindi anche l’essere umano, è manifestazione di Dio, sia spiritualmente che materialmente. Non procediamo più su riflessioni locali e quindi, ad esempio, precisare “l’essere una manifestazione di Dio in Terra” perché non vi sono confini e quindi punti di riferimento nell’universo. La Terra stessa, benché rappresenti tutto il conoscibile dell’essere umano, è un dettaglio che non si può misurare. Anzi, essa pure è una manifestazione di Dio.
È per questo principio, che qualsiasi cosa faccia esperienza di questo universo è Dio. E anche, per lo stesso motivo, non è in grado di poter fuoriuscire dall’universo. Ad esempio, l’essere umano, malgrado la tecnologia che raggiungerà non potrà mai fare esperienza al di fuori della realtà in cui è inserito né materialmente, né spiritualmente. Sarebbe come credere che una parte del mio corpo, come un arto, possa staccarsi dal tronco e vivere da esso separato facendo esperienze diverse e avendone coscienza. Tale considerazione ha significato per far percepire che comunque esistono dei limiti che non sono legati alle dimensioni; ad esempio rischiare di sconfinare dall’universo, dato che è infinito. Questi limiti sono di appartenenza, potremo dire di concordanza, sintesi; come due composti chimici che si possono unire solo quando hanno una reazione in comune. Altrimenti, se venisse a mancare tale corrispondenza, si otterrebbe semplicemente che i vari componenti non verrebbero recepiti. Infatti, si può ammettere che più universi sono sovrapposti o congiunti ma convivono solo in determinate condizioni che ne permettono la contemporanea manifestazione.
Quello che a noi interessa per aiutarci nella pratica è l’evidenza che nulla di quanto è presente nell’universo può sussistere senza l’universo stesso, cioè indipendente, fuori dal tempo. Caratteristiche che sono solo del suo creatore, infatti. Al di fuori di Esso, lo stesso essere umano non esisterebbe e, allo stesso modo, non ha gli strumenti per poter spingere le osservazioni esplorative. Anche quando è convinto di star studiando altre dimensioni, in realtà sarebbe sempre la stessa, sarebbe sempre Dio, se no non la potrebbe percepire o dotarsi di strumenti per recepirla.
Quando si giunge a riconoscersi come manifestazione del creatore dell’universo, si perde il significato del voler cercare oltre l’universo. Per il semplice fatto che si ha coscienza di essere l’universo e quindi di farlo avanzare con il semplice vivere. Come potrebbe esserci dell’ulteriore conoscenza ed esperienza? Sempre con la solita libertà di inventare similitudini, sarebbe come se una cellula del mio corpo scoprisse finalmente che essendo una cellula del mio corpo è il mio corpo: io sono lei e viceversa.
Sicuramente, sarà nell’avere le stesse mire dell’universo che un giorno troverò il modo di creare a mia volta un universo dal nulla. E non mappando con la conoscenza il mio essere componente di un corpo più grande e così tendere speranzoso a potermene un giorno separare. Nella maggiore, ulteriore fusione, pertanto nella totale arresa, verrà facilitata sempre più creazione.
Concentrando la nostra analisi sull’uomo, bisogna evidenziare che pure l’uomo è costituito dalla stessa sostanza di qualsiasi altra cosa. Quindi, l’essere umano e l’universo sono la medesima cosa. Più propriamente: egli è Dio, nel senso spiegato nel precedente capitolo. Ovvero che il Padre adopera (anche) l’essere umano per manifestare la Sua presenza e volontà.
Il corpo dell’essere umano, e anche la mente, i suoi pensieri, la sua anima (per chi crede nell’anima), è Dio. Ogni cosa è espressione dell’energia divina, ospita la vita ospitando il soffio vitale, il pneuma, di Dio.
È per questo che nel Nuovo Testamento e nella liturgia cristiana si riscontra l’assunto che Gesù è stato generato e non creato, ed esiste da prima della comparsa dello spazio e del tempo. Non è un enigma, sancisce l’appartenenza e la costituzione divina. Se Gesù è manifestazione di Dio, allora esiste come Dio: da sempre, ovunque e per sempre. Egli ne diventa consapevole e lo esperimenta praticando l’unione con Dio. Che gli permetterà, grazie all’amore che scandisce tale unione, di svincolarsi da qualsiasi cosa possa essere considerata inviolabile. Come la morte, abbiamo visto; e le stesse caratteristiche e lo stesso destino è riservato all’uomo che pratica il Vangelo.
Si legge ancora che è per mezzo di Gesù che le cose sono state create. Si trova raccontato anche che ogni cosa è stata creata all’inizio dei tempi e questo non significa che è stato direttamente e individualmente Gesù a creare tutto allora. Come abbiamo scoperto, Gesù era già presente perché, per via dell’unione, è sempre con Dio. E per lo stesso processo, aderisce attivamente anche alle esperienze di Dio, non come spettatore esterno. Sempre per la medesima eguaglianza, così anche l’uomo, quando accetta il proprio stato di unione con il Divino, si riconoscerà partecipe di Dio e delle Sue “azioni”; ovunque, da sempre e per sempre perché il Divino è infinito ed eterno.
Cogliere e acconsentire a questa equanimità, facilita anche la comprensione di quanto spiegato precedentemente sulla capacità dell’uomo di creare. Questo stato di unione, come già accennato e qui precisato quando si descrive Gesù, è sempre esistito. Anche ora, chiunque lo sta vivendo, ma ha un concreto riscontro nel reale solo quando se ne diventa coscienti. Perché ciò possa essere possibile, viene proposta una vita perfettamente contraria all’originale: separata da Dio, che fa accorgere di essere divisi da tutto e tutti, materiale e insensibile allo spirituale. Scoprire la propria vera natura, pertanto, è in realtà un riscoprire. Proprio come un pesce potrebbe accorgersi che la sua natura è quella di nuotare immerso nell’acqua solo quando prova l’opposto venendo scaraventato sulla terra asciutta.
E questo “opposto” per l’uomo è quantomeno un percorso che lo indurrà a così tante distrazioni da confondergli enormemente la meta. Infatti, benché si riconosca questa esistenza attraversata da varie sofferenze e noie, prevede anche piaceri e bellezze. Sia le esperienze negative che quelle positive sono comunque un compiacimento perché alimentano la percezione di sé. La quale è esattamente la vera conquista in questa vita terrena a differenza di una esistenza spirituale che prevede la fusione e quindi l’impossibilità di determinarsi a sé stanti. Sarebbe come dire che, malgrado la sua ignoranza nei confronti della realtà, l’essere umano, in quanto uomo, prova la sensazione di imitare l’esperienza di un Dio che esiste di per sé, senza dipendere da nulla. In realtà non è così, come sappiamo, egli è sempre dipendente, anche quando ricoprisse un ruolo di potere nella società poiché avrebbe bisogno di qualcuno o qualcosa che gli confermi il proprio ruolo di potere. In altre parole, ignora che è appunto smettendo di mettere sé al centro che potrà avviarsi a un percorso di unione con Dio da garantirgli veramente la capacità di dominio e creazione che agognerebbe.
È come se questo mondo fosse per l’essere umano una sorta di parco giochi, dove poter godere di esperienze alle quali altrimenti non potrebbe neppure accedere. Ed è così che, infine, egli faticherà a volersene ridestare. Dovrà innanzitutto provare quanto in verità questa realtà è finta e limitante. Ma se si sperimenta il virtuale, come è facile notare, è poi difficile tornare al reale. Come uno che prova Internet e i social network e dopo vorrebbe restarci dentro: li preferisce o li crede più facili e immediati delle esperienze che farebbe offline. Vi trova, cioè, una vita più vicina ai propri desideri, con una facilità di ottenere gratificazioni: più comoda.
Anche in questo caso, solo con l’amore si potrà mostrare anche a loro la verità. Non facendoci la guerra, a loro che preferiscono il virtuale o contro il mondo che vivono: perché nulla di tutto quello è vero. Ma mostrando l’amore nella vita reale (offline, per rimanere nello stesso esempio), l’amore per la verità.











07/12/22

CHI SI NASCONDE DIETRO ALLE NOSTRE SOFFERENZE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 17

Qui di seguito il diciasettesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.

CHI SI NASCONDE DIETRO ALLE NOSTRE SOFFERENZE




Uno dei passaggi essenziali del nostro trattato è ottenere la libertà dalla sofferenza. La quale non va a scontrarsi con l’amore provato nei confronti della propria “croce”. Precisamente, si è passati da un accettare ogni cosa che capiti nella vita senza attaccarcisi, al di là della sua parvenza positiva o negativa, fino a giungere ad accettare così anche quanto può essere vissuto come promotore di problemi e sofferenze. Dopodiché, si è addirittura fatto progredire il sentimento di accettazione in vero e proprio amore. È decisamente importante comprendere cosa significhi la proposta che ci muove la croce di Cristo ad amare quanto dovrebbe invece essere spontaneamente da odiare.
Così ci viene mostrato platealmente quanto l’amore possa modificare gli eventi e portare cambiamenti anche tangibili. E che vadano anche oltre il senso comune: si veda, infatti, che Gesù accetta il processo, il rifiuto da parte del popolo fino a chiedere a Dio di perdonare coloro che lo esprimono e lo attuano mettendoLo a morte. Infine, violando qualsiasi legge fisica, Egli riapparirà in vita successivamente al decesso.
Con queste osservazioni, pertanto, ci rimane una difficoltà nel comprendere come Egli possa essere giunto ad amare l’elemento che è maggiormente dicotomico all’amore: la morte. La morte, infatti, è l’evento dove non è presente l’amore essendo questo il veicolo della vita. Amare la morte è un concetto antinomico che si può paragonare allo scegliere di addentrarsi in un torrido deserto per ricercarvi l’acqua.
La verità è che Gesù non ama la morte, come si potrebbe fantasticare quando si utilizza la formula controproducente del giudizio. Ad esempio, se si giudicasse la morte come la presenza più negativa nel mondo oppure come la manifestazione del male. Difatti, nella vita di ciascuno di noi si può registrare che è quando ci si sofferma a ragionare su termini valutativi che alcunché può essere oltrepassato, neppure una sofferenza di cui si desidera la fine. Egli non ama il male che rappresenta la morte o il dolore che procura, né si crogiola nell’accondiscendere alle torture che subisce. In verità, non ama la morte come si presenta in questa realtà, ma Dio che sta dietro alla morte.
Uno dei significati più importanti ci può venir trasmesso proprio per via della gravità che comporta l’esperienza della croce. Ovvero, l’evento nella propria esistenza che per la sofferenza che provoca pare impossibile da accettare e accogliere. E il senso è appunto che dietro alla croce vi è Dio stesso ed è a Lui che va indirizzato l’amore, non alla croce di per sé.
Neanche in questo caso, si invita il praticante ad amare la sofferenza, perlomeno non intesa come un elemento separato da tutto il resto. Proprio come si adduceva in passato a non attaccarsi a nulla, né negativo, né positivo. La rivelazione decisiva alla crocifissione è che il Padre è ogni cosa e quindi lo è anche in tutte le forme e tutti gli eventi di questo universo. Pertanto, Dio è anche la “croce” che ciascuno vive nella propria esistenza. E nell’episodio di Gesù è, come già precisato, quanto viene narrato nella sezione della Passione, compresa la morte stessa. Cristo, infatti, arriva ad amare anche la morte perché essa pure è manifestazione della vita: dello Spirito Santo e del Padre.
Nell’evitare proposte di lettura che siano troppo evanescenti e filosofiche, si può accostarsi a tale svelamento considerando sempre che Dio è ogni cosa. Allora, Egli si manifesta nella nostra vita sotto qualsiasi forma e quindi anche come quello che giudichiamo essere la nostra “croce”. Siamo noi, individualmente, che giudichiamo che un evento sia positivo, un’altra incombenza negativa e altri dettagli invece con indifferenza. Fino, per giunta, alcuni componenti viverli come radicati o irrisolvibili, quello che nella cultura popolare vengono chiamate le “proprie croci”. Per l’universo sono solo eventi, abbiamo già appurato, e che rendono l’intera realtà un unico, singolo evento.
Quindi, per potersi orientare, anche quando fossimo abituati all’idea di giudicare quanto si vive e così a classificare le esperienze a seconda della loro gravità, si può comunque sempre interpretarle come manifestazione di Dio. Dio appare nella mia vita sotto forma della mia croce. Ecco in che modo la posso amare: questo è come Gesù arriva ad amare la morte.
Così, per usare nuovamente il mio esempio personale, la mia croce, la mia sofferenza che non mostra soluzione, la mia magrezza, io posso smettere di odiarla se la riconosco essere il modo che Dio ha di manifestarsi nella mia vita. Allora non è una “croce” intesa come condanna o punizione, ma come l’espediente che il Padre escogita per poter palesare la sua presenza nella mia quotidianità. D’ora in avanti, non riuscirò neppure più a odiare o essere indifferente verso il mio problema, perché sarebbe come uno scegliere di detestare o di ignorare Dio. E lo stesso vale se uno ha un problema finanziario: la sua povertà è il modo, per via di come lui è fatto e delle esperienze che necessita, che Dio usa per mostrarglisi. Se egli smettesse di odiare o ignorare le sue limitatezze finanziarie, queste potranno finalmente ricambiare l’amore ricevuto. Ovviamente, si espone tale dinamica in modo astratto: la sua povertà, infatti, non esiste realmente, esiste Dio che utilizza quella forma per avere una relazione con lui.
Quindi, ci rendiamo anche conto quanto non riuscivamo a risponderci nel capitolo precedente: come avere una relazione con la propria “croce”. Essa, in verità, non esiste, proprio come l’intera realtà è un’illusione. Tutto è eretto all’occorrenza per darci personalmente l’occasione di inscenare la relazione con qualcosa di inafferrabile come è Dio. Proprio come si fa con una scenografia in un set cinematografico.
A questo punto, ricordiamo con ulteriore trasporto quando ci accorgevamo che tutto è Dio. Non solo la propria “croce”, allora, ma esattamente ogni minimo dettaglio è Dio. Per poter essere a noi manifesto, adopera come se fossero delle maschere un evento positivo, uno negativo, quello prodigioso e anche ciò che quasi non notiamo per la sua insignificanza. E lo stesso vale per le forme materiali, non solo astratte. Perciò, l’intera realtà è imbastita a tale fine ed è a beneficio esclusivamente per permettere che un rapporto che altrimenti sarebbe intangibile sia sperimentabile.
Dio sta dietro alla vincita della lotteria, al matrimonio, al salvataggio fortuito di una persona che fa un incidente, alla scoperta scientifica che guarirà da una malattia; all’arrivare ultimo in una gara, al divorzio, al ferimento mortale sul luogo di lavoro, alla comparsa di una epidemia; al sorgere del Sole, alle persone che camminano su una strada senza accorgersi l’una dell’altra, ai germi che vivono ovunque, alla pioggia; al miracolo, all’evento soprannaturale, alla religione che cerca il contatto con l’oltremondano, alla guarigione inspiegabile; al computer sul quale sto scrivendo, alla finestra che ho di fronte, a ciò che ci sta dall’altra parte, al mio corpo. Dietro a tutte queste cose, si nasconde Dio, e non per mantenersi celato, distante, irraggiungibile, ma il contrario: per trovare la maniera, anzi tutte le maniere possibili, per poter essere disponibile e in relazione. Come gli scrittori per l’infanzia che quando raccontano di un fantasma, inventano che indossa un lenzuolo così da essere visibile agli uomini.
La pervasività di questa condizione rende l’essere umano e il Padre costantemente in contatto e in relazione. Relazione che non è mai soggetta ad arbitrari sentimentalismi da parte di Dio, abbiamo visto. Infatti, è a seconda di come reagisce l’uomo che egli si procura un maggiore o minore accesso alle condizioni che lo porteranno alla personale realizzazione e felicità. Il Padre non esprime un sentimento in maniera diversa a seconda del comportamento singolo. Il Suo amore non fa preferenze: gli eventi negativi e positivi che influenzano le persone (dal singolo a intere popolazioni e nazioni) sono semplicemente le conseguenze delle azioni umane. E gli eventi che capitano procurano sempre le ideali condizioni per poter andare verso la Verità, indipendentemente da come vengano giudicati. Verità che qui scopriamo essere un favorire l’accorgersi di avere a che fare con Dio stesso presente in ogni cosa e in ogni evento. Senza alcuna separazione, distanza, pausa e comprendendo tutto, pure la morte (la “croce”).
Logicamente, non sarebbe corretto fantasticare che Dio, essendo unità, si debba frammentare in innumerevoli forme a costituire così il creato. Egli non è innanzitutto la forma, ma la materia. Non è che, come abitanti del creato, si possa creare Dio ogni volta che si produce una nuova forma. Noi possiamo fare quello che vogliamo con la forma, Egli ne è la sostanza che la anima.





30/11/22

MOLTI NEMICI MOLTO AMORE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 16

Qui di seguito il sedicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


MOLTI NEMICI MOLTO AMORE




L’essere umano si arrende alla società e la realizza inseguendo la promessa che così facendo potrà realizzare anche se stesso. Però, non sarà possibile perché la società stessa non faciliterà la libertà a ciò necessaria. Questo non è un errore nel sistema: la società si basa proprio su un incessante insistere su paradigmi identici. Ovvero, nel caso del singolo individuo, un insistere nel tentativo di soddisfare personali obiettivi e desideri, che sono i medesimi per chiunque altro. Nel suo fallimento personale, egli, inconsapevolmente, investirà le proprie forze, tempo e finanze nell’ingrandimento della società.
Mentre, se egli si arrende al Padre, andrà ad accogliere quanto la vita gli propone e che potrebbe essere in disaccordo con la prevedibilità della società e i programmi che essa ha per lui. Così facendo, però, egli incapperà in una serie di esperienze che gli faranno scoprire chi è lui veramente. E seppure questo dovesse avvenire senza che se ne renderà conto, la sua vita sarà un fornire occasioni di miglioramento per sé e per gli altri. Un beneficio perché per vivere così dovrà votarsi all’amore e, per riflesso, mostrare agli altri la via dell’amore. La quale, in conclusione, permetterà di vincere su tutto, anche sulla propria “croce”. Malgrado la società sia incline a disincentivare tali attitudini.
Vincere, infatti, non è una questione di coraggio, quello che si potrebbe supporre essere necessario per affrontare la propria “croce”. Semmai, ha a che fare con il consentire all’amore qualsiasi trasformazione, anche concreta, nella vita. E prova ne è che senza tale opportunità si può vivere un’intera vita ripetendo sempre la medesima esperienza. Se nella società si può venire giudicati quando si esce dalla prevedibilità, significa che in verità non si è liberi di fare come si desidera, come si ama. E allora ci si induce a limitarsi, incolpando se stessi per i traguardi mancati e giustificando la società che rimane là, apparentemente oggettiva e fornitrice delle condizioni per raggiungere con sicurezza tali traguardi.
Come fare se non attraverso speranze che non saranno mai appagate e doveri a cui sottostare (pena il giudizio), per convincere l’essere umano a una vita immiserita di amore? L’individuo teme che andrà in contro alla propria “fine” se non lavorasse così tanto, non appartenesse a gruppi ben precisi e non lasciasse il governo ad altri soltanto perché viene convinto che attraverso la fede, e quindi l’amore, non otterrà nulla. Ma come può esserne certo se non ha mai provato diversamente?
La gratitudine e l’amore nei confronti di un evento nella propria vita, faranno evolvere quell’evento in qualcos’altro. Che sarà, imprevedibilmente, quanto è destinato a essere. Esito che, come abbiamo già individuato, potrà essere fondamentale, indifferente, impossibile da valutare oppure rivelerà la sua importanza e utilità ad altri. Tale dinamica, stiamo tornando a sottolineare da un punto di vista più profondo, avviene non solo per gli eventi che personalmente si possono giudicare positivi, ma anche per i dettagli del quotidiano ai quali si incappa senza quasi accorgersene. Inoltre, tutto vale anche per quanto si può considerare come la propria “croce”, cioè qualcosa che è illogico mettersi ad amare.
Proprio come il non accettare che si possa far sbocciare un fiore al solo pensiero, così non avverrà il ben che minimo cambiamento senza accettarne la sua possibilità. E qui si sta insistendo sul far coincidere il sentimento di accettazione e accoglienza con un vero e proprio indistinto amore. Questo è l’atteggiamento di Gesù nei confronti della morte. Il risultato che ottenne fu, di conseguenza, il vincerla; che, ripetiamo, non è un “uccidere” così la morte, ma vivere con essa con amore. Che significa senza condizioni, proprio come caratterizziamo l’amore divino. Egli, infatti, giostrerà dal suo decesso in poi un rapporto di corrispondenza e coniugazione con la morte.
Dalla Passione e dall’allegoria della croce si ottiene, pertanto, la prova che sia possibile. Ovvero, che tale trasformazione della “croce” personale in un lasciapassare per una successiva esperienza è attuabile per l’essere umano. Anzi, scopriamo che la formula della “croce”, cioè l’amare la sofferenza personale al posto dell’odiarla, è concepita perfettamente per l’uomo, per come è fatto. Se così non fosse, Gesù non ci sarebbe riuscito, sarebbe morto invano, fallendo.
Per le persone è possibile con questa procedura giungere al Regno di Dio perché lo permetterebbe la loro stessa natura. Non è vero che bisogna attendere la propria morte perché il Regno di Dio non è il “regno della morte”, esso è possibile qui e ora. Se si accetta la propria “croce” e la si ama, allora qualsiasi “croce” capitasse sarà superabile. Finanche la morte, così che sia finalmente chiaro che una volta accettata la propria “croce” andranno a perdere di valore concetti che delimitano confini tra vita e non vita, morte e non morte, sofferenza e non sofferenza. Una condizione prossima nella quale nulla è impossibile ma anche che preclude la possibilità di aggrapparsi ad alcuna idea di limite. Da qui, una conseguenza importante sarà che verranno a mancare i sentimenti, prettamente terreni, che spingono a rincorrere desideri mondani. Poiché appunto, per definizione, sono caratterizzati da finitezza e transitorietà. Chi vince la propria “croce” non potrà più rimanere sedotto da brame egoistiche, anche se queste potrebbero essere state le spinte iniziali per la ricerca interiore.
È sufficiente l’approssimarsi a Dio per rendere qualsiasi coscienza alleggerita da inutili egoismi e, pertanto, da mire materiali. Malgrado ciò, non sarà impedito il raggiungimento di una vita ricca anche materialmente; perché questa non avverrebbe come esito a un proprio intento, ma come mero effetto collaterale dell’accesso alle infinite risorse della vera realtà.
Per questo non ha importanza che un fedele debba essere in un modo piuttosto che in un altro. Che debba pertanto aderire a un profilo e un’immagine precisi di fronte a Dio e alla comunità religiosa. Perché quella è solo la superficie (la “tenda”, cita per similitudine San Pietro), l’importante è l’esito del viaggio. Le condizioni che si vivono sono solo l’espediente che la vita ci fornisce per arrivare ad accettare la propria croce e così raggiungere la grazia. Non ha importanza se per ottenerla si debba nascere con devianze oppure vivere con abitudini che la comunità giudicherebbe peccaminose, perché tutti questi aspetti capitano al solo scopo di essere “croci” da amare. Quando poi si sarà in grado di farlo e si vivrà la trasformazione come testimoniato dalla croce di Gesù, allora tutte le devianze, limitazioni e peccati si scioglieranno automaticamente come neve al sole al semplice approssimarsi al Divino.
Ovviamente, questo non sta a celare una libertà incondizionata nella propria vita. La formula, infatti, rimane sempre quella del vivere con gli altri e rapportarsi alle altre persone come vicarie di Dio.
In un contesto religioso, si osserva che è allora un errore il considerare come una punizione la “croce” che ci viene proposta nella vita. Ma anche è errato il considerare una forma di perdono divino quando il fedele sente che accetta la propria “croce”. Vale a dire che se si considera il proprio vissuto come una condanna, ci si obbliga a vivere con un senso di colpa. Invece che intenzionati a ottenere la libertà, ci si ritroverebbe ad auspicarsi la sofferenza perché vista come veicolo divino. Non si sa verso cosa debba portare, come se il fine fosse solo soffrire e lo si vive come una pena a qualche infrazione commessa in un passato; non si conosce il motivo della condanna e questo comporta un tendere a vivere inclini alla sottomissione.
Anche un non credente può vivere così, perché ci si convince di non essere all’altezza per il motivo che non si ottiene quello che si vuole. Vivere da condannati, da puniti, è così accettato che pure quando il fedele arriva a non dare più peso alla propria sofferenza, oppure quando essa cessa (ad esempio, la risoluzione di una qualche insufficienza), egli si considera “perdonato”, “graziato”, ecc. Nel suo caso da Dio, tuttavia non sarà un atteggiamento bastante per progredire poi oltre, alla grazia. Perché se ci si crede perdonati, vuol dire ancora pensarsi come una persona che ha commesso una qualche infrazione. Oppure, se non si è credenti, si giudica che si è ottenuto quanto si desiderava perché finalmente ce lo meritiamo o è capitato un colpo di fortuna. Quindi non qualcuno che ha vinto tutto ciò, ha oltrepassato questi sentimenti, ma ne è ancora attaccato: avere fede di avere soltanto questa coscienza terrena, basata su premi e ricompense, pene a assoluzioni senza possibilità di mutamento.



28/11/22

AUTOSCIAMANO (SELF-SHAMAN)

The video shows the performance that helped the artist Enzo Comin to disclose the “self-shaman”, the artistic interpretation of his message. This was possibile thanks the artist Manuel De Marco’s guide that, through his poetical and physical approach to investigate the reality, he is able to suggest the meaning of a necessary connection with (absent and present) dimensions. The self-shaman, indeed, is those who doesn't identify oneself in something, neither defined nor favourite, not even in oneself, so much so as is in a concrete form through the complementarity only. Therefore, on the video two actors shape a physical part and a no-physical one; the absolute, indefinite essence and the attributions assigned by other people; the double which in reality is unity and totality… The scene is designed as a single one entity and a single one event.

As it is told by Enzo Comin in his book VANGELO PRATICO (“a Practical Gospel” published by Anima Edizioni): creativity has just directly linked with the capability to create, that, regardless a concrete production of objects (i.e. in the case of a visual artist), allows to experiment a reality beyond differences, divisions, definitions and preferences. It's by going beyond this point that the creative man becomes full of creative power, with no limits and who can't rejecting anything. Unity and totality: everybody in this way is able to see to be (also) everything he/she desires to be; it already is, he/she hasn’t do anything to get it if recognizes oneself the author and not an instrument. Thus, everyone is responsible for each thing done in the own life by reading a meaning in everything, even in what before looked chaotic. The union condition leads, as a consequence, to a physical and mental wellness, because man creates the problems in the own life and the solutions as well, can’t point fingers or looking for helps elsewhere: so, it wouldn't need to look for a shaman or a healer… because one already is it.

The self-shaman, thus, is those who feels oneself as integral part of the harmony that is the base of an universal order, like if the whole universe takes part in the same sole event. The self-shaman, because of being aware of this event, is inevitably in it and an active part – and this is enjoyed by everyone and everything are in contact with him/her. 




23/11/22

LA PROPRIA CROCE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 15

Qui di seguito il quindicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


LA PROPRIA CROCE


In questo nuovo viaggio nella pratica del Vangelo, si giunge a un punto superato il quale gli argomenti trattati nel precedente capitolo si potranno notare senza macchinosità. Spontaneamente, come se fosse possibile per ogni evento che si vive leggerne la matrice intima.
Consideriamo un esempio così da ritrovare tali intuizioni nella quotidianità. Io sono molto magro, o meglio: è così che appaio formalmente in questa realtà. Conosco anche il motivo di ciò: odio la mia magrezza. Di questo odio, se ne spiega l’origine nel mio essere convinto che la magrezza sia un ostacolo a un rapportarmi serenamente con gli altri. Quindi, proprio nel momento in cui dovrei esprimere invece me stesso in un modo compiuto, convincente. E finché, per questo motivo, io odierò la mia magrezza, essa rimarrà presente in me. Il suo mantenersi è così conseguente al mio viverla come un problema grave, diciamo pure irrisolvibile. Tuttavia, essa persiste anche per creare le condizioni adatte a causa delle quali io smetta di rimanerne attaccato. Ovvero, non odiarla più: arrivare a cessare di crederla permanente.
Se uno arrivasse ad amare quanto si è convinto di non poter amare nella propria vita o nel proprio modo di essere, ciò svanirebbe miracolosamente. Proprio come il fiore che sboccia al solo pensiero, del capitolo precedente.
Seppure ciò che non si ama veniva vissuto prima esclusivamente come un problema, quando viene visto come opportunità per risolvere lo stesso problema, la sua gravità cesserebbe. Nell’esempio personale: la soluzione apparirebbe non appena accettassi il mio essere così magro. Cioè che la magrezza non era il problema, ma la modalità per portarmi ad accettarla; quando si smette di vederne il problema non per indifferenza o rassegnazione, ma per un cambiamento di sentimento. Da odio in amore.
Il sospetto di illogicità nella dinamica presentata sta nell’ottenere una risoluzione attraverso un sentimento di amore rivolto a qualcosa che non si può apparentemente amare. In altre parole, giungere ad amare ciò che non si vuole amare, perché fonte del problema. Amare qualcosa di detestabile, creatore di disagio: il nemico presente nella propria vita. Il quale, invece, si interpreta che sia necessario contrastare affinché ogni cosa della propria esistenza che non fila liscio, iniziasse a fluire serenamente. Tuttavia, perché questa eliminazione sia possibile, il sentimento da rivolgergli è opposto: l’accoglierlo. Fino a che ci si fa la guerra, se ne permette paradossalmente la resistenza.
Amare ciò che nella propria vita è palesemente impossibile da amare per il disagio che comporta, ovvero per la sua carica di sofferenza, è un elemento decisivo per il nostro viaggio. È quanto viene rappresentato nel Vangelo come la “croce”. Ed è a questo simbolo che i cristiani, infatti, recano significati basilari. Essi ne parlano come il peso di cui caricarsi, proprio a imitazione di Cristo nel momento della Passione.
Ognuno ha, allora, una personale “croce”. E scopriamo che non deve essere semplicemente tollerata, ma amata. Ed è attraverso quest’azione che parte una vera trasformazione nel fedele. Amando ciò che chiaramente è per lui odiabile, procederà verso il Regno di Dio. Il quale, come traiamo dalle Lettere degli Apostoli proprio per confortare i nuovi fedeli, non viene limitato a una mera ricompensa successiva alla morte.
Infatti, si riscontra anche in questo passaggio fondamentale l’avvertimento di non cedere alla tentazione di credere che la propria croce sia solo una sorta di prova per garantirsi il posto in Paradiso: come abbiamo ormai bene imparato, non c’è in realtà alcuna gara. La sofferenza è l’opportunità nella vita per poter evolvere al Regno, e questo può essere non appena si è pronti. La sofferenza non è fornita semplicemente per morire.
Invece che sopportarla, la sofferenza deve essere amata; lo si intuisce da Gesù che si fa arrestare, giudicare, condannare e giustiziare. Tanto forte era l’intenzione di chi lo circondava che Egli venisse soppresso, quanto lo era la Sua possibilità di dimostrarSi innocente di fronte al tribunale. Tuttavia, accetta il volere altrui e permette “l’errore giudiziario”.
La croce, la Sua pena capitale, è indubbiamente la rappresentazione e la dimostrazione della sofferenza che Egli deve patire. La quale non è solo fisica, purtroppo, ma anche intima: le persone alle quali si è donato, ora lo gettano alla morte. La croce, pertanto, è l’emblema della trasformazione interiore a cui il praticante del Vangelo è invitato.
Come Gesù ha amato anche la croce, la sofferenza massima della Sua vita, pure il fedele deve amare la propria. Così, proprio nell’episodio che avrebbe dovuto dimostrare il fallimento della parola di Gesù, senza che i Suoi accusatori se ne rendevano conto, essa viene consacrata. Gesù rende tutto un dono, anche la propria morte: come si fa a donare la cosa peggiore che possa accadere? Al fine di poter augurare che non succeda a nessun altro, come se Egli avesse desiderato che la morte capitasse solo a Lui e l’umanità ne venisse risparmiata.
Nel leggere la Bibbia si trovano racconti mirabolanti e anche avventurosi, ci sono avvenimenti in cui prigionieri conquistano la libertà tramite prodigi. Eppure, Gesù non godrà di un simile trattamento: tra tutti gli espedienti che avrebbero potuto aver luogo per poterLo liberare dall’arresto, addirittura soprannaturali, non ne accade nessuno. Se si fosse salvato, oppure se infine Lo avessero rilasciato, la comprensione sulla trasformazione della sofferenza non sarebbe avvenuta. La conoscenza trasmessa attraverso un evento, ancor meglio che con tante parole, arenerebbe.
Le persone possono individuare parecchie croci nella propria esistenza. Vincerle è possibile, e questo avviene con l’amore. Gesù vince la morte, che è, in quel momento, la Sua croce; e, infatti, non c’è da stupirsi che tornerà dalla morte. Se è possibile addirittura vincere la morte, allora sicuramente ognuno può amare la croce che ha.
La difficoltà in questa azione non è nell’accettare qualcosa di inaccettabile, ovvero l’amare qualcosa che è improponibile da amare, perché se la propria croce è presente vuol dire che è già accettata. Non fa differenza amarla o no: essa già c’è. La difficoltà, semmai, è nell’accettare di vivere quell’amore. Che è comunque una relazione e quindi che prevede una corrispondenza. Ad esempio, cosa ci potrei fare con la mia magrezza? Se io l’amassi, vi stringessi quindi un legame, cosa ci dovrei fare assieme?
Allora, prima di impegnarsi nei confronti della propria croce, è determinante fare luce sull’amore. C’è l’intero Vangelo da attraversare, prima di affrontare la croce, infatti.
Per amore si intende quella spinta verso qualcosa, che fa muovere verso la vita. È la medesima descrizione che si può trarre quando si trattava l’energia che muove ogni cosa. Che spinge una pianta a germogliare, il bruco a divenire farfalla e ogni componente dell’universo a realizzare se stesso. Nel precedente libro, difatti, si lasciava intuire che la vita fosse sinonimo di amore.
L’amore è la spinta verso tutto ciò che è vitale, che è bello. Che attira e permette una relazione, uno scambio di doni. Tuttavia, se si osserva con attenzione la quotidianità, spicca che esperienze simili non sono poi così ovvie. Come abbiamo in vari modi affrontato, specie nel precedente libro, lo scambio, la gratitudine, l’amore, il fedele li dovrebbe rivolgere verso ogni cosa gli capiti nella vita. Eppure, non è così scontato che se ne abbia l’occasione o anche solo il tempo. Il motivo è certamente dipeso da una routine scandita da gesti e impegni che sono sempre abbastanza simili. Ogni giorno si è indotti a compiere azioni che hanno più a che fare con il soddisfare un dovere. E questo non è strettamente collegato con il piacere o con il muoversi verso la bellezza, verso ciò che è vitale.
L’abitante della nostra società subisce un forte limite e disabitudine a rivolgere tali sentimenti a quanto vive. La causa è la struttura di doveri e divieti che egli segue, ovvero la società stessa. Ma non è nulla di alieno, se si guarda con attenzione: se l’individuo fosse infatti libero di inseguire le sue pulsioni e ricercare quindi solo quanto gli suscita amore, vivrebbe con regole tutte sue. Cioè, non sarebbe facile dargli delle abitudini da seguire e così permettere l’ordine per la realizzazione della società stessa. Questa dinamica non è un’imposizione tirannica di un qualche misterioso gruppo di potere, è il modo spontaneo alla quale la società intera si è omologata per permettere la sussistenza e sviluppo generali.




16/11/22

RICORDARE LA VERITA’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 14

Qui di seguito il quattordicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.

 
RICORDARE LA VERITA’


Riprendendo la similitudine sfruttata nel capitolo precedente: l’operaio non può invidiare l’imprenditore. Come non ha giustificazione il disprezzare chi gode di ricchezze quando messo in confronto con chi è povero. Perché, come si può desumere, l’oggetto dell’invidia è un’illusione: esso varia a seconda di come lo si considera, perciò a seconda della propria coscienza.
Infatti, quello che il ricco ha e il povero non ha, ovvero ciò che si può invidiare a un’altra persona, non è veramente l’oggetto di per sé, ma la diversa idea che il ricco ha della realtà. Uscendo dall’illusione, si precisa così che non si può invidiare un’altra persona perché ciò di cui si invidia è raggiungibile da tutti attraverso un cambio della coscienza.
Non si può invidiare una persona perché ha una cosa e noi no; perché quello che ha è esattamente quello che abbiamo anche noi. Non l’oggetto dell’invidia, ma la vita; e la possibilità di accedervi godendone le risorse. Nel nostro esempio: l’operaio non può invidiare l’imprenditore perché anche lui è potenzialmente “antenna” come l’imprenditore. Siamo tutti dotati della stessa possibilità, della stessa vita: a quella persona è provveduta la medesima vita di chiunque altro. La quale è manifestata in modo diverso da ciascuno attraverso un fisico, una forma: il proprio corpo e l’essere una persona. Ma quello è il modo più immediato per renderla concreta, nessuno ci obbliga a fermarci qui; se non la propria coscienza.
Coinvolgiamo Dio in questa dinamica, perché essendo permanente Egli non può gestire in modo diretto la realtà materiale. La quale non è permanente, come sappiamo. Egli, allora, la consegna in gestione all’uomo, che rientra così perfettamente in questo proposito. La narrazione di questo passaggio di doveri e poteri si ritrova nel libro della Genesi. L’essere umano vive in mezzo al creato considerandosi un padrone, invece. Spesso, anche le persone che aderiscono a filosofie spirituali tendono ugualmente a vedere l’uomo come elemento esterno inserito secondariamente, come se non ci fosse un effettivo collegamento tra il suo esserci e il perché è proprio qui. Infatti, ne consegue una reazione contraria al vedersi padroni: dei meri ospiti che qui devono semplicemente soggiornare. Invece, l’uomo è colui che ha la cura del creato, ne è il curatore, il “tutore”. Da non fraintendere come chiave di lettura per riconoscere l’essere umano come superiore al resto del creato. Seppure curatore, questo è un ruolo come quello di qualsiasi altro componente dell’universo.
La lettura di questo ruolo come giustificazione per il dominio sul creato è certamente l’idea che ha permesso una serie di problematiche che ci hanno accompagnato lungo tutta la Storia. Oltretutto, il vantaggio dell’uomo sul resto del creato ha acconsentito anche di interpretare che a un certo tipo di popolazione viene accordato il permesso di dominare su un altro gruppo della popolazione. Benché tali pensieri siano chiaramente in contraddizione alla via indicata da Cristo, addirittura i cristiani ne sono stati i promotori, come sappiamo. Ma, probabilmente, questi non erano per esprimere un credo nei confronti di uno sviluppo spirituale; piuttosto un tornaconto su un piano legato al potere e all’influenza politica.
Difatti, tutto quanto succede nel creato è diretta conseguenza della volontà umana, conscia e inconscia. La realtà ne è il risultato e non viceversa, abbiamo constatato in più occasioni. E non è neppure conseguenza della volontà divina, la quale, poiché eterna, ferma e costante non potrebbe che essere inconciliabile con questa dimensione; sarebbe come un fermo immagine. Quindi, ad esempio, se un uomo si mettesse a osservare un fiore e per gioco esprimesse il pensiero che quel fiore sbocciasse all’istante come per incantesimo a esaudimento della sua volontà, non vedendo alcuna reazione si convincerebbe che non può modificare nulla della realtà. Invece, proprio il germogliare della pianta dal seme fino a diventare fiore e infine sbocciare per così dare vita ad altre piante è esattamente la conseguenza di quel volere. È perché l’uomo vuole così che in quel modo avviene ed è così il mondo governato dall’uomo. Tant’è che, come accennato più sopra, l’opposto, cioè un mondo governato da Dio, sarebbe un istante unico. L’istante in cui il mondo è stato creato che si protrarrebbe all’infinito. Nel racconto dell’Eden, il mondo è stato creato e il fiore del nostro esempio sarebbe comparso e in quella forma rimasto per sempre. Nulla di tutto ciò è comprensibile se si rimanesse convinti che pure Dio debba sottostare alle leggi della fisica come la materia.
Invece, per mezzo dell’uomo e del suo pensiero, il fiore è prima seme, poi pianta e di nuovo seme. Questo, però, non significa che Dio è tagliato fuori: tale dinamica è il modo ideale per cui Egli possa manifestarsi, interagire e creare. L’essere umano, come abbiamo imparato, non è separato dal tutto e quindi lo si può individuare come lo strumento indispensabile per Dio per animare la creazione. Essere in linea con il Vangelo produce uomini in grado di creare bellezza e quindi cose utili per il mondo in modo autonomo. Addirittura, diventando cosciente di ciò, quell’uomo del nostro esempio sarebbe per davvero finalmente in grado di far sbocciare il fiore all’istante. Mentre, se si è poco forniti di fede, e quindi non convinti pienamente che niente è impossibile, si può solo alimentare con il proprio pensiero il pensiero dominante sulla realtà (quello che credono tutti) che porta quel fiore a vivere il suo ciclo vitale seguendo i ritmi e i tempi convenzionali.
Gli sconvolgimenti climatici o altri mutamenti radicali nel mondo sono la conseguenza diretta del graduale modificarsi del pensiero umano. I mutamenti sono globali perché questo pensiero non è in realtà intrinsecamente personale ma esterno a noi al quale le persone comodamente traggono la propria volontà che, seppure credono libera e individuale, è in realtà omologata e programmata.
L’intero creato è, come dice la parola stessa, un artificio. Dai nostri approfondimenti potremmo riassumere che il motivo di tale costruzione è proporre un ambiente dalle condizioni ideali perché l’uomo si accorga di essere divino. Ci appare, infatti, che egli si ritroverà, seguendo un percorso di consapevolezza, a riconoscersi come strumento della vita stessa e non solo un semplice essere umano. Lo è da sempre, è il suo stato: per questo si può affermare che la conoscenza di ciò può essere stimolata e intuita perché già la si conoscerebbe. Ed è come se l’essere umano semplicemente la ricordasse. Le intuizioni, infatti, nel loro fluirci nella mente non sono probabilmente originarie da un effettivo esterno da noi, ma è conoscenza che riemerge spontaneamente come un deja-vu. Proprio come dei ricordi sovvengono a seguito di immagini, azioni o parole captate, anche distrattamente.
A questa conoscenza, siccome non è esterna, non è una concessione l’accedervi: essa è già nell’uomo. Non bisogna fare nulla al di là del praticare il Vangelo al fine di risvegliare questa coscienza che, allora, non è estranea, diversa, ma nostra fin dal principio. Per mezzo di ciò, l’essere umano può concretamente intervenire nella realtà, pure oltre il senso comune. E questo lo abbiamo constatato essere un mero effetto collaterale piuttosto che una modalità per ottenere tutto quello che si vuole indiscriminatamente, come un mago. L’intervento umano, al massimo, ha utilità nello svelare chi siamo e cosa facciamo. La personale volontà, infatti, a questo punto del percorso, non impone più pressioni per rincorrere un qualche obiettivo mondano perché il mondo non è più percepito ammaliatore, restrittivo e obbligante come in passato, quando lo si credeva tutta la realtà esperibile. Così, si rinnova l’accorgersi che l’essere umano è un elemento creativo di questa realtà e non un passivo spettatore.
Sembra un paradosso, però, che per poterlo scoprire, egli deve passare per forza per l’esperienza materiale. In effetti, come potrebbe fare il confronto se sapesse solo quanto si può conoscere attraverso l’esperienza dell’esistere come qualcosa di immateriale? Proprio come nel nostro libro precedente si arrivava a intuire l’esigenza di introdurre la morte per potersi accorgere di essere in vita, qui si constata pure che la realtà materiale è un dono di Dio per farci cogliere il nostro essere, innanzitutto, non materiali. Difatti, se l’essere umano invece di passare per la materialità, salta già a tornare fuso in Dio, sarebbe come daccapo, non avrebbe imparato nulla, sarebbe incompleto. Quella che viene considerata da alcuni (anche credenti) come una vita di sofferenza, è invece una strategia perfetta che Dio ha inventato e donato proprio perché l’essere umano possa tornare a unirsi con il tutto, con Lui, in una completa coscienza.
Questo è il senso della tentazione nell’Eden di diventare già onniscienti e onnipotenti come Dio, cioè di diventarlo senza dover passare per l’esperienza terrena. E così condannarsi a uno stato incompleto e inadeguato. Fortunatamente, Dio ci fa uscire da un simile vicolo cieco inserendo l’essere umano nel creato e permettendogli così di dare al creato l’avvio all’esistenza (transitoria).
In un paradigma quasi impossibile da immaginare per la sua magnificenza, l’uomo, diventando l’opposto, cioè materiale, può rendersi conto di essere uno strumento, un membro attivo di qualcosa di infinitamente più grande e non esclusivamente materiale. E solo così fare esperienza che dal creato egli non è veramente distinto ma è tutt’uno.