28/02/14


Con "l'arte deve proporre" intendo che non deve essere definita e finita; parlo in questo modo pensando alle immagini astratte che realizzo. Inoltre, è proprio perché il risultato è astratto che nell'opera il partire da una fotografia acquisisce una fondamentale importanza.
Un'immagine astratta è uno spazio, meglio: un palco; che ospita una performance. Il punto di partenza è ciò che penso di vedere all'interno di questo spazio e che ancora non è visibile. Alla fine, non sarà comunque identificabile, non in modo chiaro almeno, ma l'opera sta tutta nel realizzare quella visione e questo avviene identificandomi in essa. Come se la portassi nella realtà, da quest'altra parte del quadro.
Tutto è una performance.

27/02/14


Leggo una poesia o espongo un quadro, metto in scena una performance: il pubblico si aspetta qualcosa, commette l'errore di avere delle aspettative.
Come se fosse davanti a un rebus e dovesse per forza cavarne fuori la definizione: c'è una mia foto completamente astratta e invece di guardarla cerca di capire cosa rappresenta o dove è stata scattata, se è digitale ecc. Forse l'arte bisogna semplicemente goderla e non si riesce a farlo in pubblico. Di certo, non contiene un messaggio ma una proposta. Sono sufficienti i primi anni di vita per apprendere come trasmettere un messaggio, mentre negli ultimi quindici anni ho tentato di imparare a raggirare la cosa seppure sto comunicando.
Piuttosto, l'opera d'arte comprova la molteplicità dell'interpretazione, e questo spiazza. Non ci si può aspettare qualcosa di stabilito o fisso; a parte che un'opera d'arte deve contenere la sorpresa, l'assurdità. Se invece contiene una sicurezza, un riconoscimento, un significato, siamo davanti a pessima arte.
Anarchia nel significato più alto: inscenare delle nuove forme, dei nuovi significati. Quindi, nella mia arte, io sono Dio e il mio quadro la mia celebrazione religiosa.
Ho avuto la fortuna di incontrare persone che hanno intercettato, della mia religione, le regole (i dogmi), attraverso le quali strutturo i miei lavori. Ogni artista dovrebbe avere la sua fede, dovrebbe mostrarci la (sua) verità; quando più in alto non può arrivare, abiurare e ripartire senza dogmi e senza fede, alla ricerca di un primo nuovo contatto.
Non mi contraddico se parlando della mia arte, qui metto a fuoco la sua vicinanza ad una religione e nel testo precedente affermavo quant'è lontana dalla spiritualità. Perché l'arte è effettivamente, anche nel caso che abbia sorgente dalla materia, un modo per passare in altri mondi, per elevarsi dalla terra. 
Ho notato che: maggiormente trascendo la realtà per mezzo dell'arte, tanto riesco a essere concreto nella mia vita quotidiana; maggiormente latito la produzione artistica e tanto avrò difficoltà nel poggiare i piedi per terra nelle mie relazioni con gli altri. Più amo una persona, meno mi occupo del mio lavoro allo scopo di stare più tempo possibile con lei, con la conseguenza di "alienarmi" e non essere saldamente in grado di concretizzare una relazione. Non essere innamorato, lo capisco da quanto tempo passo nel mio studio.

24/02/14


Le persone sono libere, di pensare quello che vogliono, di fare quello che vogliono e così è l'intera vita. L'uomo ha un'energia enorme, è in grado di compiere qualsiasi cosa. E' errato pensare che non siamo liberi.
La gente considera un dogma la mancanza di libertà, la quale esiste, sì, ma non è propriamente in questo, piuttosto nella qualità: dei pensieri, delle scelte, dell'intimità, dei sogni, della vita pubblica... Ovvero, la struttura all'interno della quale viene formata la vita dentro di noi e fuori: la struttura all'interno della quale vengono formulati i pensieri. Quella no, non è incondizionata ma viene stabilita dal mondo circostante. La società fissa il modo in cui i pensieri vengono indirizzati, si è liberi di pensare a qualsiasi cosa, a vivere prendendo qualsiasi decisione, ma non liberi di sceglierne il modo. Vale a dire, non siamo noi a scegliere la priorità dei valori.
Si può fare quello che si vuole, ma la valutazione di cosa sia importante non è individuale ma assoluta all'intera comunità a cui si appartiene. Il modo di pensare è cambiato nella storia, stabilendo di volta in volta cosa è più importante e cosa meno: si crede di formulare giudizi personali quando si decide la propria vita e invece si segue tutti la stessa direzione. In passato, al primo posto stava l'uomo, cosa percepisce, i propri sentimenti, i sogni: l'anima. Ma tutto questo non è quasi più presente, ora l'uomo non è più al centro. Attraverso i mass media e il modo in cui è stabilità la società, il pensiero da qualche decennio si è spostato.
Oggi quello che è importante è la propria funzione, a cosa servi per la società, il lavoro che non è inteso come personale sviluppo ma come l'impiego che occupi. Il passaggio principale è avvenuto cento anni fa, quando lo sviluppo tecnologico ha rivoluzionato ogni cosa. Tuttavia, la tecnologia è stata applicata per migliorare l'uomo, era ancora il periodo umanista che ora raggiungeva l'apice: la tecnologia permetteva all'uomo di realizzare cose impossibili prima. Nel corso dello scorso secolo, infatti, l'uomo ha esaudito molti sogni, si è fatto più grande, poi, qualche decennio fa con il boom economico, la tecnologia ha cominciato a servirsi dell'uomo per farsi essa più grande. Per crescere, la società ha fatto in modo che l'uomo fosse asservito alla tecnologia, spersonalizzato; e l'individuo ha avuto in cambio la diffusione del benessere. 
Chi, come me, è nato in questa società, infatti, ha l'abitudine, quando incontra un'altra persona, non di conoscersi domandandosi reciprocamente "chi sei" o "come stai" o magari "cosa sei", ma "cosa fai", "di cosa ti occupi", "qual è il tuo lavoro". Il fare è più importante dell'essere perché identifica il proprio posto e funzionalità all'interno della società. Non si ha valore se non si ha una risposta a queste domande: nella lista delle priorità, in cima sta il posto che all’interno della società personalmente si occupa. Non è neanche importante se si è felici o altri dettagli riguardanti l'intimità, ma lo stato occupazionale. Questo non è da confondere con la ricerca di uno scopo, è qualcos'altro. 
E' stato modificato il modo in cui formuliamo i pensieri, e la modifica avviene con l’imposizione del comportamento da avere per sentirsi accettati dalla società. Se non si ricopre un ruolo, non si è accettati e l'insegnamento di questi canoni avviene attraverso gli stimoli più semplici, tramite la scelta di quali notizie diffondere, la tv... E non è più una cosa che ha a che fare con il sentirsi appagati o realizzare qualcosa nella vita, oggigiorno si tratta esclusivamente di far parte della produttività. Non si può non avere un ruolo improduttivo: ad esempio, l'anno scorso non ho lavorato granché e non ho quasi guadagnato, eppure è stato l'anno più felice della mia vita come anche l'anno in cui mi sono sentito meno compreso, inserito. Quando incontravo una persona, rispondevo alle domande "come stai?", con un "sono felicissimo", a "cosa fai?" con un "sto vivendo una bellissima storia d'amore" e il risultato era squadrarmi come un malato di mente. Ero io quello che sbagliava, non il mio interlocutore che mi giudicava un matto perché all'interno di questa società, in cima alle priorità ci sta la produttività e quindi il fare, il portare avanti un lavoro, l'accrescere una carriera. Tanto che se si fa un'analisi da questo punto di vista, l'anno scorso per me è stato un anno di perdita, un buco ingiustificabile che quasi sono spinto a provare imbarazzo nel spiegarlo: se si guarda la mia carriera, esso non ha senso.
Questa è attualmente la realtà: aspettarsi che si proceda con abnegazione con il proprio lavoro, che si spinga costantemente una propria carriera; non si può manifestare il contrario (forse solo di nascosto, come in 1984). E lo si capisce perché una marea di gente là fuori è impegnata a fare lavori che non servono a nulla, se non alimentare altro lavoro per rendere occupate altre persone. Impieghi che producono solo carte o aria, alimentando così il sistema; solo per esso sono indispensabili. E quando viene chiesto al lavoratore di spendersi di più, di fare sacrifici, egli acconsentirà sentendosi magari investito di qualcosa di più alto; mentre se riceve una retrocessione, come ad esempio, sempre con la scusante della crisi, una diminuzione delle ore di lavoro, la cassa integrazione, un abbassamento di livello o il licenziamento, il lavoratore cade in crisi, se ne vergogna, quasi un suicidio (e non è una metafora). Il motivo? Che l'uomo di questa società si identifica nel proprio ruolo, nella propria utilizzazione; senza, non esiste. Perché diviene, infatti, un oggetto, una mera attrezzatura, e appunto sacrifica altri aspetti della sua esistenza, i quali hanno una collocazione inferiore nella classifica dei valori. Se questo modo di pensare non cambierà, sarà terrificante quando la mia generazione arriverà al momento di affrontare la vecchiaia.
Io, da giovane, sognavo per il mio futuro una vita in cui al centro ci fosse il sesso e mi sembrava una cosa normale, ma ora mi guardo attorno e vedo una marea di gente, compreso me, che spende ogni energia e il proprio tempo per la propria occupazione, la quale, evidentemente, è più importante pure dello scopare. Ogni tanto mi domando se le persone lo fanno ancora o se si accorgono che è una di quelle cose della vita che sono state spostate nella categoria di "ornamento" o "cornice"...
Pertanto, quando una persona che si occupa di fare critica d'arte se ne esce parlandomi di sentimenti, di emozioni, di passioni dell'artista, non può che apparirmi anacronistica. Dove dovrebbe emergere o starci l'anima in tutto questo? Purtroppo, c'è la consuetudine di vedere l'artista come un essere a sé stante che vive mettendo al centro l'anima, magari pure mosso dall'ispirazione. Nulla di più offensivo: l'artista deve parlare alla pòlis, è immerso nella società, se nell'Ottocento gli artisti erano nella pelle di una creatura che quasi creava l'arte in trance per mano di una spiritualità superiore... era perché la società di allora era così. A volte, trovi oggi un critico d'arte o il fruitore di una mostra convinti di avere di fronte l'opera di un essere capace di parlare all'anima. Oppure, siccome si parla di arte, ci si riferisce a qualcosa di alto, celeste, sopra di tutto. Si sbagliano, l'uomo non è un animale: l'animale ha un'immagine di sé, dentro, e quindi per istinto si riconosce, ma l'uomo, invece, conosce sé stesso guardando il mondo che lo circonda. E il mondo che ci circonda non vede più all'uomo e alla sua anima, ma alla sua funzionalità operativa.
L'artista deve essere contemporaneo, non può non parlare della realtà. L'arte deve affrontare questo, quindi: il lavoro. Ma non come un tempo, nel Novecento, ma della personale funzionalità. Io ho trovato il mio ruolo e lo soddisfo operando nell'arte: non c'è nessuna specialità o elezione, mi sono impegnato per capire qual è il mio lavoro, e a mo' di vocazione lo adempio. Non si deve cercare nell'arte nessuna gioia o altro, è mero lavoro.
Infatti, io mi alzo e comincio; faccio una pausa, poi ricomincio. Ho dei turni in cui suddivido nelle mie giornate le varie attività. Non potrei fare altro, è il mio ruolo; non merito complimenti o attenzioni differenti. E' merda come qualsiasi altro lavoro, ma siccome il mio pensiero è strutturato da questa realtà, per me è la cosa a cui non rinuncerei mai.


Ho pronti dei progetti per dei nuovi lavori, delle nuove performance, una mostra e sto tutto accuratamente traducendo in inglese e in francese per proporli all'estero. In questo momento non so neanche come potermi spostare, quindi guardo ai finanziamenti per mettere in forma concreta le mie cose; i finanziamenti in Italia non so dove cercarli.

21/02/14


All'ultima performance di Kriptoscopia ho portato per la prima volta del merchandising: catalogo cartacei e in dvd, magliette. Ho utilizzato delle immagini ricavate da foto trovate in via Pisa, Treviso, dove sta la sede di Dirtmor, cioè lo studio, sala prove, punto di incontro. E le immagini hanno coperto del materiale all'interno del quale non vi era nulla di Kriptoscopia: vecchi fumetti, vinili, buste piene di cartacce, cd illeggibili. Proponendo oggetti simili, offro il profilo più verosimile delle nostre performance: riutilizzare contenuti altri, per iscriverci sopra dei segni differenti.
Gli stessi adesivi di Kriptoscopia sono "fake" perché basta un po' d'acqua e l'inchiostro si scioglie e i colori si mescolano confondendo il disegno e la superficie su cui è attaccato. Nulla di più emblematico per testimoniare l'espressione della performance.

20/02/14


A proposito del mettere in scena una performance\evento.

E' inutile avere un approccio pedagogico perché l'arte non salverà la gente (data la crisi). Con un evento bisogna soltanto rendere accessibile l'arte.
Un programma che rifletta la storia locale (che si conosce).
Non lasciare il pubblico passivo.
Ogni volta mettere in scena l'evento definitivo, l'ultimo.

Un fatto deve relazionarsi con ciò che lo circonda per diventare evento. Ciò investe l'artista, scuotendolo, per via della crisi del "sistema arte". Crisi delle istituzioni, le quali cercano di coinvolgere ciò che avviene fuori da esse perché è più prolifico. Perché presenza reale e quindi interessante è accattivante.

Il presente come il passato, ma non rivolgersi direttamente al passato.

L'evento come centrale, come se ci fosse stato un prima e poi un dopo. Creato da istituzioni che siano di stampo messianico o presentino dogmi. Ad es.: la rivoluzione francese.

L'evento passato (a cui magari si fa riferimento, ci si ricollega) e l'evento vissuto (che invece si vive) sono come la Storia raccontata e quella vissuta in modo diretto. Come se fosse un nuovo inizio o un cambiamento: l'evento intriga.
L'evento genera un discorso.
Qualsiasi pratica artistica che ha a che fare con il racconto; quindi l'evento deve essere analizzato per la sua componente di finzione.
Che può costruire oppure decostruire.

Può essere che chi vuole inscenare l'evento, non ha ben chiaro le cause però si potrebbe vedere ciò non negativamente ma essere la proposta di infinite conseguenze.
Il contemporaneo è la convivenza di più tempi.

Cos'è che dobbiamo archiviare dell'evento? Foto, video... Oggigiorno, con il digitale, si ha un flusso di immagini tale che è come se non ci fosse più interruzione fra un evento e l'altro.

Costruire i contesti.
Capire e far capire da chi dipendere per e nell'evento.

Lasciare la sensazione di non afferrare completamente quanto accade nell'evento in cui si è inseriti.

Si attiva una promessa in azioni, del tipo: recarsi a un'ora e luogo prestabilito, comprare il biglietto...

17/02/14


La performance di ieri di KRIPTOSCOPIA è stata molto particolare, non avevamo mai lavorato in questo modo.
Alcune volte, c'è stato fatto notare che le performance di KRIPTOSCOPIA danno un senso di incompletezza, come se mancasse qualcosa o non raggiungessero una parvenza di compiutezza. Però, se ciò avviene non è per un qualche errore da parte nostra, significa che abbiamo portato a compimento la performance; perché la natura stessa di KRIPTOSCOPIA è l'indeterminatezza, la ricerca e il tentativo. KRIPTOSCOPIA deve trasmettere queste sensazioni quindi, non deve offrire uno spettacolo per il quale aspettarsi una reazione da parte del pubblico troppo entusiasta o di appagamento; semmai deve colpire perché lascia inappagati. Non deve essere riconosciuto, forse neanche suscitare un piacere nell'assistervi.
KRIPTOSCOPIA tenta di soddisfare delle necessità impossibili da soddisfare attualmente. La necessità è quella di proporre un panorama visivo e uno sonoro che si fondano per crearne un terzo, una realtà nuova che è quindi la fusione di più realtà. Noi crediamo in questa visione: la coesistenza di più realtà in un'unica realtà, che si vive in un'unica esperienza. Questo è anche il modo in cui pensiamo che sarà il mondo che verrà.
Non esiste ancora nulla, neanche a livello tecnologico, che possa soddisfare oggi questa necessità. Con l'arte si deve tentare di soddisfare le necessità, che intanto sono solo delle esigenze o dei sospetti su cosa si dovrà creare nel futuro e come sarà la percezione delle immagini e dei suoni nel futuro; forse come sarà pure il mondo. Noi creiamo questa coesistenza di più mondi con le performance. Ma non esiste ancora niente che lo possa fare effettivamente, non è ancora stata inventata una tecnologia che lo renda possibile; non esiste neanche un nome per quello che facciamo e il pubblico non è ancora capace di fruire delle nostre performance.
Non è ancora chiaro come poter far percepire tutto quello che facciamo nelle performance come un'unica cosa, né è stata inventata una macchina per farlo; il nostro dovere è proporre questo terzo panorama di fronte al pubblico, dove più realtà sono fuse assieme. Come artisti abbiamo allora il dovere di captare questa necessità di vivere in più universi e mettere in scena un accesso all'alternativa o un'uscita dal convenzionale. Siamo consapevoli dell'impossibilità di Kriptoscopia, se non fallissimo, sarebbero solo dei bei suoni e dei bei video.
Faccio un esempio: nell'Ottocento c'erano dei libri di fotografia che se sfogliati velocemente facendo scorrere le pagine con il pollice, le foto in sequenza e così in velocità sembravano scene in movimento; oppure c'erano delle manovelle con attaccate delle foto, si girava velocemente la manovella e le foto in sequenza sembravano scene in movimento. L'arte cercava di soddisfare una necessità nuova, che era la necessità (dopo la novità della fotografia) di vedere immagini in movimento. All'epoca forse neanche tanto se ne rendevano conto e mettevano in scena questi espedienti e macchinari fino a che ci fu la nascita del cinema. Quando penso ai miei progetti artistici vedo sempre l'esigenza di mostrare le porte per un altrove, il progetto KRIPTOSCOPIA non si scosta da ciò. E dopo il primo mese di performance, mi sono reso conto di essere in un qualche modo incompreso dal pubblico... cosa che mi fece riflettere su come porre delle modifiche. Infine queste riflessioni mi hanno fatto accorgere che se il pubblico rimane con un senso di aver visto qualcosa di criptico, avevamo centrato il segno. Lo stesso significato quando noi alla fine della performance non ci sentiamo del tutto soddisfatti.
KRIPTOSCOPIA deve insomma dare la sensazione di accompagnarti verso un altro mondo e poi basta, non te lo può mostrare, non è ancora in grado. Non ne esistono ancora le possibilità, sia di tecnologia che di consapevolezza. Ci si riesce da soli, con la meditazione.

14/02/14


Oggi è San Valentino, la festa degli innamorati. Quindi oggi io festeggerei. 

13/02/14


Ho passato l'intera giornata con il buon amico Davide, per dargli una mano in uno dei suoi ingaggi come film maker. Principalmente mi sono occupato della scansione di alcune foto, che poi ho sistemato con Photoshop. Mi fa piacere quando posso applicare le mie conoscenze ed esperienze; in effetti, è stato esattamente il lavoro che faccio quasi tutti i giorni, tutto il giorno, per le mie immagini... Siamo stati per l'intero lasso di tempo in una fabbrica, per la quale, appunto, bisogna preparare dei video promozionali e documentativi. E' stato inaspettato il sentirmi estraneo a quell'ambiente: ho sempre preferito definirmi prima di tutto un operaio che un artista, eppure non faccio più parte di quel mondo. Da tener presente che se trovassi un lavoro in fabbrica, farei l'operaio, vista la mia attuale necessità di entrate.
L'aria stessa, non mi era più familiare; nel reparto verniciatura sentivamo un'irritazione ai polmoni, l'abbiamo percepito, non si poteva evitare. Gli operai ne sono abituati, anch'io quand'ero in fabbrica sarò stato abituato a qualche tossicità.
Ci si abitua a tutto, la cotenna dell'uomo è forte, tutto passa; uno può restare in fabbrica tutta la vita, ce la potrebbe fare, seppure quell'ambiente consuma il corpo, ti smangia sia dentro che fuori. Mi prendo la libertà di dire una cosa simile perché l'ho scoperto in prima persona, non l'ho intuito guardando le facce.
Tutto si può tollerare, forse di intollerabile c'è solamente questo; tutto, dopo un po', va fuori fuoco. O meglio, ci si rassegna, perché so che molte cose che mi hanno fatto male, fino a credere che non sarei mai giunto a sopportarle, non le dimentico. Il problema è che l'uomo è effettivamente in grado di sopportare di tutto, e il non farcela, il sentirsi straziare o vincere da un sentimento, il patire, sono invenzioni, forse per condividere il modo in cui fanno tutti, sentirsi umani. Il comportamento umano, quindi, le reazioni umane, proprio quelle che consideriamo più vere come l'emotività, la passione, il vivere con ardore un sentimento e il dolore, sono costruzioni, convenzioni sociali. Il vero uomo non ha di questi impianti: sono imprinting; il vero uomo è disumano.
Può essere che oggi sia nichilista o solo severo con me stesso; di certo rifletto su queste due modalità: forse tutti siamo doppi. E' così facile, infatti, cadere in contraddizione. E' così facile, per questo, che non si possa reciprocamente fidarci fino in fondo. Oppure, sono solo io così e se mettessi in scena soltanto uno solo di questi modi, potrei cambiare qualcosa nella mia vita, come apparire affidabile o costante. Non mi meraviglio che questi pensieri mi vengano oggi che ho visto la fabbrica, perché mi ha fatto entrare in contatto con l'altro me stesso, quello che una volta era disciplinato, aveva un lavoro e un salario. Ed ugualmente, era allo stesso momento anche l'opposto. Mi viene in mente questo ragionamento proprio oggi, che pensavo che comunque io sia, finisco sempre per contraddirmi e rimanere da solo.

12/02/14


Gli aspetti che maggiormente non si possono sapere dei miei lavori sono il rigore e la forma che ho deciso di seguire per la realizzazione di ogni pezzo, equilibrati da una ricerca iniziale che avviene fondamentalmente con l'azione. Il mio laboratorio è equipaggiato di quasi tutti i supporti di cui potrei aver bisogno per poter subito costruire le mie idee, ma le idee mi vengono in mente e mi conquistano solo quando sono all'aperto, in città, nei prati, lungo i binari. Ciò di cui ho bisogno per iniziare è infatti osservare e raccogliere quel che trovo per strada e riconoscerlo come lo scampolo iniziale di una narrazione. Cerco nuovi esperimenti su tutto ciò che mi può attrarre o sbalordire o che non riesco bene a capire: so che diventano poi i miei lavori fotografici. Successivamente, seguo questi miei lavori per approfondirli e studiarli senza così mai sapere dove giungerò alla fine del viaggio: so solo che se faccio attenzione, un percorso lo troverò già ben segnato. Il fidarmi e affidarmi al tragitto anche senza sapere il perché sto compiendolo e a cosa servirà è la forma più ricca di fede.

11/02/14


Ho da poco terminato un lavoro per una rivista che viene pubblicata da un'organizzazione danese di artisti. E' un periodico realizzato raccogliendo progetti che sono prodotti seguendo un'unica tematica. La rivista si chiama "Banko" e l'ho conosciuta perché ne ho apprezzata la grafica, la libertà che godono gli artisti e la qualità dei lavori. La serie di fotografie che ho presentato mi piace molto e ha entusiasmato anche i danesi, quindi certamente la inseriranno nel prossimo numero.
La serie si chiama FIRST MANIFACTURES è proviene dalle pellicole usate in Armenia. Le composizioni, secondo me, sono eleganti e già comparivano per il catalogo che ho fatto nel 2012-'13 per la Moleskine. Qui, sono state tagliate e raccolte pensando appositamente al formato e ad uno stile preciso.
Sono rimasto in Armenia per un mese (febbraio 2012) come artista in residenza invitato da un ente di Yerevan, l'ACSL, e grazie allo sponsor di un ministero. Là, ho realizzato una serie di lavori esposti in una mostra prima del mio rientro in Italia, e ho scattato delle foto con vecchie macchine fotografiche e pellicole provenienti dal periodo sovietico, trovate in un mercatino delle pulci. Queste foto sono molto belle, rendono l'idea che cercavo: fare un'esperienza approfondita di quel luogo. Lasciare a casa la mia strumentazione professionale e utilizzare solo quella trovata sul posto significava ambientarmi, usare il filtro giusto, l'occhio giusto. Certi scatti, a volte, sono difficili da leggere per problemi tecnici degli obiettivi, oppure per le pellicole vecchie a tal punto che sulla loro superficie alcune sostanze si sono raggrumate.


10/02/14

Al giorno d'oggi, mai come prima, le immagini sono prodotte e diffuse. Ciò non dipende semplicemente da una qualche forma positiva oppure morbosa di curiosità o passatempo, specie perché sovente la produzione di immagini necessita un impiego non indifferente di energie e denaro. La verità dietro a questa ricerca è che le immagini non soddisfano più: si ha l'abitudine, prima fra tutti l'arte, a cercare l'immagine significativa da sola, però ora è insufficiente. Con i miei lavori fotografici ricorro infatti al gesto, all'interesse verso i materiali su cui compare l'immagine, la sequenza che si può accostare e una narrazione che non trova chiusura.

09/02/14


Brainstorming con la fotografa Lara Trevisan a proposito del progetto "Paperwalls".
"Negli ultimi decenni sono stati trovati nuovi canali come la video arte, la body, la net art, la mail art, il situazionismo. O nulla di organizzato a livello del sistema dell'arte oppure nel sistema dell'arte ha fatto solo episodiche o non costanti comparse. 
Ho comunque ridimensionato la cosa, dicendo negli ultimi anni, perché l'elenco precedente è di qualche decennio fa.
Potrà avvenire l'interazione fra il pubblico e l'immagine perché l'immagine è stimolante, ma in questo progetto si farà uso delle affissioni pubbliche e l'affissione potrebbe avvenire in un luogo non previsto. Cioè non si può prevedere dove comparirà l'immagine e quindi non si può pensare un'immagine appropriata al 100 % per il luogo. Questo m’interessa perché non è il mio scopo principale creare un dialogo diretto con il passante, ma creare immagini; non faccio arte interattiva. Una reazione da parte del pubblico o un dialogo con l'architettura potranno anche esserci perché certamente sceglieremo immagini che abbiano stimoli; ma non è questo l’obiettivo per me: non è arte pubblica o mera street art.
Specialmente in situazioni urbane, nel campo dell'arte pubblica ad esempio o in contesti da comunità come un paese o un quartiere come via Chiavornicco o come si chiama (del tuo lavoro sull'asfalto), i curatori hanno la tendenza a considerare l'arte come uno sprone sociale o con una funzione sociale, come un modo per scuotere la gente e attirarli a qualche cosa di diverso o qualcosa di culturale: ecco, è tutto quello che non m'interessa e da cui intendo discostarmi. Cioè, il mio scopo rimane il mio lavoro, la mia ricerca, e le mie immagini verranno proposte come se le proponessi per una galleria d'arte; se vengono esposte all'esterno non cambieranno forma o "funzione". Questo è uno dei corti circuiti che m’interessano.
Io credo in un rapporto "individuale" con l'opera d'arte, non sociale, ovvero una persona che si mette di fronte all'opera e che osservandola ne ricava un'esperienza.".

07/02/14


Resoconto delle mostre visitate dal 1979 fino all'ultima, la mostra finale degli atelier della Bevilacqua La Masa dove sono esposti i lavori conclusivi l'esperienza di un anno degli artisti ospitati nel 2013, un anno successivo a me e a Dirtmor. In quella mostra ci sono molte cose interessanti, molte cose molto interessanti; di certo, ci sono molte cose.
Sono dell'idea che sia diffuso che gli artisti si sentano spinti a proporre una documentazione di quanto hanno fatto per un dato periodo nei propri atelier. Forse non viene neanche richiesto dal curatore, ma gli artisti hanno l'abitudine di considerare spesso una mostra come il momento per mettere in scena tutto quello che hanno fatto e\o quello che hanno fatto nel proprio atelier. A volte, secondo me, non è la strada giusta. L'atelier è un posto per esprimersi liberamente e sperimentare tutto quello che viene in mente, se ne senta il bisogno per la propria ricerca o faccia divertire. Deve essere proprio un campo aperto, per sbizzarrirsi senza alcuna interferenza. Però, la galleria d'arte è altro: deve ospitare solo la sintesi di tutto il percorso, non l'intero viaggio. Potrebbe anche essere un solo oggetto, oppure anche più oggetti di quanti infine vengono messi in mostra. Anche alla mostra di due giorni fa alcune sale erano traboccanti di roba, manufatti che avevano la funzione di documentare.
La documentazione, a mio avviso, deve restare nell'atelier, in galleria non bisogna proporre il riassunto altrimenti si sta facendo cronaca; bisogna proporre una sintesi. (Discorsi a grandi linee: ovviamente ci sono artisti che basano la loro ricerca intera proprio sulla documentazione.) E' indubbio che gli artisti si saranno divertiti a improvvisare e giocare con la loro creatività, però la mostra a volte appare come specificatamente una documentazione e non il\un risultato di una esperienza. Il quale potrebbe essere un solo oggetto, che magari non fa neanche ricordare le esperienze attraversate nello studio ma che ha valenza perché ne è il prodotto in un modo o in un altro. 
Ripeto, è come se venisse esposto l'intero viaggio e non una meta raggiunta. Ed è una condizione, quella da me notata, presente anche in altri artisti (non solo di quella specifica collettiva): trasferire lo studio nella galleria. Si trova qualcosa su cui mettere a fuoco e lo si mette al centro della proprio creatività, in diverse forme e tecniche, e poi si trasporta il tutto in galleria. Ma se una persona vuole vedere lo studio, viene nello studio: la galleria ha un altro scopo. La galleria (secondo me, ripeto) deve mostrare quello di cui l'artista si sente sicuro, verso cui non ha dubbi; che sia esaustivo, insomma: un lavoro che possa stare da solo, indipendente anche dall'intero percorso o dall'intenzione di partenza. Uno può partire cercando delle cose che poi nel lavoro presentato al termine manco si potrebbero palesare, ma saranno state utili per giungere a quella fine (definitiva o temporanea). In conclusione: tra lo studio e la galleria ci deve essere uno scalino da compiere, difficile e che mette in crisi ma che dà forza. Altrimenti facendo documentazione si corre il rischio di proporre qualcosa di riconoscibile: si compie un certo tipo di viaggio e lo si mette in scena, quasi in modo diretto o semi-indiretto oppure dei souvenir: un catalogo. Ecco, questo è un termine che potrebbe essere giusto e a me personalmente non piace. Anzi, riconosco che i lavori in una mostra, che mi hanno indotto questa riflessione, sono anche accattivanti, però personalmente ricerco altro. Non m'interessa la documentazione: l'artista deve sorprendere. Oppure, semplicemente, non riesco a percepire il lavoro quando c'è una grossa concentrazione di oggetti. Infatti, devo di solito tornare una seconda volta, con calma.
Un mio problema, tra l'altro, è che non riesco a soffermarmi troppo a leggere le opere, specie quando c'è tanta gente, e a leggere le spiegazioni. Questo dipende anche dal fatto che ci si aspetta dall'artista che proponga un lavoro con un concetto dietro, il quale dev'essere espresso con una spiegazione dettagliata. Un pistolotto. Non sempre, non a tutti, ma spesso lo si richiede, ad un artista. Per questo, l'esperienza a Zurigo mi è stata illuminante. Ho avuto l'impressione che là gli artisti si preoccupino innanzitutto di seguire la loro ricerca prima di essere compresi e i lavori proposti sono comunque approfonditi e curati. Mi è sembrato che gli artisti si interessassero a trovare il modo per realizzare qualcosa di nuovo (non sempre riuscendoci) al fine di stupire.
Le mostre che si vedono qua sono diverse, insomma. L'artista, a volte, si sente in dovere di spiegarti per filo e per segno cosa stai guardando alla sua mostra. E, spesso, questo limita le differenti interpretazioni che i fruitori dell'opera possono avere. Vedi, ad esempio, l'esperienza di sabato all'esposizione nello spazio espositivo di via Bertossi a Pordenone. All'inaugurazione della mostra ho sentito le spiegazioni di vari lavori e nel preciso si spingevano pure i fogli informativi; questo ha ridimensionato il mio punto di vista e la mostra non mi è piaciuta infine. Il lavoro che mi ha colpito è quello di Laura Pozzar, che mi ha lasciato comunque un senso di mistero seppure ho ricevuto da lei, dato che la conosco, qualche delucidazione.
Spesso, l'effetto finale è che per raggiungere una documentazione o un dispiegamento della materializzazione di un'idea in modo da rendere percepibile un concetto, si rischia di trascurare la parte estetica che è quella, secondo me, che dovrebbe essere considerata per prima. Nella mostra di Venezia, della Bevilacqua, il lavoro che mi è piaciuto di più è stato sicuramente quello che più mi ha colpito esteticamente: quello di Amedeo o quello di Rachele.
Io sono contro i pistolotti, insomma.


Il lavoro sui suoni trovati nell'ospedale abbandonato sta dando frutti sempre più interessanti. Mi sono incontrato con Michele e con Lenny perché voglio usare quei file per la prossima performance Kriptoscopia a Spaziozero di Oderzo. A loro sono piaciuti; sono abbastanza in linea con l'immaginario che vorremmo creare, e infatti ci hanno stimolato a visualizzare sempre più dettagliatamente come avverrà l'intera scena: l'azione del disegno in diretta di Lenny sostituirà sempre più la parte della proiezione video, quindi al posto di file video preparati appositamente ci saranno i suoi interventi in diretta e in grande formato; la scenografia investirà l'intera stanza e sarà finalizzata a rafforzare la coreografia di Sissy e mia; i suoni hanno suggerito le musiche che Michele creerà. Trasformerà (attraverso la sua esperienza e i software professionali) il set musicale che gli ho preparato in qualcosa di più raffinato (meno grossolano del mio); purtroppo non vuole condividere con me la scena e quindi starà da solo all'improvvisazione sonora. Ma acconsento a questa esclusione, anche se con un po' di dispiacere, perché ho decisamente poco background in materia; tuttavia sono bravo a scoprire questi residui dal passato: ho altri nastri sonori, per i quali c'è bisogno di un mangianastri anni '60 che forse ha Sissy. La prossima volta che incontrerò Stefano, gli porterò questi nastri così che ne ricavi qualcosa, e a Michele delle foto trovate nell'ospedale, per il progetto di realizzare con tutto quel materiale (che ha uno strano filo conduttore) un disco d'artista. Vorrei creare dei personaggi che vivano delle storie nell'ospedale.

04/02/14


Sono stato invitato al prossimo festival di poesia "Notturni di_versi", perché ci sarà una riunione di tutti i poeti che hanno letto durante le edizioni passate per festeggiarne il decimo compleanno. Allora si sono informati se scrivo ancora, per così leggere qualcosa di nuovo. Ho adoperato i miei anni in meditazioni e prove poetiche alla ricerca di sintesi, anche solo di un'unica parola o un unico gesto che fosse sufficiente a far comparire di fronte a tutti la verità. Poi ho capito che proprio il mio scegliere la poesia come mezzo di comunicazione è un modo per evitare di raggiungere questo obiettivo, perché l'obiettivo è irraggiungibile e la poesia è un mezzo di comunicazione effimero. La poesia al massimo fa presentire.

03/02/14


A partire dalla rivoluzione industriale e in modo ancor più evidente ai giorni nostri, le immagini diventano degli oggetti e dei segni che si possono riprodurre in modo identico all'infinito. Non esiste neppure più l'esigenza di copiare o di contraffare un'immagine, perché essa viene offerta assieme alla possibilità di replicarla in serie.
Non esiste più un'immagine originale e la sua contraffazione ma la possibilità di avere innumerevoli immagini identiche, equivalenti all'originale e per questo motivo senza alcuna capacità di proporre delle differenze. In scala, le immagini si fanno simulacri uguali le une alle altre come, infine, le persone che ne fruiscono. 
Ciascuna immagine viene riprodotta dal fruitore per mezzo di un file, il quale, quindi, mostra ogni volta l'immagine originale: ogni immagine che ci appare e ci scambiamo attraverso i supporti digitali, è quella originale facendo così paradossalmente perdere la caratteristica basilare dell'immagine di essere unica ed eventualmente matrice di copie. L'unicità di un'immagine è quindi a questo punto dovuta esclusivamente dalla differenza strutturale del singolo supporto. La stessa economia e la sua commercializzazione è mirata alla diffusione e alla capacità di diffondere questa riproducibilità senza soluzione e contro la natura stessa dell'immagine caratterizzata da una nascita unica, originale e irripetibile; si trasforma in un modello per cui è indifferente la matrice.

La definizione stessa del reale è: ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente.

02/02/14


E' perché mi capita di scorgerne il brutto, che ho la conferma che l'arte è il mio campo d'azione e di permanenza. In molti aspetti della vita e in molte altre materie di cui si può entrare in contatto, non riesco ad avere una critica impulsiva; la devo ragionare, studiare. Oppure, semplicemente non riesco a capirla: sbaglio, vado a casaccio. Anche in un qualche altro campo artistico, che non sia il visivo, non sono in grado di raggiungere una competenza sebbene mi ci applico o me ne interesso. E se devo darne un giudizio, non so da che parte stare: se considerarlo valente oppure no; innovativo o banale. Lo stesso, negli aspetti della vita quotidiana: i rapporti con me, con gli altri, la disciplina... semplicemente non riesco a mettere a fuoco ciò che è buono e ciò che non lo è. Mentre con l'arte non devo sforzarmi a pensare o studiarne un giudizio, ne colgo di impulso cosa è intonato e cosa stonato. E questo è indipendente da molte strutture che ho eretto nel corso degli anni: incomprensioni o approfondimenti. So che l'arte è la mia terra perché ne riesco a vedere ciò che è volgare.
In altri aspetti della vita, allora, posso molto più facilmente sbagliare in quanto mi manca questa capacità di discernimento.
Non si tratta di un risultato acquisito, è una condizione. Non sempre apprezzabile perché mi fa vivere l'arte, a volte, senza leggerezza o ingenuità. Non posso tirarmi fuori dall'arte, ma non posso neppure goderne appieno. L'arte, infatti, non mi fa felice.
Un secondo motivo, ugualmente legato al primo, per cui l'arte non mi procura felicità è la consapevolezza di non raggiungere mai l'obiettivo. Ogni volta che realizzo un lavoro, ad esempio delle nuove immagini, mi impegno in modo da ottenere un'idea che mi pongo di fronte, una meta. Quando poi ho concluso il lavoro, ad esempio ho davanti a me l'intera serie delle composizioni costruite, mi accorgo che manca qualcosa o che ho mancato il bersaglio: non ho in realtà toccato quella meta; come se avessi sbagliato strada. Non che i lavori eseguiti non siano soddisfacenti, ma sono semplicemente dei tentativi mancati: la meta è ancora laggiù, in un orizzonte costantemente distante. Di tutto questo ne sono certo perché appena ultimato un lavoro, inizio a darmi da fare su nuovi progetti: quando giungerò alla meta, alla fine del percorso, di sicuro mi fermerò. Anzi, è proprio nel produrre, che scopro qualche nuova via, qualche nuova alternativa (ad esempio nel comporre le immagini o nel modo in cui considerarle). Forse è frustrante, so solo che non mi permette di mollare la presa.
Pertanto, ogni qualvolta che faccio una mostra, sto esponendo degli errori. Dei tentativi mancati, che mi sono tornati utili solo per capire che non sono la meta: non mi interessano per nient'altro. Il collezionista compra quindi dei meri "buchi nell'acqua".
Di conseguenza, un altro motivo per non sentirmi felice è che alle mostre, esponendo degli "errori di percorso", mi sento in imbarazzo. Non perché non siano validi o non dovrebbero essere esposti, ma perché (solo) io so che non sono ancora la meta prefissata. Quindi, è come se mostrassi a chi viene a vedere l'esposizione dei miei punti deboli, la parte mia più indifesa. Ecco il perché, pure, del pretendere di essere trattato bene, almeno dai curatori delle mostre: per la delicatezza dell'operazione. A volte, purtroppo, dalla persona con la quale mi rapporto per fare una mostra ricevo durezza, superficialità o incomprensione e me ne dispiaccio, perché è come se gli affidassi qualcosa di particolarmente intimo: una confessione, un autodafé. Ripeto, ne sono consapevole: è il mio modo di lavorare ed esporre i miei pezzi. Tuttavia, già da un po' di tempo, preferisco non esporre più con facilità. 
Questo è la mia maniera di vivere e di vivere l'arte, quindi sono contento di averlo capita.