Nel capitolo precedente, abbiamo evidenziato alcuni caratteri predominanti della società in cui viviamo. In modo sintetico perché tutti conosciamo la “società dell’apparenza” e ne facciamo parte, anche se ne ignorassimo la sua costruzione. Lo stesso critico che la voglia spiegare in modo più approfondito dovrà usare le sue stesse leggi (che invece vorrebbe biasimare) per poter ricevere attenzione da parte del pubblico e far circolare (e commercializzare) le proprie idee.
Il Regno di Dio non segue queste regole e dobbiamo tenerne conto come parametro effettivo e concreto per riconoscerlo e per come esserne dei suoi veri abitanti. E non farne solo oggetto di discorsi moraleggianti che non hanno utilità. Il Regno di Dio non è un altro luogo, ma un altro modo di essere coscienti della vita, della realtà.
Ci si accorgerà di essere abitanti del Regno quando non si cercherà di essere in un modo piuttosto che in un altro. Il giudizio, quindi, sarà assente anche verso di sé, non solo verso l’esterno. Potrà capitare di sconfortarsi o rimanere delusi nel vedersi diversi rispetto ai propri desideri, ma sarà per un attimo, un momento passeggero: non dimentichi, infatti, di essere sempre degli uomini con delle caratteristiche che potrebbero sembrare inadeguate o limitanti. Rendersi conto di ciò e accettarlo non è uno svantaggio maggiore di vivere, invece, nella lusinga di poter fare e ottenere qualsiasi cosa che passi per la mente.
Quanto personalmente non si riesce a fare o ottenere, allora, è solamente un elemento caratterizzante della persona che siamo. Agli inizi, si potrebbe anche sforzare l’immaginazione e ripetersi che non siamo noi ad avere dei limiti, ma la persona (il corpo, la mente, la sensibilità) che rivestiamo nell’attuale esperienza materiale. Più in profondità, l’assioma prende la forma di un considerare che solo attraverso quello che si è, anche con limiti e problematiche che altrimenti si giudicherebbero fastidiosi, si è nella condizione di accedere all’esperienza in questa vita tagliata apposta per noi. Quindi, è permettendo senza contenimento quello che si è, ospitando nella propria esistenza le difficoltà che in modo temporaneo o conclamato mi capitano, che mi succederanno i vari capitoli necessari da vivere per esaudire, realizzare, far sbocciare il me stesso, il vero me per cui sono su questa terra. E questo non è detto che debba per forza essere qualcosa di alto, eclatante, sorprendente o a me comprensibile: il compito di ogni essere in vita è di far fluire la vita attraverso la propria.
Si scoprirà meglio nel corso della lettura cosa si intende con questo lasciar passare la vita attraverso di noi. Per ora, come passaggio indispensabile, si deve cogliere com’è l’esistenza nel Regno.
Passo importante è l’accorgersi, di conseguenza, che i problemi non sono veri problemi, se non nella durata e gravità necessaria per noi in quel momento in cui stiamo affrontandoli. Un’esperienza, pertanto, utile da attraversare non per l’importanza della sofferenza, ma per quello che saremo a seguito di quella sofferenza. Nuovamente, si ribadisce quanto centrale è il tener sempre presente che anche una vicenda dolorosa deve essere lasciata andare.
Questo non vuol dire che ci verranno risparmiati eventi drammatici, dolorosi, spiacevoli, ma non verranno affrontati come schiaccianti. Anche un problema, proprio come un evento positivo o uno che ci lascia indifferenti, avviene per me: nulla di realmente sbagliato potrà mai accadere. L’abitante del Regno lo sa, ovviamente desidera che qualsiasi brutto episodio si mantenga lontano, ma se dovesse capitare, egli è conscio che è comunque avvenuto per lui (a favore della vita), mai contro. Al di là di quanto potrebbe giudicare, intuisce che è una proposta per lui da parte di qualcosa di più grande.
Sappiamo che tali argomenti sono già stati descritti in maniera approfondita nel precedente libro, eppure siamo certi che, seppure possono essere colti dalla mente, possono non arrivare a condizionare la nostra quotidianità. Obiettivo che ci prefiggiamo, visto che qui trattiamo di una pratica concreta.
Più precisamente, al di là della comprensione dei concetti, qualcuno potrebbe non notare un alleggerimento dalle preoccupazioni. Addirittura un conservare un senso sottile di sofferenza, pari a un sottofondo, come se fungesse da cautela o difesa verso l’incognita di quanto potrebbe capitare nella vita. Sofferenza che, pertanto, si percepisce anche nei momenti di rilassatezza o di piacere.
Questo è causato proprio dal considerare tutto ciò, per prima cosa, come dei concetti da capire. Quindi tramite la mente, la quale ha come parametro inconciliabile con il Regno il suo non essere infinita. L’abitante del Regno intuisce che quanto vive, che la vita stessa che anima è preparatagli da qualcosa di infinitamente più grande di lui: come potrebbe la mente darne una giusta interpretazione?
Qui non si vuole sminuire la mente o denigrare la razionalità, ogni cosa deve avere la giusta misura e, così, mansione. La mente è uno strumento meraviglioso, non possiamo smettere di celebrarla perché è grazie a essa che siamo giunti fino a qui. Ma la mente ci è utile proprio nella sua funzione di sondare e interpretare nel mondo concreto e finito in cui siamo. Essa è infatti una dotazione del nostro corpo, non dobbiamo confonderla con la coscienza.
Allora, sarebbe un uso scorretto del proprio corpo il voler afferrare un oggetto guardandolo, o guardarlo tenendo gli occhi chiusi. Così, non si può captare con la mente qualcosa di infinito come Dio o come la nostra vita che presenta un imprevedibile susseguirsi di eventi positivi, negativi e inspiegabili.
Allo stesso modo, con gli strumenti che ci permettono di captare la Verità, non si può argomentare quanto non è infinito. La sofferenza e la paura che genera la sofferenza, difatti, hanno un peso solo all’interno della mente, per mezzo dei pensieri perché sofferenza e paura sono elementi finiti. Esistono solo nella sfera mentale e in tutto ciò che ruota attorno a quei pensieri. Tuttavia, esiste un’altra area che è infinita e nella quale, conseguentemente, i pensieri non possono accedere.
Così, cercare di capire (e quindi giudicare) quanto ci capita nella vita si rivela un mero rimpastare pensieri mossi da una paura di soffrire. L’arrendersi a qualcosa di infinitamente più grande di noi, significa allora un arrendersi a questa impossibilità di comprendere con la mente. Ovvero, accedere a quell’area che è oltre la mente, infinita, nella quale non c’è più bisogno di capire ogni cosa perché tutto è la Verità, tutto è già la risposta. Liberi, pertanto, non solo dai problemi, ma anche dal dover capire a tutti i costi.
Nella modalità di vita che raccontiamo, che per comodità nel cogliere il collegamento con quanto troviamo nel Vangelo abbiamo chiamato “Regno di Dio”, l’uomo sarà sempre più libero dal volere (che spesso è avvertito anche come dovere) capire ogni cosa. Ciò sottende proprio che quello che una persona vive non è forse indirizzato a lui come “persona” ma a qualcosa di più profondo. Così, a livello personale, si può rimanere influenzati da un evento spiacevole (possiamo addirittura portare l’esempio di un incidente che compromette l’individuo fisicamente) ma quell’evento non verrebbe proposto per lui, ma a qualcosa che gli è più profondo.
Come un’opera d’arte che in una mostra ci attira senza che ci rendiamo conto del perché, e forse accade non perché sta comunicando con noi ma con qualcosa che possa essere raggiungibile attraverso di noi. La nostra essenza, invece che la nostra mente; e, per riflesso, all’infinito che noi siamo al di là del corpo finito.
Se quanto esterno a noi si connette alla nostra parte più “profonda” e infinita è perché anch’esso è infinito. Il visitatore di un museo, infatti, che è addirittura pronto a mettersi in fila per visitare la sala con un’opera d’arte, ne è da essa particolarmente attratto per via di tale connessione. L’infinito si riflette nell’infinito, e allora si svela con maggior intensità quanto tutto è un’unica cosa. In altre parole, noi siamo lo specchio di quanto viviamo, in ciò in cui incappiamo e finanche nell’opera d’arte che visitiamo.
Da queste constatazioni, inoltre, ci verrà spontaneo accorgerci, nel corso dei prossimi capitoli, che l’essere umano concorre alla vita intera come qualsiasi altro ente presente nella creazione. Non gode di alcuna posizione privilegiata, se non in misura della personale ricezione della conoscenza e quindi modalità di predisposizione alla Vita, all’Uno. L’uomo ne trae maggior vantaggio, o, se vogliamo esseri corretti, maggior vita, nello sfruttarne le regole a seguito della loro comprensione, ma solo in misura immediata e limitata; egli si realizza appieno non appena smette di occuparsene e si arrende. Tanto che si potrebbe filosofare che egli ottiene beneficio dalla vita quando smette di occuparsene e semplicemente vive. Egli, infatti, non è il primo beneficiario ma lo è proprio quel qualcosa di immensamente più grande di lui che può, attraverso di lui, manifestarsi e rivelarsi.