30/11/22

MOLTI NEMICI MOLTO AMORE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 16

Qui di seguito il sedicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


MOLTI NEMICI MOLTO AMORE




L’essere umano si arrende alla società e la realizza inseguendo la promessa che così facendo potrà realizzare anche se stesso. Però, non sarà possibile perché la società stessa non faciliterà la libertà a ciò necessaria. Questo non è un errore nel sistema: la società si basa proprio su un incessante insistere su paradigmi identici. Ovvero, nel caso del singolo individuo, un insistere nel tentativo di soddisfare personali obiettivi e desideri, che sono i medesimi per chiunque altro. Nel suo fallimento personale, egli, inconsapevolmente, investirà le proprie forze, tempo e finanze nell’ingrandimento della società.
Mentre, se egli si arrende al Padre, andrà ad accogliere quanto la vita gli propone e che potrebbe essere in disaccordo con la prevedibilità della società e i programmi che essa ha per lui. Così facendo, però, egli incapperà in una serie di esperienze che gli faranno scoprire chi è lui veramente. E seppure questo dovesse avvenire senza che se ne renderà conto, la sua vita sarà un fornire occasioni di miglioramento per sé e per gli altri. Un beneficio perché per vivere così dovrà votarsi all’amore e, per riflesso, mostrare agli altri la via dell’amore. La quale, in conclusione, permetterà di vincere su tutto, anche sulla propria “croce”. Malgrado la società sia incline a disincentivare tali attitudini.
Vincere, infatti, non è una questione di coraggio, quello che si potrebbe supporre essere necessario per affrontare la propria “croce”. Semmai, ha a che fare con il consentire all’amore qualsiasi trasformazione, anche concreta, nella vita. E prova ne è che senza tale opportunità si può vivere un’intera vita ripetendo sempre la medesima esperienza. Se nella società si può venire giudicati quando si esce dalla prevedibilità, significa che in verità non si è liberi di fare come si desidera, come si ama. E allora ci si induce a limitarsi, incolpando se stessi per i traguardi mancati e giustificando la società che rimane là, apparentemente oggettiva e fornitrice delle condizioni per raggiungere con sicurezza tali traguardi.
Come fare se non attraverso speranze che non saranno mai appagate e doveri a cui sottostare (pena il giudizio), per convincere l’essere umano a una vita immiserita di amore? L’individuo teme che andrà in contro alla propria “fine” se non lavorasse così tanto, non appartenesse a gruppi ben precisi e non lasciasse il governo ad altri soltanto perché viene convinto che attraverso la fede, e quindi l’amore, non otterrà nulla. Ma come può esserne certo se non ha mai provato diversamente?
La gratitudine e l’amore nei confronti di un evento nella propria vita, faranno evolvere quell’evento in qualcos’altro. Che sarà, imprevedibilmente, quanto è destinato a essere. Esito che, come abbiamo già individuato, potrà essere fondamentale, indifferente, impossibile da valutare oppure rivelerà la sua importanza e utilità ad altri. Tale dinamica, stiamo tornando a sottolineare da un punto di vista più profondo, avviene non solo per gli eventi che personalmente si possono giudicare positivi, ma anche per i dettagli del quotidiano ai quali si incappa senza quasi accorgersene. Inoltre, tutto vale anche per quanto si può considerare come la propria “croce”, cioè qualcosa che è illogico mettersi ad amare.
Proprio come il non accettare che si possa far sbocciare un fiore al solo pensiero, così non avverrà il ben che minimo cambiamento senza accettarne la sua possibilità. E qui si sta insistendo sul far coincidere il sentimento di accettazione e accoglienza con un vero e proprio indistinto amore. Questo è l’atteggiamento di Gesù nei confronti della morte. Il risultato che ottenne fu, di conseguenza, il vincerla; che, ripetiamo, non è un “uccidere” così la morte, ma vivere con essa con amore. Che significa senza condizioni, proprio come caratterizziamo l’amore divino. Egli, infatti, giostrerà dal suo decesso in poi un rapporto di corrispondenza e coniugazione con la morte.
Dalla Passione e dall’allegoria della croce si ottiene, pertanto, la prova che sia possibile. Ovvero, che tale trasformazione della “croce” personale in un lasciapassare per una successiva esperienza è attuabile per l’essere umano. Anzi, scopriamo che la formula della “croce”, cioè l’amare la sofferenza personale al posto dell’odiarla, è concepita perfettamente per l’uomo, per come è fatto. Se così non fosse, Gesù non ci sarebbe riuscito, sarebbe morto invano, fallendo.
Per le persone è possibile con questa procedura giungere al Regno di Dio perché lo permetterebbe la loro stessa natura. Non è vero che bisogna attendere la propria morte perché il Regno di Dio non è il “regno della morte”, esso è possibile qui e ora. Se si accetta la propria “croce” e la si ama, allora qualsiasi “croce” capitasse sarà superabile. Finanche la morte, così che sia finalmente chiaro che una volta accettata la propria “croce” andranno a perdere di valore concetti che delimitano confini tra vita e non vita, morte e non morte, sofferenza e non sofferenza. Una condizione prossima nella quale nulla è impossibile ma anche che preclude la possibilità di aggrapparsi ad alcuna idea di limite. Da qui, una conseguenza importante sarà che verranno a mancare i sentimenti, prettamente terreni, che spingono a rincorrere desideri mondani. Poiché appunto, per definizione, sono caratterizzati da finitezza e transitorietà. Chi vince la propria “croce” non potrà più rimanere sedotto da brame egoistiche, anche se queste potrebbero essere state le spinte iniziali per la ricerca interiore.
È sufficiente l’approssimarsi a Dio per rendere qualsiasi coscienza alleggerita da inutili egoismi e, pertanto, da mire materiali. Malgrado ciò, non sarà impedito il raggiungimento di una vita ricca anche materialmente; perché questa non avverrebbe come esito a un proprio intento, ma come mero effetto collaterale dell’accesso alle infinite risorse della vera realtà.
Per questo non ha importanza che un fedele debba essere in un modo piuttosto che in un altro. Che debba pertanto aderire a un profilo e un’immagine precisi di fronte a Dio e alla comunità religiosa. Perché quella è solo la superficie (la “tenda”, cita per similitudine San Pietro), l’importante è l’esito del viaggio. Le condizioni che si vivono sono solo l’espediente che la vita ci fornisce per arrivare ad accettare la propria croce e così raggiungere la grazia. Non ha importanza se per ottenerla si debba nascere con devianze oppure vivere con abitudini che la comunità giudicherebbe peccaminose, perché tutti questi aspetti capitano al solo scopo di essere “croci” da amare. Quando poi si sarà in grado di farlo e si vivrà la trasformazione come testimoniato dalla croce di Gesù, allora tutte le devianze, limitazioni e peccati si scioglieranno automaticamente come neve al sole al semplice approssimarsi al Divino.
Ovviamente, questo non sta a celare una libertà incondizionata nella propria vita. La formula, infatti, rimane sempre quella del vivere con gli altri e rapportarsi alle altre persone come vicarie di Dio.
In un contesto religioso, si osserva che è allora un errore il considerare come una punizione la “croce” che ci viene proposta nella vita. Ma anche è errato il considerare una forma di perdono divino quando il fedele sente che accetta la propria “croce”. Vale a dire che se si considera il proprio vissuto come una condanna, ci si obbliga a vivere con un senso di colpa. Invece che intenzionati a ottenere la libertà, ci si ritroverebbe ad auspicarsi la sofferenza perché vista come veicolo divino. Non si sa verso cosa debba portare, come se il fine fosse solo soffrire e lo si vive come una pena a qualche infrazione commessa in un passato; non si conosce il motivo della condanna e questo comporta un tendere a vivere inclini alla sottomissione.
Anche un non credente può vivere così, perché ci si convince di non essere all’altezza per il motivo che non si ottiene quello che si vuole. Vivere da condannati, da puniti, è così accettato che pure quando il fedele arriva a non dare più peso alla propria sofferenza, oppure quando essa cessa (ad esempio, la risoluzione di una qualche insufficienza), egli si considera “perdonato”, “graziato”, ecc. Nel suo caso da Dio, tuttavia non sarà un atteggiamento bastante per progredire poi oltre, alla grazia. Perché se ci si crede perdonati, vuol dire ancora pensarsi come una persona che ha commesso una qualche infrazione. Oppure, se non si è credenti, si giudica che si è ottenuto quanto si desiderava perché finalmente ce lo meritiamo o è capitato un colpo di fortuna. Quindi non qualcuno che ha vinto tutto ciò, ha oltrepassato questi sentimenti, ma ne è ancora attaccato: avere fede di avere soltanto questa coscienza terrena, basata su premi e ricompense, pene a assoluzioni senza possibilità di mutamento.



28/11/22

AUTOSCIAMANO (SELF-SHAMAN)

The video shows the performance that helped the artist Enzo Comin to disclose the “self-shaman”, the artistic interpretation of his message. This was possibile thanks the artist Manuel De Marco’s guide that, through his poetical and physical approach to investigate the reality, he is able to suggest the meaning of a necessary connection with (absent and present) dimensions. The self-shaman, indeed, is those who doesn't identify oneself in something, neither defined nor favourite, not even in oneself, so much so as is in a concrete form through the complementarity only. Therefore, on the video two actors shape a physical part and a no-physical one; the absolute, indefinite essence and the attributions assigned by other people; the double which in reality is unity and totality… The scene is designed as a single one entity and a single one event.

As it is told by Enzo Comin in his book VANGELO PRATICO (“a Practical Gospel” published by Anima Edizioni): creativity has just directly linked with the capability to create, that, regardless a concrete production of objects (i.e. in the case of a visual artist), allows to experiment a reality beyond differences, divisions, definitions and preferences. It's by going beyond this point that the creative man becomes full of creative power, with no limits and who can't rejecting anything. Unity and totality: everybody in this way is able to see to be (also) everything he/she desires to be; it already is, he/she hasn’t do anything to get it if recognizes oneself the author and not an instrument. Thus, everyone is responsible for each thing done in the own life by reading a meaning in everything, even in what before looked chaotic. The union condition leads, as a consequence, to a physical and mental wellness, because man creates the problems in the own life and the solutions as well, can’t point fingers or looking for helps elsewhere: so, it wouldn't need to look for a shaman or a healer… because one already is it.

The self-shaman, thus, is those who feels oneself as integral part of the harmony that is the base of an universal order, like if the whole universe takes part in the same sole event. The self-shaman, because of being aware of this event, is inevitably in it and an active part – and this is enjoyed by everyone and everything are in contact with him/her. 




23/11/22

LA PROPRIA CROCE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 15

Qui di seguito il quindicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


LA PROPRIA CROCE


In questo nuovo viaggio nella pratica del Vangelo, si giunge a un punto superato il quale gli argomenti trattati nel precedente capitolo si potranno notare senza macchinosità. Spontaneamente, come se fosse possibile per ogni evento che si vive leggerne la matrice intima.
Consideriamo un esempio così da ritrovare tali intuizioni nella quotidianità. Io sono molto magro, o meglio: è così che appaio formalmente in questa realtà. Conosco anche il motivo di ciò: odio la mia magrezza. Di questo odio, se ne spiega l’origine nel mio essere convinto che la magrezza sia un ostacolo a un rapportarmi serenamente con gli altri. Quindi, proprio nel momento in cui dovrei esprimere invece me stesso in un modo compiuto, convincente. E finché, per questo motivo, io odierò la mia magrezza, essa rimarrà presente in me. Il suo mantenersi è così conseguente al mio viverla come un problema grave, diciamo pure irrisolvibile. Tuttavia, essa persiste anche per creare le condizioni adatte a causa delle quali io smetta di rimanerne attaccato. Ovvero, non odiarla più: arrivare a cessare di crederla permanente.
Se uno arrivasse ad amare quanto si è convinto di non poter amare nella propria vita o nel proprio modo di essere, ciò svanirebbe miracolosamente. Proprio come il fiore che sboccia al solo pensiero, del capitolo precedente.
Seppure ciò che non si ama veniva vissuto prima esclusivamente come un problema, quando viene visto come opportunità per risolvere lo stesso problema, la sua gravità cesserebbe. Nell’esempio personale: la soluzione apparirebbe non appena accettassi il mio essere così magro. Cioè che la magrezza non era il problema, ma la modalità per portarmi ad accettarla; quando si smette di vederne il problema non per indifferenza o rassegnazione, ma per un cambiamento di sentimento. Da odio in amore.
Il sospetto di illogicità nella dinamica presentata sta nell’ottenere una risoluzione attraverso un sentimento di amore rivolto a qualcosa che non si può apparentemente amare. In altre parole, giungere ad amare ciò che non si vuole amare, perché fonte del problema. Amare qualcosa di detestabile, creatore di disagio: il nemico presente nella propria vita. Il quale, invece, si interpreta che sia necessario contrastare affinché ogni cosa della propria esistenza che non fila liscio, iniziasse a fluire serenamente. Tuttavia, perché questa eliminazione sia possibile, il sentimento da rivolgergli è opposto: l’accoglierlo. Fino a che ci si fa la guerra, se ne permette paradossalmente la resistenza.
Amare ciò che nella propria vita è palesemente impossibile da amare per il disagio che comporta, ovvero per la sua carica di sofferenza, è un elemento decisivo per il nostro viaggio. È quanto viene rappresentato nel Vangelo come la “croce”. Ed è a questo simbolo che i cristiani, infatti, recano significati basilari. Essi ne parlano come il peso di cui caricarsi, proprio a imitazione di Cristo nel momento della Passione.
Ognuno ha, allora, una personale “croce”. E scopriamo che non deve essere semplicemente tollerata, ma amata. Ed è attraverso quest’azione che parte una vera trasformazione nel fedele. Amando ciò che chiaramente è per lui odiabile, procederà verso il Regno di Dio. Il quale, come traiamo dalle Lettere degli Apostoli proprio per confortare i nuovi fedeli, non viene limitato a una mera ricompensa successiva alla morte.
Infatti, si riscontra anche in questo passaggio fondamentale l’avvertimento di non cedere alla tentazione di credere che la propria croce sia solo una sorta di prova per garantirsi il posto in Paradiso: come abbiamo ormai bene imparato, non c’è in realtà alcuna gara. La sofferenza è l’opportunità nella vita per poter evolvere al Regno, e questo può essere non appena si è pronti. La sofferenza non è fornita semplicemente per morire.
Invece che sopportarla, la sofferenza deve essere amata; lo si intuisce da Gesù che si fa arrestare, giudicare, condannare e giustiziare. Tanto forte era l’intenzione di chi lo circondava che Egli venisse soppresso, quanto lo era la Sua possibilità di dimostrarSi innocente di fronte al tribunale. Tuttavia, accetta il volere altrui e permette “l’errore giudiziario”.
La croce, la Sua pena capitale, è indubbiamente la rappresentazione e la dimostrazione della sofferenza che Egli deve patire. La quale non è solo fisica, purtroppo, ma anche intima: le persone alle quali si è donato, ora lo gettano alla morte. La croce, pertanto, è l’emblema della trasformazione interiore a cui il praticante del Vangelo è invitato.
Come Gesù ha amato anche la croce, la sofferenza massima della Sua vita, pure il fedele deve amare la propria. Così, proprio nell’episodio che avrebbe dovuto dimostrare il fallimento della parola di Gesù, senza che i Suoi accusatori se ne rendevano conto, essa viene consacrata. Gesù rende tutto un dono, anche la propria morte: come si fa a donare la cosa peggiore che possa accadere? Al fine di poter augurare che non succeda a nessun altro, come se Egli avesse desiderato che la morte capitasse solo a Lui e l’umanità ne venisse risparmiata.
Nel leggere la Bibbia si trovano racconti mirabolanti e anche avventurosi, ci sono avvenimenti in cui prigionieri conquistano la libertà tramite prodigi. Eppure, Gesù non godrà di un simile trattamento: tra tutti gli espedienti che avrebbero potuto aver luogo per poterLo liberare dall’arresto, addirittura soprannaturali, non ne accade nessuno. Se si fosse salvato, oppure se infine Lo avessero rilasciato, la comprensione sulla trasformazione della sofferenza non sarebbe avvenuta. La conoscenza trasmessa attraverso un evento, ancor meglio che con tante parole, arenerebbe.
Le persone possono individuare parecchie croci nella propria esistenza. Vincerle è possibile, e questo avviene con l’amore. Gesù vince la morte, che è, in quel momento, la Sua croce; e, infatti, non c’è da stupirsi che tornerà dalla morte. Se è possibile addirittura vincere la morte, allora sicuramente ognuno può amare la croce che ha.
La difficoltà in questa azione non è nell’accettare qualcosa di inaccettabile, ovvero l’amare qualcosa che è improponibile da amare, perché se la propria croce è presente vuol dire che è già accettata. Non fa differenza amarla o no: essa già c’è. La difficoltà, semmai, è nell’accettare di vivere quell’amore. Che è comunque una relazione e quindi che prevede una corrispondenza. Ad esempio, cosa ci potrei fare con la mia magrezza? Se io l’amassi, vi stringessi quindi un legame, cosa ci dovrei fare assieme?
Allora, prima di impegnarsi nei confronti della propria croce, è determinante fare luce sull’amore. C’è l’intero Vangelo da attraversare, prima di affrontare la croce, infatti.
Per amore si intende quella spinta verso qualcosa, che fa muovere verso la vita. È la medesima descrizione che si può trarre quando si trattava l’energia che muove ogni cosa. Che spinge una pianta a germogliare, il bruco a divenire farfalla e ogni componente dell’universo a realizzare se stesso. Nel precedente libro, difatti, si lasciava intuire che la vita fosse sinonimo di amore.
L’amore è la spinta verso tutto ciò che è vitale, che è bello. Che attira e permette una relazione, uno scambio di doni. Tuttavia, se si osserva con attenzione la quotidianità, spicca che esperienze simili non sono poi così ovvie. Come abbiamo in vari modi affrontato, specie nel precedente libro, lo scambio, la gratitudine, l’amore, il fedele li dovrebbe rivolgere verso ogni cosa gli capiti nella vita. Eppure, non è così scontato che se ne abbia l’occasione o anche solo il tempo. Il motivo è certamente dipeso da una routine scandita da gesti e impegni che sono sempre abbastanza simili. Ogni giorno si è indotti a compiere azioni che hanno più a che fare con il soddisfare un dovere. E questo non è strettamente collegato con il piacere o con il muoversi verso la bellezza, verso ciò che è vitale.
L’abitante della nostra società subisce un forte limite e disabitudine a rivolgere tali sentimenti a quanto vive. La causa è la struttura di doveri e divieti che egli segue, ovvero la società stessa. Ma non è nulla di alieno, se si guarda con attenzione: se l’individuo fosse infatti libero di inseguire le sue pulsioni e ricercare quindi solo quanto gli suscita amore, vivrebbe con regole tutte sue. Cioè, non sarebbe facile dargli delle abitudini da seguire e così permettere l’ordine per la realizzazione della società stessa. Questa dinamica non è un’imposizione tirannica di un qualche misterioso gruppo di potere, è il modo spontaneo alla quale la società intera si è omologata per permettere la sussistenza e sviluppo generali.




16/11/22

RICORDARE LA VERITA’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 14

Qui di seguito il quattordicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.

 
RICORDARE LA VERITA’


Riprendendo la similitudine sfruttata nel capitolo precedente: l’operaio non può invidiare l’imprenditore. Come non ha giustificazione il disprezzare chi gode di ricchezze quando messo in confronto con chi è povero. Perché, come si può desumere, l’oggetto dell’invidia è un’illusione: esso varia a seconda di come lo si considera, perciò a seconda della propria coscienza.
Infatti, quello che il ricco ha e il povero non ha, ovvero ciò che si può invidiare a un’altra persona, non è veramente l’oggetto di per sé, ma la diversa idea che il ricco ha della realtà. Uscendo dall’illusione, si precisa così che non si può invidiare un’altra persona perché ciò di cui si invidia è raggiungibile da tutti attraverso un cambio della coscienza.
Non si può invidiare una persona perché ha una cosa e noi no; perché quello che ha è esattamente quello che abbiamo anche noi. Non l’oggetto dell’invidia, ma la vita; e la possibilità di accedervi godendone le risorse. Nel nostro esempio: l’operaio non può invidiare l’imprenditore perché anche lui è potenzialmente “antenna” come l’imprenditore. Siamo tutti dotati della stessa possibilità, della stessa vita: a quella persona è provveduta la medesima vita di chiunque altro. La quale è manifestata in modo diverso da ciascuno attraverso un fisico, una forma: il proprio corpo e l’essere una persona. Ma quello è il modo più immediato per renderla concreta, nessuno ci obbliga a fermarci qui; se non la propria coscienza.
Coinvolgiamo Dio in questa dinamica, perché essendo permanente Egli non può gestire in modo diretto la realtà materiale. La quale non è permanente, come sappiamo. Egli, allora, la consegna in gestione all’uomo, che rientra così perfettamente in questo proposito. La narrazione di questo passaggio di doveri e poteri si ritrova nel libro della Genesi. L’essere umano vive in mezzo al creato considerandosi un padrone, invece. Spesso, anche le persone che aderiscono a filosofie spirituali tendono ugualmente a vedere l’uomo come elemento esterno inserito secondariamente, come se non ci fosse un effettivo collegamento tra il suo esserci e il perché è proprio qui. Infatti, ne consegue una reazione contraria al vedersi padroni: dei meri ospiti che qui devono semplicemente soggiornare. Invece, l’uomo è colui che ha la cura del creato, ne è il curatore, il “tutore”. Da non fraintendere come chiave di lettura per riconoscere l’essere umano come superiore al resto del creato. Seppure curatore, questo è un ruolo come quello di qualsiasi altro componente dell’universo.
La lettura di questo ruolo come giustificazione per il dominio sul creato è certamente l’idea che ha permesso una serie di problematiche che ci hanno accompagnato lungo tutta la Storia. Oltretutto, il vantaggio dell’uomo sul resto del creato ha acconsentito anche di interpretare che a un certo tipo di popolazione viene accordato il permesso di dominare su un altro gruppo della popolazione. Benché tali pensieri siano chiaramente in contraddizione alla via indicata da Cristo, addirittura i cristiani ne sono stati i promotori, come sappiamo. Ma, probabilmente, questi non erano per esprimere un credo nei confronti di uno sviluppo spirituale; piuttosto un tornaconto su un piano legato al potere e all’influenza politica.
Difatti, tutto quanto succede nel creato è diretta conseguenza della volontà umana, conscia e inconscia. La realtà ne è il risultato e non viceversa, abbiamo constatato in più occasioni. E non è neppure conseguenza della volontà divina, la quale, poiché eterna, ferma e costante non potrebbe che essere inconciliabile con questa dimensione; sarebbe come un fermo immagine. Quindi, ad esempio, se un uomo si mettesse a osservare un fiore e per gioco esprimesse il pensiero che quel fiore sbocciasse all’istante come per incantesimo a esaudimento della sua volontà, non vedendo alcuna reazione si convincerebbe che non può modificare nulla della realtà. Invece, proprio il germogliare della pianta dal seme fino a diventare fiore e infine sbocciare per così dare vita ad altre piante è esattamente la conseguenza di quel volere. È perché l’uomo vuole così che in quel modo avviene ed è così il mondo governato dall’uomo. Tant’è che, come accennato più sopra, l’opposto, cioè un mondo governato da Dio, sarebbe un istante unico. L’istante in cui il mondo è stato creato che si protrarrebbe all’infinito. Nel racconto dell’Eden, il mondo è stato creato e il fiore del nostro esempio sarebbe comparso e in quella forma rimasto per sempre. Nulla di tutto ciò è comprensibile se si rimanesse convinti che pure Dio debba sottostare alle leggi della fisica come la materia.
Invece, per mezzo dell’uomo e del suo pensiero, il fiore è prima seme, poi pianta e di nuovo seme. Questo, però, non significa che Dio è tagliato fuori: tale dinamica è il modo ideale per cui Egli possa manifestarsi, interagire e creare. L’essere umano, come abbiamo imparato, non è separato dal tutto e quindi lo si può individuare come lo strumento indispensabile per Dio per animare la creazione. Essere in linea con il Vangelo produce uomini in grado di creare bellezza e quindi cose utili per il mondo in modo autonomo. Addirittura, diventando cosciente di ciò, quell’uomo del nostro esempio sarebbe per davvero finalmente in grado di far sbocciare il fiore all’istante. Mentre, se si è poco forniti di fede, e quindi non convinti pienamente che niente è impossibile, si può solo alimentare con il proprio pensiero il pensiero dominante sulla realtà (quello che credono tutti) che porta quel fiore a vivere il suo ciclo vitale seguendo i ritmi e i tempi convenzionali.
Gli sconvolgimenti climatici o altri mutamenti radicali nel mondo sono la conseguenza diretta del graduale modificarsi del pensiero umano. I mutamenti sono globali perché questo pensiero non è in realtà intrinsecamente personale ma esterno a noi al quale le persone comodamente traggono la propria volontà che, seppure credono libera e individuale, è in realtà omologata e programmata.
L’intero creato è, come dice la parola stessa, un artificio. Dai nostri approfondimenti potremmo riassumere che il motivo di tale costruzione è proporre un ambiente dalle condizioni ideali perché l’uomo si accorga di essere divino. Ci appare, infatti, che egli si ritroverà, seguendo un percorso di consapevolezza, a riconoscersi come strumento della vita stessa e non solo un semplice essere umano. Lo è da sempre, è il suo stato: per questo si può affermare che la conoscenza di ciò può essere stimolata e intuita perché già la si conoscerebbe. Ed è come se l’essere umano semplicemente la ricordasse. Le intuizioni, infatti, nel loro fluirci nella mente non sono probabilmente originarie da un effettivo esterno da noi, ma è conoscenza che riemerge spontaneamente come un deja-vu. Proprio come dei ricordi sovvengono a seguito di immagini, azioni o parole captate, anche distrattamente.
A questa conoscenza, siccome non è esterna, non è una concessione l’accedervi: essa è già nell’uomo. Non bisogna fare nulla al di là del praticare il Vangelo al fine di risvegliare questa coscienza che, allora, non è estranea, diversa, ma nostra fin dal principio. Per mezzo di ciò, l’essere umano può concretamente intervenire nella realtà, pure oltre il senso comune. E questo lo abbiamo constatato essere un mero effetto collaterale piuttosto che una modalità per ottenere tutto quello che si vuole indiscriminatamente, come un mago. L’intervento umano, al massimo, ha utilità nello svelare chi siamo e cosa facciamo. La personale volontà, infatti, a questo punto del percorso, non impone più pressioni per rincorrere un qualche obiettivo mondano perché il mondo non è più percepito ammaliatore, restrittivo e obbligante come in passato, quando lo si credeva tutta la realtà esperibile. Così, si rinnova l’accorgersi che l’essere umano è un elemento creativo di questa realtà e non un passivo spettatore.
Sembra un paradosso, però, che per poterlo scoprire, egli deve passare per forza per l’esperienza materiale. In effetti, come potrebbe fare il confronto se sapesse solo quanto si può conoscere attraverso l’esperienza dell’esistere come qualcosa di immateriale? Proprio come nel nostro libro precedente si arrivava a intuire l’esigenza di introdurre la morte per potersi accorgere di essere in vita, qui si constata pure che la realtà materiale è un dono di Dio per farci cogliere il nostro essere, innanzitutto, non materiali. Difatti, se l’essere umano invece di passare per la materialità, salta già a tornare fuso in Dio, sarebbe come daccapo, non avrebbe imparato nulla, sarebbe incompleto. Quella che viene considerata da alcuni (anche credenti) come una vita di sofferenza, è invece una strategia perfetta che Dio ha inventato e donato proprio perché l’essere umano possa tornare a unirsi con il tutto, con Lui, in una completa coscienza.
Questo è il senso della tentazione nell’Eden di diventare già onniscienti e onnipotenti come Dio, cioè di diventarlo senza dover passare per l’esperienza terrena. E così condannarsi a uno stato incompleto e inadeguato. Fortunatamente, Dio ci fa uscire da un simile vicolo cieco inserendo l’essere umano nel creato e permettendogli così di dare al creato l’avvio all’esistenza (transitoria).
In un paradigma quasi impossibile da immaginare per la sua magnificenza, l’uomo, diventando l’opposto, cioè materiale, può rendersi conto di essere uno strumento, un membro attivo di qualcosa di infinitamente più grande e non esclusivamente materiale. E solo così fare esperienza che dal creato egli non è veramente distinto ma è tutt’uno.



09/11/22

LA VERA REALTA’ E LA VERA IRREALTA’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 13

Qui di seguito il tredicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.  


LA VERA REALTA’ E LA VERA IRREALTA’ 



Nell’inquadrare l’universo attraverso parametri infiniti, non c’è nulla di inusuale ed esagerato. Chiunque è portato a considerare l’universo come sconfinato e immortale. E se interrogate su questi argomenti, molte persone asserirebbero che una simile visione è ovvia o addirittura insegnata fin dai primi anni di scuola. L’assurdità, piuttosto, è che tali informazioni cessino oppure si obnubilino quando si deve ragionare in misura locale e personale. La vita quotidiana, i luoghi che frequentiamo e l’epoca che attraversiamo non godrebbero delle stesse caratteristiche riconosciute al resto dell’universo. Benché l’uomo sia inserito nell’universo, pare poco propenso ad accettare di subirne le regole.
Si potrebbe giustificare che ciò sia connesso alla limitatezza del ragionare mentale. Come già affrontato nel corso dei precedenti capitoli, una mente funziona quando equilibra le informazioni attraverso una logica utile. Quindi, dovrebbe spontaneamente respingere la fatica di leggere il mondo attraverso regole basate sull’impossibilità di fissare punti di riferimento.
Tuttavia, in questo caso non si stanno contemplando elementi astratti come abbiamo fatto in precedenza manifestando il vicolo cieco nel cercare di spiegare Dio con il mero intelletto. Qui stiamo ragionando invece anche a livello materiale, terreno: la nostra realtà di tutti i giorni.
Infatti, come si è plasmata l’idea, la convinzione e di conseguenza si è costituita l’intera struttura logica che ci porta a ragionare tramite limiti e confini, allora, a un certo punto, ci si sarebbe anche potuti abituare a vedere invece il mondo come infinito analogamente al resto dell’universo. Prendere coscienza della realtà, realizzare in sé la coscienza divina (come diceva San Paolo: ricevere in sé la Rivelazione), comporta tale rivoluzione.
Non appena si rivoluziona la propria coscienza, diventa naturale sapere che lo stesso magnificente movimento a spirale della nostra galassia è pure dentro di noi. E lo stesso vale per la sconfinatezza dell’universo, la gamma innumerevole di sue varianti, le incalcolabili possibilità di sviluppo. E, con particolare attenzione, pure l’irrefrenabile ciclo di trasformazione (la complementarietà precisata nel precedente capitolo) che pone anche gli esseri umani a partecipare a una vita che non cessa mai. Malgrado ciò che possa capitare al corpo che si anima e all’evolversi dell’ecosistema in cui si è inseriti.
Nel corso del libro, abbiamo accennato che l’essere umano è invitato a fare tale esperienza materiale proprio per subire questi limiti. I quali comportano anche un aderire con i pensieri a una logica che guarda alla materialità e alla finitezza. E abbiamo anche puntualizzato che questa dinamica è ideale proprio perché in tale guisa permette di rendersi conto della vera realtà. Solo attraverso un’esistenza immersa in una menzogna si può avere la possibilità di realizzare la verità; proprio perché si è nella condizione di percorrere la via che mette a nudo l’errore di interpretazione.
Accettare, difatti, che si vive una realtà che non sia infinita e che non permetta opportunità infinite è accettare di vivere in un’irrealtà. Non si possono addurre scuse per vivere nella menzogna quando la si scopre.
A livello personale, l’individuo registra attraverso i sensi che le esperienze possono essere limitate e così giudicherà l’intera realtà. Come intuìto alla fine del precedente capitolo, è plausibile che la società spinga a concentrare le sollecitazioni dei suoi abitanti principalmente sui cinque sensi per così abituare a dare a questi la maggiore importanza. La conseguenza è appunto un imparare a vedere il mondo, e così la propria vita, attraverso lenti deformate. Non ci preoccupano le critiche politiche, quindi rimaniamo con l’attenzione su quello che ci interessa prima di ogni altra cosa: come l’uomo vive.
L’esito sarà, allora, che seppure la realtà rispetta leggi che dimostrerebbero una natura infinita, l’uomo vivrà in un mondo finito perché è così che lo interpreta. Lo possiamo constatare in qualsiasi nostra esperienza quotidiana: siamo noi, infatti, a creare la realtà che ci circonda a seconda dei nostri pensieri. In questo caso, addirittura, vivere un’irrealtà; la quale persiste finché non ci si riconosce, appunto, come gli artefici e non i consumatori finali. Come uno vive in un mondo finito, così può vivere in un altro infinito; oppure sotto l’influenza di altri parametri ancora. Sempre secondo il condizionamento creato dalla propria consapevolezza.
Prendere visione di ciò, deve esserci indispensabile come prova della capacità creatrice dell’essere umano. Riuscire a creare la certezza di vivere una realtà finita all’interno di una realtà in verità infinita dimostra il potere creatore di cui l’uomo dispone.
Il Vangelo, infatti, è un influenzare la propria coscienza per accedere al Regno di Dio. Proprio come in principio l’essere umano ha accesso a un regno di materia credendo a tutt’altri pensieri. Così da poter affermare che, ad esempio, la persona che riesce a raggiungere la soddisfazione dei propri desideri finirà comunque per vivere esperienze limitate, approssimative o addirittura controproducenti finché resterà convinto di abitare un mondo chiuso e limitato.
Pertanto, per esaminare la propria coscienza, è importante guardare a come si pensa. Così ci si scopre se si vive nella realtà o nell’irrealtà e, con la pratica fino a qui enunciata, accogliere la conoscenza che acconsente al cambiamento. Nell’irrealtà, per esempio, si è convinti che quando una cosa finisce è finita in modo assoluto: esiste l’inevitabilità, l’assenza di ciclicità, il procedere solo in linea retta. Perciò, nell’irrealtà è normale credere che se si muore, la vita finisca; se si consumano le risorse, esse termineranno; se delle persone migrano nel nostro paese a cercare un impiego, non ci sarà lavoro per tutti; se si destinano finanziamenti per certi progetti, non ce ne saranno anche per altri; se uno ha molti soldi, altre persone ne avranno di meno; per guadagnare di più bisogna privare il guadagno ad altri… Ma anche convincersi di non poter cambiare vita o modo di pensare perché è troppo tardi, che più anni passano e meno tempo rimane a disposizione, che non si può fare tutto o se si fanno tante cose non rimane la libertà per concretizzare i propri sogni, ecc.
E fino a che si considera ogni elemento che si vive, pure le cose più spicciole e quotidiane, come qualcosa implicato nelle leggi materiali e limitate, così la realtà tutta sarà. È esattamente il motivo per cui si è dovuto usare l’appellativo di illusione per parlarne, nei capitoli precedenti. Perché riguarda solo il personale modo di convincersene e il leggere di conseguenza la realtà. Così, anche qualcosa di incontrollabile e astratto, come la ricchezza, potrà essere vissuta in maniera differente a seconda della propria coscienza; al pari di una quantità di denaro definita che può stare nelle tasche di persone precise, oppure come è realmente: uno scorrere illimitato di denaro, come può essere l’irradiazione del segnale radio, che si diffonde nella propria vita a seconda di come personalmente ci facciamo antenne pronte a riceverlo.
Il passaggio più delicato per cogliere la complementarietà, infatti, lo si può affrontare sfruttando questa metafora. Si consideri che ogni elemento della vita, ogni cosa di cui si ha bisogno è come un dono che si può sicuramente ricevere; il modo per ottenerlo è il farsi “antenne”. Ogni dono, infatti, è al pari di “un’onda radio” perché non sono solo per alcuni, esse sono libere e per tutti. Raggiungono ogni luogo e non vengono ostacolate da nulla, l’importante è capire che bisogna farsi riceventi di queste onde. E così riceverne senza interruzione finché si rimane sintonizzati.
Se non ci si fa antenna, qualsiasi cosa desidereremmo, la si potrà avere solo come conseguenza dell’essere in contatto con una vera antenna ben funzionante. Cioè lo stare attaccati a qualcuno che si comporta effettivamente come ricevente di tale flusso, dal quale si possono raccogliere così degli avanzi.
In questo parallelismo, spiegando sulla ricchezza, un’antenna è, ad esempio, un imprenditore che polarizza il cosiddetto flusso di denaro attraverso i guadagni della sua azienda. I suoi operai sono coloro che, invece di diventare antenne a loro volta, si attaccano a una preesistente per captare qualche onda (il loro datore di lavoro che ricambia dell’energia apportata con il pagamento del salario). Gli operai non si rendono conto che, in realtà, sono la costituzione di un’antenna più grande di loro (l’imprenditore e la sua azienda). Come, probabilmente, neppure l’imprenditore è veramente conscio della sua natura. Entrambi, infatti, ricoprono questi ruoli casualmente: forse l’imprenditore, a contrario dei suoi dipendenti, si è fidato di intuizioni che lo hanno spronato a una via intraprendente.
E così è stato per i regnanti del passato fino al primo leader nella comunità dei cavernicoli. Ciascuno di noi, quindi, ha tutta la predisposizione per diventare regnante o imprenditore se attua una rivoluzione di coscienza. Attraverso il Vangelo pratico, comunque, scopriamo che la finalità non è ricoprire ruoli speciali all’interno della società, né tantomeno un mero trovare la formula per vedere diventare concreti i propri desideri. Tutti questi aspetti sono solo gli espedienti per permetterci il viaggio in questa realtà, non possono pertanto essere la meta del viaggio. Guarire dalla miopia verso la realtà, se stessi e le proprie capacità è la via per realizzare chi si è e realizzare l’infinito.





02/11/22

LA COMPLEMENTARIETA’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 12

Qui di seguito il dodicesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA

che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato. 


LA COMPLEMENTARIETA’




Il tempo come lo abbiamo descritto è al pari dello “sfondo” sul quale tutto prende vita. Ne è il terreno fertile, eterno e infinito dal quale la vita può sbocciare in innumerevoli modi, anche se questi possono essere soggetti alle leggi fisiche che ne comporteranno una trasformazione materica e (come nel caso dell’essere umano) al decesso. Malgrado la morte, da sotto questo terreno dipartirà altra vita, altre forme; quindi la loro sostanza è sempre la medesima, la stessa vita.
Perseguendo il privilegiato esempio del mondo vegetale, si può vederne a simbolo una pianta come lo scotano. Seppure appaia in gruppo di fitti e indipendenti fusti, in realtà essi sono un’unica pianta che si moltiplica svariate volte germogliando ed erigendosi dalle proprie radici sotterranee, invisibili all’occhio umano.
Questa vera e propria forza propulsiva, che stiamo appunto chiamando vita, la si può correttamente identificare con Dio, ma non è la coscienza pura e universale introdotta in un capitolo precedente. Questa energia vitale, come per facilità abbiamo dato nome nel primo libro, non è neppure esatta etichettarla in un modo preciso come “forza” o “energia”. È quanto si è già esaustivamente riconosciuto come lo Spirito Santo della teologia cristiana.
La coscienza pura e suprema che diffonde lo Spirito Santo, la vita, è quanto convenzionalmente si chiama Dio. Gesù, infatti, ci ha portati a fare la conoscenza dello Spirito Santo per così rapportarci più adeguatamente alla vita e all’infinito che è la vita stessa. Ovvero, come rapportarsi a Dio; è a quella coscienza cui Egli fa riferimento senza sosta.
Gesù non è venuto per indicarci come fare una modifica o una rivoluzione a livello politico, sociale oppure addirittura religioso. Perché tutto ciò ha a che fare con le cose che mutano e hanno una fine. Egli ci parla di quanto non muta e come recepirlo: la coscienza. È come l’individuo cambia intimamente, che poi verrà modificata la realtà in cui vive. È innanzitutto con una rivoluzione della coscienza, quindi, che muterà tutto il resto. I racconti del Vangelo, infatti, testimoniano che se si necessita di un cambiamento, di una rivoluzione, questa deve essere compiuta dentro di sé perché possa pervadere totalmente anche all’esterno.
Come già suggerito mentre si argomentava l’illusorietà della realtà: fino a che non si compie verso di sé quanto si ricerca, quello che si ottiene avrà sempre una data di scadenza, un’approssimazione. Pure se si muovesse una rivoluzione appoggiati dalla maggioranza della popolazione e armati in misura soverchiante rispetto al nemico. Se, invece, io dirigessi, metaforicamente, una simile operazione verso di me, nella mia coscienza, allora si rifletterà nella realtà materiale concretizzandosi pienamente. In maniera spontanea e senza incappare in ostacoli.
Benché la coscienza sia unica e tutti gli esseri umani sono animati dalla stessa sostanza (e fisicamente tutti sono fratelli, abbiamo dovuto ammettere un capitolo fa), gli uomini non sono anche tutti uguali. La mancanza di uguaglianza in senso stretto è causata proprio dalla diversa consapevolezza sulla realtà che ha ciascuno di noi. Ad esempio, un uomo convinto di vivere in un mondo dove tutto è finito e quindi anche le opportunità sono esauribili, e un altro convinto del contrario, è come se vivessero in due realtà differenti. Potrebbero anche essere vicini di casa o della stessa famiglia, ma è come se abitassero epoche e luoghi opposti. Ognuno è allora cosciente sulla realtà in modo personale e quindi spesso difforme. Realizzare l’unica e universale coscienza vuol dire intonarsi tutti allo stesso tempo, come poeticamente si proponeva l’immagine dell’armonia musicale.
A quale tempo appartieni? In quale luogo vivi? Non sono domande criptiche, ma un metodo efficace per verificare la propria coscienza. Una prova la si può constatare nell’osservazione della parcellizzazione del nostro pianeta in aree dove gli abitanti è come se vivessero epoche e mondi diversi. A seconda di come una persona si nutre internamente, quindi a livello di coscienza, e come ne esplora la natura e le possibilità, così in un modo equivalente costruirà la società in cui vive. Pertanto, maggiormente riceve stimoli per rivoluzionare la propria coscienza, e di riflesso avverranno modifiche nella sua realtà esterna; e viceversa. E questo è l’esito del constatare uno stesso pianeta che ospita regioni avveniristiche affianco ad altre primitive. Non si esprime qui una preferenza di una rispetto a un’altra, ma la nota di quanto sono connessi lo stato della propria coscienza con quello della realtà in cui si vive.
Puntare il dito su problemi o contingenze che creano le condizioni per lo sviluppo di un popolo e la depressione di un altro vuol dire dare responsabilità a fattori esterni. Noi sappiamo, invece, che ogni cosa, pure lo sviluppo di una nazione è identico a quello di un singolo essere umano. Costui, se ricevesse lo sprone a prendere possesso della propria vita e aprirsi all’infinito (come si sostiene sia possibile dalla pratica del Vangelo) non sarebbe più immobilizzato a preoccuparsi di tutto quello che è finito e transitorio.
Il progresso intimo che deve rivoluzionare la propria coscienza non è da concentrare nel semplice desiderare una vita migliore. Oppure, per prima cosa un concentrarsi sull’arricchimento materiale come motore di un conseguente benessere generale. Il benessere o la ricchezza sono solo degli eventuali effetti collaterali della rivoluzione proposta da Cristo. La preparazione del Vangelo è, precisamente, ad attirare e ripetere amore.
Si viene spesso indotti a lavorare su di sé per essere in grado di attrarre ricchezza in quanto, logicamente, viene riconosciuta come strumento che faciliti la felicità. Come per qualsiasi cosa messa al centro della propria attenzione e della propria coscienza, anche la ricchezza può aumentare come risultato di un lavoro su di sé. Ma, come per qualsiasi cosa ottenuta percorrendo questa via, essa sarà regolata da volontà superiori al richiedente. Egli, ad esempio, potrebbe diventare più ricco, ma questo sarà sempre attraverso condizioni che gli serviranno per scoprire che pure la ricchezza fa parte dell’illusione.
Qualsiasi cosa si ottenga, anche attraverso un personale impegno, materiale o spirituale, è sempre e comunque in funzione della volontà di Dio. Ovvero, un espediente che, seppure ci ha permesso di ottenere quanto ci sforzavamo di desiderare, serve a fare accorgere che la vera realtà è accessibile realizzando Dio, una coscienza infinitamente superiore alla nostra.
Nell’esemplificazione della ricchezza, se uno si focalizza a bramarla e verso quella sono i suoi sforzi, potrebbe essere consequenziale che egli la realizzi ma questo non comporterà obbligatoriamente anche un benessere o la felicità. La ricchezza ottenuta, come appena scorto, potrebbe fungere per giungere a qualcos’altro, forse l’opposto. E se prima egli non si fosse preparato a ricevere nella propria vita un aumento di ricchezza, rischierebbe pure di rimanerne schiacciato.
È corretto credere che si possano avvicinare o allontanare condizionamenti nella propria realtà con una rivoluzione di coscienza. Proprio come abbiamo visto succedere in modo vario negli individui e, facendo la somma dei loro risultati, nelle intere nazioni. E pure come singolarmente si può fare cercando di attirare a sé una data cosa che si desidera. Ma ciò, come nell’esempio della ricchezza, se concentrata su fattori esterni a sé è solo una manipolazione degli effetti secondari. Cioè, cambiare il modo in cui ci si convince di vedere l’illusione della realtà può portare a mutamenti tangibili. Questa è magia perché sarebbe in verità il risultato di un illudersi e non può sovrastare l’armonia di cui stiamo trattando; con la solita metafora: prima o poi la musica dovrà ritornare al suo tempo reale.
La cosiddetta legge di attrazione, ad esempio, che permetterebbe di concretizzare quanto si richiede, non esisterebbe in realtà. O perlomeno esisterebbe se nell’intero universo ci fosse solo il soggetto che la praticasse. Perché si deve sottostare all’influenza dell’armonia generale. Tant’è che si potrebbe affermare che la legge di attrazione vale solo per Dio, la quale infatti sarebbe il Suo creare.
Più esattamente, semmai, esisterebbe un altro canone: la complementarietà. È naturale, infatti, che un equilibrio debba sempre mantenersi. Tutti gli elementi, in un modo o in un altro, è inevitabile che siano sempre integrati. Così che, nell’esempio che abbiamo fatto di una persona che ricerca la ricchezza, per ottenerla dovrebbe impegnarsi nel donare lui per primo ricchezza agli altri.
Infatti, se vogliamo concludere il capitolo esaminando il dato che ci impressiona della disparità tra le persone, dobbiamo tenere conto di tale compensazione. Sia della disparità che si nota osservandoci l’un l’altro, che un popolo in confronto a un altro. Come già spiegato nel Vangelo, uno riceve in misura di quanto dà, così, paradossalmente, seguendo la legge di attrazione uno sta commettendo un errore di fondo. Anzi, nello sforzo di focalizzarsi su quanto mira, egli va a impedire proprio la dinamica che gliela farebbe ricevere. E ricevere, qui ripetiamo, nella forma a lui ideale e non in quella che otterrà attraverso i suoi sforzi mentali. Perché questi ultimi sono ripiegati verso di sé, non si aprono al mondo esterno.
A tutti sarà capitato di scoprire che alcuni edifici pubblici della propria città, le più grandi campagne sociali, i lavori di manutenzione di una strada importante o il restauro di un monumento sono finanziati da persone molto ricche. Qual è il motivo di tali impegni finanziari che non portano a un guadagno? Si verrebbe tentati di credere che sia, ad esempio, una forma di pubblicità, ma non è così (o almeno non sempre) perché potrebbe non valere la spesa. Il motivo è che quell’uomo ricco sta seguendo la compensazione evangelica. Consapevolmente o no, sa che per ottenere tanto deve innanzitutto, senza che sia strettamente necessario o richiesto, elargire lui per primo. Maggiore l’esborso, quello che verrebbe definito una perdita quando si ignora la legge di complementarietà, e maggiore sarà, misteriosamente, quello che si riceverà. Così, per il proprio sviluppo e per il rifiorire del proprio popolo, un regnante non latita nell’investire e mettere il proprio nome sulle opere edificate.
Questo non deve però essere individuato solo come prassi positiva e benevole. Difatti, nel nostro trattato stiamo spiegando tale pratica nella ricerca di amore che, come energia vitale e divina, fornisce l’esatto necessario a prescindere dai nostri desideri limitati. Ma essa può essere ricercata per altre mire, per l’opposto. Ad esempio, la piccola percentuale di persone che sono enormemente ricche e potenti, per poter mantenere una simile posizione deve forse compensare creando le condizioni per cui la restante popolazione si mantenga in uno stato perfettamente opposto al loro. Di queste intuizioni non potremo mai avere la certezza, certamente se alle persone viene insegnato di focalizzarsi su quello che vogliono invece che sul donare è, presumibilmente, al fine di non rendere a tutti accessibili le infinite risorse dell’universo.
Una rivoluzione di coscienza implica il praticare il Vangelo e quindi passa necessariamente nell’accorgersi di simili dinamiche.