28/06/23

QUANDO SI SPIEGA L’INSPIEGABILE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 46

Qui di seguito il quarantaseiesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


QUANDO SI SPIEGA L’INSPIEGABILE




Siamo giunti alquanto distanti dal nostro punto di partenza. Sono svariate le nuove informazioni scoperte e acquisite. E queste hanno permesso un cambiamento del modo in cui si osserva la realtà. Sono importanti questi nuovi dati perché corrispondono agli strumenti per diventare le nuove persone che saremo.
Tuttavia, questo cambiamento potrebbe indurre di conseguenza a un voltare le spalle alla persona che eravamo. Perché la si potrebbe giudicare in modo negativo o con rimprovero, riconoscendola come il nostro sé caratterizzato da limiti che condizionavano alla sofferenza o a non svilupparci appieno.
Sono proprio le nuove conquiste alle quali si è arrivati a questo punto e le fruttuose informazioni che le hanno facilitate a portare, a volte, a un simile atteggiamento di durezza. Paradossalmente, si imparano le forze propulsive che sono l’accoglienza e il donare ma non le si rivolgerebbero verso di sé. Di questo passo, potrebbe essere una prassi il mantenersi giudicanti, malgrado le tappe fin qui percorse; come se il giudicare servisse a sancire i propri progressi.
Allora, si scoprono inedite visioni sulla realtà e su di sé che possono portare il praticante a un sentirsi forte e orgoglioso come non mai. Atteggiamento a cui potrebbe indugiare nel momento in cui si mette a confronto con chi queste scoperte non le ha fatte. Invece di diventare uno strumento di questa conoscenza che possa così agire attraverso di lui, egli può cadere nella tentazione di adoperarla come una qualsiasi altra cosa utile a sentirsi diverso, migliore, più grande.
Si mette a nudo l’ignoranza nella quale ci si crogiolava fino a poco tempo prima e la reazione verso di lei è di violenza. Come a volerla zittire e relegare nel proprio passato e convincersi di essere sempre stato l’essere che da essa si è innalzato grazie al percorso spirituale.
Atteggiamenti simili sono facili da riconoscere perché portano l’individuo a fare un gran rumore per mostrare che persone nuova è divenuta. Non è un semplice fare sfoggio delle nuove scoperte raggiunte ma un celebrarle e usarle per sopraffare intellettualmente coloro che a esse non sono ancora arrivati. Un po’ come quei divi del cinema che quando vengono intervistati non si trattengono dall’impostare ogni risposta come la più importante che potesse mai essere data.
Sono sempre impressionato quando ho a che fare con persone che si considerano autorizzate a fissare definizioni su argomenti spirituali che per significato dovrebbero invece essere sconfinati. Siamo giunti fino a qui perché ci siamo impegnati a lasciare spazio a qualcosa di immensamente più grande di noi; un rischio, pertanto, è che non appena ciò permette di vedere la luce ci si ponga in mezzo per voler essere noi, la luce. Noi siamo quella luce perché ci investe e risplende quando permettiamo che passandoci attraverso possa giungere agli altri. Proprio come nell’esempio del capitolo precedente fanno l’antenna e il televisore per la trasmissione.
L’umiltà insegnata nel Vangelo non è finalizzata a un qualche tipo di buon galateo. Essa è fondamentale per far sì che questa immensità possa manifestarsi senza ostacoli. I quali sorgono quando il fedele si compiace di quello che ora sa, malgrado sia un sapere possibile grazie a quell’immensità. Questa conoscenza, infatti, non è frutto di conquiste, egli non si è dovuto battere per ottenerla oppure affrontando una qualche fatica o competizione. Addirittura, la conoscenza giunge proprio quando ci si arrende, si smette di preoccuparsi, anche di poterla ottenere. Pertanto, sarebbe come un riconoscersi speciale con qualcosa che in realtà è gratuito e per tutti.
Senza criticare le persone che si comportano in questo modo ma per trarne una lezione, si coglie che la loro è una reazione emotiva all’accorgersi di quanto si era ignoranti. È infatti il motivo per cui rivelano un atteggiamento duro e ostile verso la mancanza di conoscenza; perché sarebbe contro il loro rendersi conto di essere stati profondamente ignoranti fino a un attimo primo. Pertanto, l’accoglienza e la compassione deve essere anche verso di sé, verso il proprio passato. Mentre un comportarsi come degli eccelsi “laureati” in spiritualità quando si intravede finalmente la via significa comportarsi nella maniera egocentrica che aveva permesso l’ignoranza. Se per arrivare alle nostre conclusioni abbiamo dovuto ammettere che nulla in questa realtà può dirsi fissato e immutabile, come poter dire che una cosa sia in un modo definito senza lasciare spazio a un possibile dibattito?
È giusto chiarire nuovamente che nel nostro trattato si è voluto scrivere sotto forma di proposta. E non un mero dare delle risposte per stabilire delle definizioni e delle modalità. Risposte che, come più volte evidenziato, impedirebbero le intuizioni perché forniscono le informazioni che devono essere raggiunte autonomamente.
È così, infatti, che le intuizioni emergerebbero in noi a mostrarci come scardinare il proprio punto di vista sulla realtà. Però, per prima cosa, questo punto di vista deve essere creato e, per di più, in modo personale, non copiandolo da altri.
Vale a dire che anche il “laureato” in spiritualità pontifica delle informazioni che vanno bene per lui. E per lui soltanto valgono (per come egli è) per accompagnarlo alla Verità. Così, il lasciarsi convincere ad aderire a un pensiero formulato da altri è il motivo per cui la gente non realizza personalmente la Verità ma se ne approssima soltanto. Infatti, in questo modo, cercherebbe di imboccare la strada che è ideale per un altro tipo di persona.
Ci sono persone che giungono a Dio attraverso un cammino spirituale e altre tramite un altro oppure qualcosa di totalmente diverso, come una disciplina sportiva, un approfondimento scientifico o uno filosofico. Ma quelle stesse credenze religiose, scientifiche, filosofiche e mentali avranno valore solo temporaneamente, per quello scopo. E cesseranno di averne non appena verranno superate, oscurate, diventando obsolete o impossibili da praticare perché la mente o il fisico (nel caso di una pratica sportiva) cambiano. Le parole stesse che si utilizzano per descrivere l’immutabile sono mutabili. Facciamo attenzione a non sfruttare le nuove informazioni sulla spiritualità per convincerci immutabili e assoluti. Sarebbe come credere che una religione non cambi mai, che un approfondimento scientifico non evolva, che si possa seguire tutti la medesima filosofia o che si possano ottenere record sportivi anche invecchiando.
Allora, l’umiltà ha a che fare in modo diretto con un profondo conoscere se stessi. Umiltà, infatti, vuol dire attenersi a quello che si è, non cercare di essere diversi, qualcun altro: più piccoli o più grandi. L’umiltà è uno dei passaggi principali in questo viaggio per dipanare la parte illusoria, nebulosa di questa realtà. E l’umiltà vera è possibile solo con l’onestà essendo onestamente se stessi e considerando solo quello che onestamente si coglie. Come vedere la vera realtà oltre la nebbia, le illusioni, le bugie se si osserva da un punto di vista, da un sé che non sia completamente onesto? Se io per primo mi mento, le mie esperienze non saranno sincere; quindi non lo sarà neppure quello che potrò carpire.
Questa onestà deve essere rivolta su di sé e tutto attorno a noi, a 360 gradi. Tuttavia, quando si intraprende una ricerca di sé e della Verità, si può finire a convincersi di significati che valgono solo a seguito del personale convincimento, ripiegando in ruoli e idee di sé in cui identificarsi. E questo avviene spontaneamente senza potersi rendere conto se ciò che si crede di sé e del resto sia effettivamente in quel modo. Cioè se lo crediamo o no in modo onesto.
Ecco che si giunge a credersi un amante dell’arte oppure devoto a un cammino spirituale o a uno scientifico senza aver incontrato il vero sé. Il quale è, abbiamo scorto, essere in realtà un mero tramite di un sé più grande e universale. Così, seppure un giorno lo si giungerà a scoprire, nel frattempo ci si identifica in un ruolo, come l’artista, lo spiritualista o lo scienziato. E si crede alle credenze di quel ruolo (come i princìpi dell’arte, dello spiritualismo e della scienza) senza esserle anche diventate. Ovvero, ci si identifica in quel ruolo e si scambiano i suoi princìpi per la Verità (alla stregua di dogmi inviolabili). Quindi, l’errore è nel credere loro la luce e non anch’essi, al massimo, degli strumenti grazie ai quali la luce può manifestarsi.
Così, si finisce per credere che ci sia profondità in un’opera d’arte perché così spiega la Storia dell’Arte; che esista un’anima anche se personalmente non se ne hanno evidenze; che sia possibile giungere un giorno a dare una spiegazione scientifica di tutto ciò che c’è nell’universo; ecc. Quando, sempre utilizzando il nostro esempio, l’artista arriverà a dubitare del senso di un’opera d’arte, il fedele di una religione a non dover per forza credere in qualcosa di cui non può essere certo o lo scienziato in ciò che può misurare, allora si creeranno le condizioni per uno sguardo onesto.
In special modo per quanto riguarda la spiritualità, il fedele può tendere a credere a priori per l’abitudine di accettare come vere le spiegazioni che riguardano l’astratto. Come a dire che se si tratta di argomenti spirituali allora debbano per forza essere incontestabili. È così che ci si può ritrovare a insegnare su cose astratte come onorabili “laureati” senza aver innanzitutto provato in prima persona quanto si racconta.
Se hai incontrato la Verità e la riconosci in te, lascia che sia lei a parlare attraverso di te. Ogni volta che si dà una definizione si fissa l’oggetto della nostra osservazione all’interno dei limiti percepibili, definibili appunto. Se con onestà scruti quanto si può sperimentare dell’immateriale, potresti scoprire di recepire solo la tua coscienza. Perché dovresti sentirti certo di altro? Perché dovresti aver bisogno di altro se è la tua coscienza l’unica cosa che avverti?
È doveroso anche riconoscere che grazie alle moltitudini di varietà e opportunità offerte nella società Occidentale e per il pensiero convenzionale, è abbastanza comune che le persone che vi abitano ritengano quanto abbiamo esposto in questo libro come fantasticheria. Tuttavia, l’alternativa sarebbe una vita dedicata allo sforzo di cercare in tutti i modi di ottenere quanto si vuole oppure allo svilimento personale non giudicandosi all’altezza di un simile successo. Gli ostacoli ai propri traguardi non sarebbero però concreti ma astratti ed evanescenti perché, malgrado quanto si tenti, presentano una qualche forza che impedisce loro di levarsi dal nostro cammino. Questi problemi, allora, sono delle idee e in questo libro abbiamo mostrato proprio quanto sia raggiungibile la felicità e la realizzazione personale a seguito di un processo di rimozione delle proprie credenze. Non supponi che anche tu potrai riuscirci se smettessi di avere fede nelle tue idee, nei risultati che si presume che procurerebbero e ti attenessi solo a ciò che in modo pratico e tangibile puoi afferrare?
Un individuo può anche bollare la fede e la spiritualità come pura immaginazione o superflua; però, se indagasse sul vero motivo che gli impedisce di realizzarsi scoprirebbe che è anch’esso un’immaginazione. Ad esempio, potrebbe vivere desiderando ardentemente di smettere di lavorare e impiegando le proprie giornate solo a viaggiare: non è che ha qualcosa di tangibile, come un muro di mattoni davanti alla porta di casa, che gli blocca il passaggio per partire per davvero; l’ostacolo potrebbe essere, piuttosto, la sua paura di intraprendere una simile scelta. Per l’abitudine di identificare tutto come esterno a noi, egli si giustificherebbe interpretandola come cautela; per esempio, verso la difficoltà di raccogliere i soldi necessari, di lasciare i parenti, gestire le proprie proprietà da lontano e così via. Pertanto, al pari di un fedele, anche lui ha fede verso qualcosa di intangibile.
La differenza è che per lui è qualcosa di imprigionante come la paura.



21/06/23

VIVERE CON E SENZA COSCIENZA - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 45

Qui di seguito il quarantacinquesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


VIVERE CON E SENZA COSCIENZA




I dibattiti scientifici riguardanti se è il cervello a produrre la mente oppure no, interessano marginalmente il nostro viaggio. Se non per arrivare fino a qui, poiché si tratterebbe ancora di un confronto dualistico. Così che per forza bisognerebbe individuare se è questa realtà a dare vita alla coscienza o l’incontrario.
E se invece, allora, coscienza e cervello fossero entrambi due componenti autonome l’una dall’altra? Non possiamo sapere se sia veramente così ma dobbiamo tenere conto che potrebbero avere due esistenze separate. E che solo incidentalmente si sovrappongono in questa dimensione, in misura di quanto liberamente si diviene con progressività coscienti (ci si dedica a cercare la Verità).
Difatti, rispetto all’osservazione dello scienziato, quella del fedele si scosta a comprendere che questa realtà non sarebbe una diretta conseguenza della nostra mente o viceversa. Semmai, questa realtà è una creazione appositamente approntata per cui noi, come esseri umani, possiamo realizzare di essere una coscienza. E, successivamente, non solo quella ma la Coscienza Unica e Universale, senza secondi. Infine, in modo naturale, sarebbe poi l’essere la Coscienza che collateralmente ci permetterebbe di creare e modificare la realtà. Poiché ogni cosa è appunto un prodotto della Coscienza.
Non appare più fuori luogo, a questo punto, riconoscere la coscienza autonoma: fuori dal tempo e dallo spazio. Tutti quanti abbiamo fatto esperienze che possono essere la prova di quanto la nostra coscienza travalichi questi limiti. Come un presagire, un pensare cose legate a fatti che avvengono altrove o che si capiranno più avanti, sognare eventi che hanno luogo in altri posti o in altri momenti e anche esperienze più complesse, tutte finora sintetizzate nel nostro trattato con il termine “intuizione”.
Questa non è una speciale capacità che ha la nostra coscienza ma è il modo in cui essa è. E la coscienza è noi, malgrado con il termine “io” si ha la consuetudine a identificare il corpo e la mente che qui delineiamo essere il supporto che la coscienza (il sé) adopera per interagire ed esperire in questa dimensione.
Si deve lasciare spazio all’intuizione che a partire da questo punto di vista ci fa accorgere che malgrado ogni essere umano sia dotato di un corpo e una mente, ne cambia l’esperienza a livello di coscienza. Ovverosia, a seconda di quanta coscienza (altrimenti chiamata Dio o energia divina, vitale) si ospita in sé.
Ogni uomo nasce dotato di un corpo e di una mente ma con la pratica del Vangelo abbiamo riconosciuto come arrendersi a qualcosa di più grande di tutto ciò. Già in passato, questo qualcosa veniva intravisto come “Dio” e poi precisato come pura coscienza universale. Infine, viene realizzato che questa coscienza è l’unica coscienza e quindi (anche) la nostra coscienza individuale. La quale, attraverso la nostra soggettività, comprova l’adesione, aderenza e servizio al Divino.
Allora, più un individuo permette le condizioni affinché questa coscienza universale è in lui ospitata e agente, e maggiormente egli sarà personalmente cosciente e consapevole. Il contrario è invece una persona che rivolgerà le proprie attenzioni e attrazioni verso il materiale. Pertanto, la presenza della coscienza influenza quanto individualmente si arriva a credere all’autenticità ed esclusività della realtà mondana.
L’esperienza in questa realtà sarebbe sì possibile attraverso una presenza particolarmente vivace della coscienza, ma anche con poca coscienza oppure in sua totale assenza. L’essere umano può procedere in una vita senza coscienza ma comunque consapevole, perlomeno di quanto egli possa divenire consapevole: le cose più basse, il materiale, la mondanità. Ciò è possibile perché il corpo e la mente sono gli strumenti ideali per esperire in questa realtà e chiunque, come spirito, può finire per identificarsi nel corpo e la mente che sta usando. Tant’è che questa persona faticherà a captare qualcosa che si innalzi sopra al suo essere cosciente per mezzo della percezione sensoriale e le pulsioni del corpo.
Questo non deve lasciare adito al pensare che ci siano uomini di serie A e altri di serie B, a seconda di una presunta consapevolezza, evoluzione o realizzazione. Tutti, a seguito delle proprie scelte e virtù (si veda quanto mostrato nel percorso di pratica del Vangelo) siamo predisposti a perfezionamento parimenti a come siamo cagionevoli di retrocedere. Tutti abbiamo vissuto svariate volte episodi nei quali la propria coscienza è stata più o meno sospinta in avanti o ostacolata.
Inoltre, è sempre la medesima coscienza, la stessa vita: non può sussistere una gara fra le persone a seconda del personale livello di coscienza. Piuttosto, il maggior flusso di coscienza dovrebbe portare l’individuo ad avere compassione verso coloro che non sanno di goderne e preoccuparsi per migliorare il loro stato. Il quale è direttamente collegato a un far indurre ad accorgersi della vera realtà.
Un’attitudine virtuosa quando si prendono le decisioni, una esistenza altresì scandita da una pratica del Vangelo, favorisce la fede che qualcosa di più grande di noi agirà. In noi, tramite noi e realizzando così la presa di coscienza sulla vera realtà. La pratica del Vangelo, allora, potrebbe essere immaginata alla stregua dell’allenamento ginnico per lo sportivo. Maggiormente egli è costante negli esercizi fisici e più il suo stato e la sua salute miglioreranno. I muscoli diventeranno più forti, abituati al sano movimento e pronti all’azione. Così la pratica della coscienza porterà più possibilità all’accorgersi della coscienza stessa. Fino al riconoscersi in essa quando la si vedrà come l’unica e globale.
Se usiamo ancora la metafora dell’attività fisica, possiamo paragonare le persone con più o meno coscienza a quelle che in modo diverso si allenano negli sport. Benché tutti abbiamo un corpo fatto di muscoli, solo chi lo adopera in modo sano e attivo svilupperà una struttura prestante e forte, mentre chi non vi si dedica lo trascurerà abituandosi al facile affaticamento e alla pinguedine.
In realtà, la coscienza è sempre la stessa, come sappiamo, e unica. Quindi non varia per davvero da persona a persona ma, come più volte suggerito attraverso altre immagini: ognuno ne diventa un differente ricevitore. L’innalzare in sé un’antenna per captarla e ravvivarla come il contrario, ha a che fare con le scelte personali. Essa esiste a prescindere da noi, la nostra condotta condiziona solo la misura e la qualità del goderne. Per riceverla, non ci sono limiti personali dovuti a come è il proprio fisico o la propria mente ma, piuttosto, alle proprie convinzioni. Ovvero, a causa del personale livello di consapevolezza sulla realtà e su cosa vi starebbe dietro. È un personale prendere coscienza della coscienza che essa diventa ulteriormente ricevibile e fruibile.
Questo, come abbiamo già lasciato intendere in precedenza (specialmente nel libro "Vangelo pratico"), è la misura anche di quanto si può accogliere della vera realtà. Cioè, del vero mondo, la vera vita che è quell’unica e universale coscienza. Essendo caratterizzata da totalità e pertanto illimitatezza, essa viene ricercata, anche per mezzo delle modalità trattate, per poter accedere a una fonte inesauribile di quanto egoisticamente si potrebbe desiderare. In altre parole, invece di cercare di integrarvi per assurgere al vero sé che è oltre a questa realtà, riempirsi di quei fattori che possono conseguire un “ingrandirsi” in questo mondo. Come, ad esempio, far fluire verso sé abbondanza di ricchezza materiale, ammirazione o potere sociale.
La dinamica è sempre la medesima e l’invisibile può essere così sfruttato come si potrebbe fare per qualsiasi cosa che si ricerca per trarvi un vantaggio. Per orientarsi, il praticante del Vangelo sa che per lui la prassi da ricercare è solo una: l’amore. E, così, a causa dell’amore verrà facilitata una sorta di desensibilizzazione verso l’ansia di ottenere la soddisfazione dei propri desideri.
Pertanto, è come se il mondo, questa intera realtà, venisse sperimentata piuttosto come palestra per poter così sviluppare i “muscoli” per la personale esperienza che introdurrà al Divino. Traguardo che si raggiungerà con il prendere coscienza di noi e di Dio, che equivale a conoscere la Verità: chi è “io” e chi è ciò che non è “io”.
Nel precedente libro, abbiamo sfruttato, per aiutarci a capire, la metafora in cui l’essere umano in confronto a Dio è come una cellula integrata nel corpo che sta costituendo. A questo punto, è come se la nostra cellula abbia fatto un percorso di consapevolezza di sé da permetterle di vedere come stanno veramente le cose. Ossia che la cellula e l’organismo intero non sono due elementi separati seppure la cellula abbia una propria vita distinta e si veda così indipendente dal resto del corpo. Cellula e corpo sono la stessa cosa, lo stesso essere: un’unica struttura, composta ma pura.
L’incontro con Dio non può avvenire finché si crede Dio qualcosa di separato da noi. Come se fosse altro rispetto a noi, un’altra cosa o un’altra persona che bisogna ricercare oppure richiamare perché altrove. Questa scoperta, allora, non avrà luogo andando da qualche parte o rivoluzionando chissà cosa. Dovrà succedere guardandosi allo specchio.





14/06/23

LA COSCIENZA PRODOTTA O PRODUTTRICE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 44

Qui di seguito il quarantaquattresimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


LA COSCIENZA PRODOTTA O PRODUTTRICE




Nel nostro trattato, abbiamo parlato di coscienza intendendola come il sé osservante. Quella che in percorsi spirituali che fanno più attenzione a un lessico canonico viene forse chiamata “anima”. È chiaro che non si è mai adoperato il termine “coscienza” nel significato dato dal materialismo: un’attività mentale come diretta conseguenza del cervello. Il materialismo fa sorgere ogni cosa dal fisico e se ne studia solo quanto si deduce dalle evidenze materiali. Nel caso della mente, riconosce che ogni pensiero, emozione e sentimento siano un prodotto del lavoro del cervello. E malgrado a tutt’oggi non esistano prove di ciò, sia l’uomo comune che lo scienziato e il medico indugiano spesso ad avere una visione dell’interiorità influenzata da questa supposizione.
Ecco che da questo punto di vista la propria coscienza sarebbe il risultato di attività neuronali, chimiche, oscillazioni elettriche e quant’altro. Così che da questo dipenderebbero lo stato mentale, la personalità e le proprie decisioni. Se ne deduce che per la scienza materialista non esiste il libero arbitrio e la vita di una persona è limitata alla vita del proprio cervello.
Tale approccio scientifico confida che giungerà un giorno in cui verranno rinvenute prove innegabili su queste ipotesi. Per ora, c’è solo la congettura che le attività mentali sembrerebbero essere ospitate nel cervello e conseguentemente le due cose dovrebbero essere anche collegate. È probabile che il cervello permette i pensieri ma non si ha idea di come dovrebbe succedere. Non si conosce neppure come la memoria funzioni e dove dovrebbero essere archiviati i ricordi.
Si è constatato, infatti, ad esempio, che se un individuo subisce un danno nella parte del cervello che si sa coinvolta nel registrare una tipologia di ricordi, egli potrebbe comunque continuare a ricordare quei ricordi quando invece dovrebbe essere logico che ciò non fosse più possibile. Lo stesso vale per altrettante attività cerebrali e per varie tipologie di lesioni e alterazioni. Inoltre, i nostri ricordi sono mantenuti malgrado le cellule del cervello (come quelle del resto del corpo) muoiono e vengono sostituite.
Oggigiorno si è nelle condizioni di riuscire a individuare con esattezza quale area del cervello si attiva quando il paziente sotto osservazione fa un determinato pensiero. Questo dovrebbe portare come ovvia deduzione che l’attivarsi di quell’area permetta l’azione del pensare. Ma come faremmo a esserne veramente certi? Per via delle discrepanze notate fra attività mentale e cervello, potrebbe essere vero anche il contrario. Ovvero che è l’azione del pensare che fa accendere quel punto del cervello.
Questo genere di domande sono poste da quegli scienziati e medici che non accettano di buon grado il continuare ad archiviare come irrisolvibile per le nostre conoscenze attuali tutti quei casi che mostrano un’attività mentale indipendentemente dallo stato del cervello. Infatti, in molti pazienti continuano a venire registrate attività quando, secondo le teorie, a seguito di lesioni o malattie non dovrebbero.
Oltretutto, molti pazienti riferiscono di essere coscienti anche quando il cervello appare disattivato, come in una situazione di coma, infiammazione, malattia o morte apparente. Questo essere presenti spazia da un avere coscienza di quanto accade loro, pure osservandosi da un punto di vista esterno al proprio corpo, fino a vivere vere e proprie esperienze altrove. Quelle che in passato un neurochirurgo giudicava essere dei meri sogni o banali rimescolamenti di attività mentali, oggi non possono che essere tenute in considerazione proprio grazie ai progressi che la neurochirurgia ha fatto tramite l’analisi e la tecnologia adottata. Queste, infatti, mostrando che vi è assenza di attività cerebrale dovrebbero logicamente anche confermare una assenza di attività mentale. Il fatto che ciò non sia così scontato è la prova che non vi è un collegamento tra mente e cervello come ci si aspetterebbe. Di certo, la mente non è una conseguenza del cervello, non è un suo prodotto. Anzi, essa esisterebbe a prescindere dal cervello, ma grazie ad esso, la mente (e la coscienza) può manifestarsi.
Per questa dinamica e per la sua struttura, sarebbe allora appropriato vedere il cervello come atto a ricevere la coscienza, come un’antenna, e renderla trasmissibile, come un decodificatore. Abbiamo finora considerato la propria coscienza come l’unica e universale coscienza; il cervello, quindi, non potrebbe permettere l’esperienza adattandola alla soggettività dell’individuo e ai limiti dello spazio e del tempo di questa dimensione? In effetti, se la coscienza è universale e onnipervasiva, perché possa fare esperienza in una realtà personale e limitata, il cervello ne sarebbe il perfetto filtro. Proprio come fa il rubinetto che regola un flusso altrimenti incontrollato.
Difatti, quando maggiormente è reso latente il cervello, un’esperienza di pura coscienza è possibile. Esperienza che è caratterizzata quindi da assenza di limiti spazio-temporali e conoscitivi. Proprio come liberamente ci si accorge di fare nelle porzioni che ricordiamo dei sogni, nei pensieri in coma, nella serenità della meditazione. Queste esperienze, pertanto, non sarebbero perdita di coscienza, come usualmente vengono considerate, ma il perfetto opposto. Quando si sogna, saremmo i veri noi allo stato puro, senza l’orpello del fisico; anche quello è vivere, seppure su uno stato diverso. Quello che si crede di aver sognato durante un coma, potenzialmente sarebbe una diretta esperienza della coscienza unica e universale che siamo, proprio in misura della disattivazione che si sta in quel momento vivendo del collegamento con il corpo e con il cervello. Cosa che avviene, infatti, anche nei pazienti in cui non sarebbe possibile alcun sogno (alcuna attività mentale) a causa dello stato di salute del cervello. Il cosiddetto coma vigile, addirittura, caratterizzato da una reazione fisica a stimoli esterni, non denota affatto lo stato di coscienza perché, come finora attestato, il corpo (e quindi neppure il cervello) è collegato in modo inscindibile alla coscienza.
Gli neuroscienziati, difatti, sanno che non possono esimersi dal notare che anche una persona che per un certo lasso di tempo non dà cenni di attività cerebrali o è a tutti gli effetti morto, quando poi, eccezionalmente, ritorna a uno stato cosciente racconta che, in realtà, cosciente lo era anche in quel periodo di apparente assenza. La coscienza esiste e persiste indipendentemente da quello che succede al corpo. Così, come si rimane coscienti quando si dorme e quando si è in coma, lo si rimane anche quando si muore. Noi siamo la nostra coscienza, quindi dovremmo precisare che è il corpo a dormire, andare in coma e morire, non noi. Allo stesso modo di quando in alcuni capitoli precedenti si palesava la visione della (nostra) coscienza come esistente sia prima, che durante e pure dopo la persona che siamo in questa realtà.
Allora, la realtà fisica oggettiva è in un modo perché quello è il modo in cui pensiamo che sia, così che essa cambia a seconda di cosa crediamo, oppure i nostri pensieri sono invece condizionati dall’ambiente che ci circonda? A queste osservazioni, gli scienziati che non si vogliono fermare alle spiegazioni materialistiche ne propongono una ipotesi opposta. Che è la coscienza ad animare il cervello e quindi anche la persona e non viceversa. Tramite i propri pensieri, l’uomo definisce il mondo e lo arricchisce di significati, non sarebbe il mondo a condizionarlo. La coscienza finirebbe per parassitare il corpo creando una simbiosi perfetta che rende possibile l’esperienza in questa realtà. Il cervello fungerebbe come ponte di unione tra la coscienza infinita e un mondo finito decodificando e traducendo due linguaggi altrimenti inconciliabili.
Quindi, la coscienza sarebbe davvero indipendente dal cervello e dalle attività mentali? Per capire meglio, il cervello può essere paragonato all’antenna ricevente di un televisore. La coscienza è il segnale che porta la trasmissione ed esiste anche se il televisore è spento, funziona male o non dovesse avere un’antenna. Inoltre, il segnale è unico e universale per tutti i televisori, proprio come è la coscienza: benché possa essere ricevuto da innumerevoli televisori, non è che esisterebbero realmente tante trasmissioni quanti sono i televisori. Sono le antenne a permettere che il segnale venga incanalato e il televisore a decodificarlo. Dopodiché, la trasmissione avrà luogo in modalità e contesti ogni volta unici.
A questo punto, tuttavia, ci accorgiamo che non dobbiamo cedere alla tentazione di considerare che il televisore sia un involucro spento senza trasmissione. Proprio come poco sopra si arrivava a dedurre la mente come creatrice della realtà. Pure il televisore, infatti, esisterebbe indipendentemente dalla capacità o meno di decodificare e trasmettere il segnale. Ovvero, l’essere umano esiste anche quando impedisce alla coscienza di prendere spazio dentro di sé. Proprio come si è affermato che il contrario, cioè l’arrendersi alla coscienza universale, non impedisce all’essere umano di vivere da essere umano come chiunque altro. Uno può esistere come un “televisore” sbiadito e l’altro come sgargiante e in alta definizione. Tant’è che in tutti i capitoli si è ripetuto che quello che possiamo fare al massimo come esseri umani è (per utilizzare lo stesso esempio) diventare televisori che permettono una perfetta trasmissione. Questo è il servizio più alto che possiamo fare alla coscienza, a Dio.



07/06/23

L’INDEFINIBILE CHE STA DIETRO AL DEFINITO - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 43

Qui di seguito il quarantatreesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


L’INDEFINIBILE CHE STA DIETRO AL DEFINITO




Indicare la realtà materica come “un’illusione” rispetto alla realtà vera che vi sta dietro, non significa che la si debba considerare inesistente. Non è come un miraggio, essa ospita il mondo e vi costruiamo la concreta esperienza della vita umana. Essa può essere trattata come un’illusione, piuttosto, se la si carica di significati e desideri che spingono lontani dalla sua vera opportunità: oltrepassarla con la certezza che permetta il contatto con la vera realtà, che è Dio.
È reale al pari dell’ombra di un oggetto, ha valore farne esperienza perché essa è la prova che l’oggetto è concreto e consistente di fronte a noi. L’aspirante alla perfezione spirituale (per usare un’espressione sintetica del Vangelo), se sarà coerente con il percorso proposto, giungerà prima o poi ad accorgersi che concentrarsi sulla realtà materica è come volere acchiappare un oggetto cercando di afferrarne l’ombra. La rivoluzione della coscienza è nel rendersi conto che finora ci si era focalizzati sull’ombra e non sull’oggetto concreto che proietta quell’ombra.
Quella che di solito indichiamo come realtà materica, qui viene apostrofata come la mera ombra di qualcosa: un’ombra, per i sensi del nostro corpo, è addirittura intangibile. La confusione viene evitata se si ricorda che l’obiettivo non è uno spostarsi in un luogo piuttosto che in un altro, come a dire entrare nella vera realtà e girare le spalle a un’altra. Entrambe sono reali ma in due stati diversi, non è neppure importante indicare definizioni e differenze perché la fusione in Dio, il riconoscersi pura coscienza che è l’unica, non prevede uno sconvolgimento radicale. Il devoto, in altri termini, continuerà la sua vita di sempre, a cambiare sarà la cognizione che ha della realtà. Perché egli è certo che il suo sé e il Sé supremo assoluto sono il medesimo; egli, come persona che guardava al mondo materiale e a quello spirituale senza riuscirsi a convincere se esistessero entrambi e quale fosse il vero, semplicemente non esiste più. L’essere umano stesso è la prova della complicità di entrambe le realtà, come l’oggetto e la sua ombra che in verità è sempre l’oggetto medesimo.
Già si era usata questa metafora per invitare a guardare e rivolgere la propria attenzione all’oggetto concreto, invece che alla sua ombra (il suo simulacro). A questo punto, si nota che in verità non esisterebbe neppure la persona che guarda poiché anch’essa è quell’oggetto con l’ombra proiettata. Difatti, le persone sono sia spirituali che materiali, tanto possono fare esperienza su un piano più sottile di quello di tutti i giorni come possono influenzare e creare nel mondo a causa delle loro azioni. Questo è il vero senso della fusione con Dio, come nell’intrico dei componenti del corpo umano sarebbe impossibile indicare precisamente dove termina un organo e ne inizia un altro. La fusione, ripetiamo, non sarebbe allora in un fondersi nello spirituale e disdegnare il materiale o un concentrarsi sul soprannaturale perdendosi ciò che è naturale. Come si è intuito, fenomeni straordinari fanno parte sempre della stessa realtà; indagare le vite passate eventuali, tentare viaggi astrali, comunicare con entità extracorporee, ecc. sono ugualmente azioni che riguardano la superficie, mostrando l’ombra e non l’oggetto che la proietta.
Questi fenomeni, bisogna ammettere, vengono appunto ricercati per potersi migliorare, che è una cosa positiva; ma migliorarsi rispetto a cosa o a chi? Vi si può rispondere se possiamo indicare qualcun altro oltre a noi per essere in grado di fare un confronto: ma come è possibile se abbiamo scoperto che tutto è unità? Inoltre, la domanda sottende che si stia giudicando per desiderare infine di essere meglio di come si è o di come sarebbero gli altri. Più potente, ricco, sensitivo grazie a pratiche mirate sta comunque a significare di volere di più, ha a che fare con l’avere e non l’essere. Con l’ingrandirsi.
Spesso anche gruppi spirituali di preghiera e di studio che nascono in seno alle religioni canoniche nascondono la vecchia scuola sotto a un manto di modernità e attitudine pratica alla fede. Ovvero, un promettente approfondimento mistico che permette al fedele di fare esperienza oltre gli approcci più superficiali e ritualistici della religione, che però viene condotto al consueto praticare per ottenere un tornaconto. Anche se questo possa essere la felicità, una guarigione o la comprensione, si tratta comunque di un praticare per soddisfare esigenze riguardanti i propri desideri.
Quindi, è nell’equilibrio fra le parti che si instaura il controllo, la pace e di conseguenza la sicurezza. Una persona spirituale non è qualcuno che si è slegato dalla materialità (cioè l’opposto della spiritualità) perché è consapevole che materia e spirito sono entrambe le facce della stessa medaglia. Sa che il materiale fa udire l’eco dello spirituale, così che ogni cosa non è da perdere ed è da amare. Se invece rifiutasse qualcosa che avviene giudicandola troppo banale perché non parla di cose profonde o volgare perché fisica, mancherebbe di esperirne la parte divina.
Non vuol dire neppure che il fedele si distrarrebbe davanti a ogni cosa, perché rimane focalizzato su ciò che vi starebbe dietro, sulla parte che non ha una forma seppure appare con una forma. È probabile che sia per questo motivo che un eremita, per approfondire la propria coscienza di Dio, trascorre molto tempo a lavorare; non pratica solo occupazioni elevate e filosofiche, anche manuali e faticose.
Il praticante del Vangelo è sicuro della costante presenza di Dio proprio in misura della fusione. Così, malgrado le esperienze affrontate nella vita, d’ora in avanti egli vivrà adducendo la presenza dell’Assoluto in ogni cosa che fa e in ogni incontro che ha. E ciò è la diretta conseguenza del considerare la realtà nella sua interezza, nella sua vera natura. Se nella realtà materica, nella sua forma, egli è un uomo come un altro, che vive le vicende felici e tristi di chiunque, non perderà mai, in realtà, la felicità. Perché la sua felicità è a prescindere: essa è presente costantemente dietro la forma. Come potrebbe vivere senza amore se, in verità, dietro la persona c’è solo amore?
Allora egli non potrà effettivamente perdere la propria gioia e la pace perché la sua gioia, la sua pace provengono da oltre le forme, oltre i condizionamenti (la realtà dove ci sono forme e fenomeni); sarebbe come dire che egli smettesse di avere la vita, smarrisse la propria divinità. Pertanto, è giusto vedere che non si può perdere la presenza di Dio, mai più dopo averla avvertita, indipendentemente da quello che si vivrà nel corso della vita; come non si perderà la propria vita (la propria immortalità) anche se si dovesse morire. Perché non sono cose che si hanno, ma le si è.
Ecco che quando ci accorgiamo che qualsiasi cosa possiamo giungere a vivere nel mondo, attraverso l’impegno personale o la casualità, con coraggiosi e continui cambiamenti o scegliendo la comodità, nulla potrà mai portarci a una felicità piena, indistruttibile (perché appunto condizionata da fattori esterni), ci accorgiamo pure che deve esserci per forza qualcosa oltre. Qualcosa che non cambia con il tempo, come più volte notato, che è oltre il tempo e qualsiasi condizionamento. E, paradossalmente, proprio perché immutabile può mutare chi se ne accorge e decide di ospitarlo. Ci si ferma a osservare cosa c’è dietro alle forme e ai nomi e così, quando si osserva anche se stessi, si scorge che non ci siamo, non esistiamo. Perché se leviamo le forme, l’osservatore non è più chi credeva di essere: è egli stesso assenza di forme che sorregge la presenza delle forme; c’è solo quello. Quindi, se noi, per il desiderio di prendere coscienza di Dio, ci impegniamo a concentrarci su chi veramente e nel profondo sta osservando oltre le forme, scopriremo l’assenza di forme e fenomeni. In quanto anche ciò che si vuole ricercare (Dio), il ricercatore e la sua ricerca sono delle forme e ciò che si troverà nel profondo di ciascuno di noi è la vera realtà, il vero Dio al di là delle idee, delle forme e dei nomi che Gli diamo. Di nuovo la prova che è la materia, l’esperienza terrena e l’essere uomini la strada ideale per giungere all’opposto, alla nostra matrice.
L’essere immortali permette di riconoscere all’esperienza scandita dallo scorrere del tempo una profonda importanza. Indurrà a scelte che principalmente hanno a che fare con le proprie passioni, i talenti, la scoperta degli aspetti più profondi e divini che si possono godere come esseri umani. In pratica, un amare con purezza e passione ogni cosa perché consapevoli che la presenza propria e di ogni cosa è la presenza di Dio. Invece, il convincersi che la vita è una parentesi costituita da poche manciate di anni porterà a vivere con l’ansia che il tempo non sia mai abbastanza. Pertanto, sarà un continuo cercare di avere di più, di ingrandirsi, sia nell’esistenza scandita da continui cambiamenti che in quella dove si ricerca la stabilità. Ciò non faciliterà l’individuare lo scopo della vita che abbiamo captato essere il realizzare chi si cela nel proprio sé. Ma neppure avverrà vivendo senza mai pensare alla morte come se si credesse che non si dovesse mai morire, per quanto persone con una propria personalità e un proprio corpo.
Oltretutto, deve cominciare a diventare evidente che la meta del viaggio, lo scopo della vita, ciò che si troverà dall’altra parte o, come ci siamo divertititi a inventare, il tesoro alla fine della mappa, è sostanzialmente indescrivibile. Comporta un radicale cambio sull’essere coscienti a proposito di sé e della realtà ma non permette di poterne parlare chiaramente. Perché se lo si facesse, allora si ricorrerebbe a delle forme, cioè a delle immagini, delle idee, delle credenze, dei nomi. Lo si farebbe diventare ancora qualcosa che non è, che sta all’interno della mappa (solamente della realtà materica). Si è colto che Dio è dietro a tutte le forme, ma non è descrivibile riferendo di una forma piuttosto che di un’altra o della loro totalità. Dare una descrizione o una definizione sarebbe giudicare: per farlo bisognerebbe usare qualcosa di riconoscibile, ovvero forme e nomi. Non si può spiegare così qualcosa che non ne avrebbe; anche il termine Dio è una parola piena di significati che utilizziamo per capirci e avanzare nel testo ma rischiando di confonderci.
Ciò che sta dietro alla superficie, allora, anche dietro al proprio corpo, mente e personalità è qualcosa che può essere solo vissuto, sperimentato a causa, appunto, del cambio di coscienza che porterà a un cambio nel leggere la realtà e così pure nel decidere come essere e come vivere.
Di tale dinamica, una prova della sua veridicità e realizzazione è rilevabile nelle conseguenze che vengono portate nella vita di chi l’affronta. Esse sono una rinnovata consapevolezza aperta alla realtà e a se stessi che impone gioia e serenità complete e svincolate da qualsiasi condizionamento. Proprio come annunciato e garantito fin dal primo passo.
Il primo passo, il più delle volte la persona lo muove perché spinta da un sospetto, una intuizione. Non è più come in passato che l’invito alla profondità, al rinnovo e magari anche all’ascetismo poteva venire promosso da istituzioni e maestri. Oggi, si deve ammettere quanto piuttosto si viva stimolati a uno sforzarsi a creare su un piano dell’avere, del possesso e del fisico. Così che anche un atteggiamento spirituale venga proposto come acquisizione di qualcosa in luogo di un “essere”.
Così, l’adepto alla purificazione dovrà avanzare in solitudine, smarcando l’attaccamento a dottrine che offrono qualcosa. Egli dovrebbe scegliere con discernimento da sé le tracce lasciate dai predecessori, da chi prima di lui ha raggiunto il tesoro.
Se una dottrina ha da offrirti qualcosa, infatti, vorrebbe dire che garantisce di poter dare qualcosa. Evidentemente un qualcosa che non si ha: come fidarsi di chi promette che ti farà ottenere qualcosa che, in verità, si è scoperto, abbiamo già? Come poter presentare l’uomo come assoluto, perché spirituale, e anche insegnare che ha bisogno di altro come se gli mancasse qualcosa? Sarebbe un far credere che lo spirito sia limitato, circoscritto, come se ci si confondesse considerandolo come il corpo.
Un maestro sincero e idoneo ad accompagnare nel viaggio presentato in questo libro è riconoscibile sicuramente quando dimostra di non riversare la sua preoccupazione nelle sofferenze che si subiscono o nella caducità delle situazioni gioiose. Neppure nella morte e nel concentrarsi nell’eventuale ciclicità invincibile di continue reincarnazioni. Perché illusioni.
L’unica preoccupazione è nel trovare il modo di avere la vera visione della realtà e su come poterla mostrare agli altri.