È necessario soffermarsi ulteriormente sull’analisi dell’espressione: essere servi di Dio. Una difficoltà di comprensione può essere dovuta a un’abitudine a interpretare attraverso chiavi di lettura sociali ed economiche. Le quali porterebbero a immaginare una sorta di sudditanza e classismo.
Non è in questi termini che può essere trattata, sarebbe come definire una parte del mio corpo, come i polmoni, schiavi del mio corpo perché la loro esistenza è a suo beneficio. Non è così: per il loro essere polmoni, essi permettono la vita della totalità del corpo nel quale sono inglobati, ma, per questa stessa caratteristica essi sono il corpo. E tale dinamica è percepibile anche tra l’essere umano e Dio dopo che si è cominciato a contemplare lo stato di unione.
Così, proprio come si è delineato Dio, pure ciascuno di noi, a causa di questo stato di unione, può considerarsi inglobato in tutto: è il tutto. Pertanto, non solo non ha senso classificare delle differenze tra i singoli, ma anche considerare il creato come proprietà. Il creato è stato dato da Dio, ma l’uomo ne è immerso come lo è in Dio poiché tutto è Dio. Infatti, ogni problema in questo mondo parte dalla presunzione di istituire proprietà. Dai problemi personali, che si muovono all’interno di desideri da appagare espressi in oggetti, sentimenti e persone da possedere; fino a quelli comunitari che arrivano addirittura a far muovere nazioni in guerra contro altre.
L’avidità di fondo è anche spiegabile in una conseguente paura di avere meno degli altri. Che si traduce nel rischio di finire prevaricati perché le altre persone (o le altre nazioni) avrebbero di più e quindi sarebbero, per questo, a un livello tale da poter dominare. Nuovamente è sbandierata la paura della morte che si esorcizzerebbe in una sorta di difesa da essa tramite un possedere più cose (sia materiali che astratte). Un’equazione che porta a credere che l’essere si determina dall’avere: l’investire maggiormente nella realtà materiale invece che in quella spirituale come già presentato.
Pure un animale, non appena percepisce l’approssimarsi della morte, cade nel panico. L’uomo, anche nel suo piccolo, vive questo panico proprio non guardando in faccia a nulla e a nessuno. E tale mancanza di riguardo si trasforma in un tendere a possedere più di quel che serve e, ancor peggio, più di quel che personalmente si potrebbe permettere. Questi gesti disperati portano a un porsi in situazioni di assoggettamento a favore di chi fornisce i beni desiderati e i soldi per poterseli accaparrare.
Allora, ci viene rivelata che anche nel caso di chi non capta l’unione con Dio (vivendo il mettersi al Suo servizio), vivrebbe in uno stato di servitù. La quale, non è verso l’invisibile ma la realtà materiale: servendo attraverso una vita che segue il commercio e la materialità le si permetterebbe lo sviluppo. Difatti, più si ha e più ci si sente inglobati (e implicati) in essa, proprio come altrove, in modo contrario, si descriveva lo stato divino di grazia.
Al di là delle mere prassi psicologiche e commerciali, può esserci la stessa dinamica in qualsiasi contesto che si attiva in modo dispotico contro le persone. Come succede nel gruppo riunito attorno a una comune tifoseria sportiva, un ideale o un leader politico, ecc. Esattamente come profetizzava nel XX secolo il reverendo Adolf Keller analizzando l’inaspettata deificazione dello stato totalitario che avveniva da parte del popolo, il quale, in realtà, ne diventava dipendente e sottomesso.
Ci si ritrova a servizio della realtà materiale a seguito di azioni contrarie a quelle che faciliterebbero il ricordarsi del proprio essere spirituali fin qui descritte. Quindi, un perdere la memoria (coscienza) di sé e immedesimarsi in ciò che si percepisce con i sensi. Ciononostante, si deve rammentare che per favorire la realtà materiale così organizzata e quindi essere suoi eccellenti servitori, si deve lasciarsi da essa sempre più condizionare. Di conseguenza, il suo abitante deve inseguire modelli esterni a sé proprio come quando si spiegava di realizzare invece il vero sé per conoscere la realtà spirituale. L’epilogo, pertanto, sarà che anche per alimentare compiutamente la realtà materiale e in essa eccellere, le persone devono perdere se stesse: non ciò di cui sono state indotte a identificarsi, ma ciò che si è veramente, nell’essenza.
La realtà materiale e spirituale, in definitiva, sono due facce della stessa medaglia. Esse si possono sperimentare nelle medesime modalità ma compiute vicendevolmente al contrario, e questo permetterebbe di conoscerle entrambe. Tant’è che quando si vivono considerandole ugualmente necessarie vi si scorge il beneficio. Ad esempio, che è grazie alla realtà materiale che l’uomo può ricordarsi di quella spirituale. E anche accorgersi della fallibilità che si vive nella realtà materiale, non è un dato negativo, come una punizione, ma l’espediente migliore per poter vedere la infallibilità della realtà spirituale. E quando si coglie ciò, allora si può vivere la realtà materiale senza lasciarsi vincere dallo sconforto ma scorgendo in ogni cosa, anche nella sofferenza, un motivo di bellezza e ascesi.
Nella realtà materiale, tutto risponde a regole di causa ed effetto, ogni cosa segue una precisa logica. E la logica, allora, non porta in maniera assoluta al benessere, alla pace, alla felicità. È per via della logica, infatti, che le persone depauperano le risorse a disposizione sentendosi giustificate a utilizzare a loro piacimento il creato. Seppure così fanno tutti, non è detto che sia il vero modo di vivere, il regime più giusto. Sarebbe come se si desse per scontato di essere i proprietari del mondo, malgrado nessuno lo abbia mai dichiarato. Nell’illogicità della realtà spirituale, invece è nell’assenza di proprietà e nel donare che ci si arricchisce.
Si può delineare che l’avidità così presentata comporta un’alterazione di un equilibrio. Il desiderio di prevaricare spinge ad appropriarsi di beni e risorse squilibrando così l’armonia che di base manteneva già la pace e la serenità che invece si vorrebbe trovare facendo così. La realtà materiale non è innanzitutto l’artificialità creata dall’uomo, ma la natura che già vi dimorava. Ed essa ha delle regole precise come un qualsiasi ambiente, stato, contesto. Violare tali leggi altera l’intero sistema dell’universo.
Anche la realtà materiale, infatti, è manifestazione di Dio. Se quella spirituale ne è la vera realtà, quella materiale è comunque un prodotto dell’energia divina. Quindi, come vediamo, non può essere l’uomo a considerarsi il proprietario. La realtà materiale, piuttosto, permette la possibilità di credersi proprietari e dominatori per così favorire la comprensione della verità: che è reale il contrario. Anche l’essere umano, difatti, è un prodotto della potenza divina.
Il fraintendere la lettura della realtà (un essere indotti a peccare di superbia, si potrebbe dire in termini religiosi) è la formula ideale per riprendersi e ricordarsi della vera realtà. Probabilmente, è l’unico modo che esista per poterlo capire: non si deve, infatti, svalutare o discriminare l’esperienza materiale. Il rendersi conto dovrebbe indurre a vivere entrambe le realtà con equilibrio e senza equivocare la materialità.
Un uomo che ha fede finisce per avere sempre meno interesse nei confronti della proprietà. Nel senso che sa che non è lui il proprietario: laddove non si ha fede, c’è l’imperativo del possedere. Il quale, abbiamo già indicato essere il motore della prevaricazione sugli altri: in un mondo senza pace non può che esserci guerra. La pace totale potrà esserci solo nella consapevolezza che il vero benefattore di tutto è Dio. Ed Egli, infatti, fornisce l’ideale necessario per lo sviluppo della vita.
Il fedele, per questo motivo, loda il Padre, Lo ringrazia e conferma il proprio mettersi al Suo servizio. Non solo sa che non gli mancherà nulla, ma è certo che così facendo non sta lodando e ringraziando un estraneo, una persona esterna a sé. Perché Dio è tutto e quindi è come se stesse lodando se stesso e dichiarando di accordarsi al resto del creato. Il fedele non deve, infatti, avere riguardo di approcciarsi al divino, perché il divino è già dentro di lui. Non deve attendere nulla di esterno da sé, come quando si inviano documenti a un ufficio statale e si rimane in attesa di un’eventuale risposta. L’uomo è già la risposta alle domande che si potrebbe porre. È sufficiente vivere.
Anche i concetti di “interno” ed “esterno” non hanno senso in questo contesto. Perché Dio è assoluto, non è interno o esterno, cioè da qualche parte. In questa realtà, si è indotti a credere nel relativo e quindi a non accettare l’assoluto. Come abbiamo imparato dai capitoli precedenti, è nel credere nel tempo che si può lasciare spazio a ragionamenti relativi. Oltrepassando l’idea di tempo, si trova solo e ovunque l’assoluto.