28/02/23

FILM CIECO

Dal 2016, per due anni, io e il videomaker Michele Spagnolo abbiamo lavorato alla realizzazione di un cortometraggio. La preparazione è stata lunga non solo per raccogliere i fondi e l’attrezzatura adeguata, anche per strutturare il progetto in modo tale che si sviluppasse come un intimo viaggio che gli autori e gli attori avrebbero percorso senza prevederne il risultato globale. 

Evidentemente, questo affrontare la propria parte interiore ci ha portati più lontani di quanto avremmo sospettato. Si crearono, infatti, degli inaspettati intrecci fino a veri e propri contrasti con il protagonista (un personaggio eclettico attorno al quale tutto il film ruotava) dovuti con tutta probabilità al mettere in condivisione i nostri mondi interni. Addirittura, l’ultimo giorno di riprese si concluse con una reciproca prevaricazione che stremò tutti, da ogni punto di vista. Quella giornata sancì sicuramente la fine del progetto, che emozionò a tal punto che solo oggi, dopo anni, lo riusciamo a fronteggiare.

“Film cieco” vuole essere la proposta del materiale realizzato durante la lavorazione del cortometraggio rielaborato per una mostra d’arte. Le immagini presentate saranno veicolo di impressioni che solo con il tempo sono state intuite. Inoltre, ogni quadro, foto e video esposti non mostreranno mai chiaramente il volto del protagonista del film. Questo è per adeguarci alla diffida che l’attore ci inviò per farci togliere qualsiasi riferimento a lui nel materiale fino allora raccolto. Dettaglio che da svantaggio non può che aprire a nuove variazioni interpretative; oltre a farci capire che la trasformazione del film in qualcos’altro si mantiene in atto e non presenta ancora “i titoli di coda”.

L’intuizione generale è di certo l’indurci a non credere a elementi fissi e prestabiliti, neppure quando possano sembrare indispensabili come nella lavorazione di un film.



FILM CIECO

in mostra dal

4/3/23 al 12/3/23

presso la galleria PAB

via dei Molini, 1

Portogruaro (Venezia)

https://www.facebook.com/puntoartebenandante


inaugurazione:

4/3/23 ore 18:00




22/02/23

ACCEDERE ALLA VERA REALTA’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 28

Qui di seguito il ventottesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


ACCEDERE ALLA VERA REALTA’




Come stiamo scorgendo da più angolazioni, è la dimenticanza che siamo un qualcosa come un’anima e che questa ha ovviamente un’origine divina, la fonte della sofferenza. Non è la sofferenza in sé, il male, a costringerci in un’esistenza caduca e segnata da limiti. Lo è il non ricordare il nostro vero essere e così vivere il proprio profondo e reale sé; tramite il preoccuparci della materialità e il voler soddisfare desideri e obiettivi che ci si convince che bisogna a tutti i costi soddisfare per essere felici. E, così facendo, ci si forgia da soli le catene che ci legano alla realtà materiale mantenendo obnubilata la “memoria” della verità.
Allora, il male non è in realtà negativo perché partecipa come tutto quello che succede nella realtà oggettiva in una sublimale rete di eventi atta a portarci a ricordare chi siamo veramente. Se ci fosse la possibilità di ascoltare, ad esempio direttamente dalla fonte della Verità, da Dio, chi siamo a tutti gli effetti e la spiegazione su ogni cosa, evidentemente non la comprenderemmo appieno perché non viene vissuta, sentita, ma solo elaborata come un concetto. Così, è come se tutto quello che accade nel mondo avvenisse per indurci a prendere effettivamente coscienza di chi siamo e come la realtà è per davvero. Superficialmente, ciò che capita nella vita è un evento come qualsiasi altro, ma nascostamente pungola a farci ricordare chi siamo. E più avvengono esperienze negative e maggiormente è come se ci venisse in modo velato ribadito che la Verità vi sta dietro. La sofferenza, il male, può essere visto come uno sprone che serve a risvegliarci e scuoterci dal torpore che ci mantiene focalizzati verso il basso.
Anche il male che nella teologia di tutte le religioni e nello spiritismo è individuato in presenze extracorporee, non è veramente da giudicare come “male”. I “daimones”, le entità a metà strada tra il cielo e gli uomini, pure nell’accezione cristiana di “demoni” che prende a significare la potenza satanica, sono nulla di più che un mero strumento per risvegliarci. Già si era individuata (nel libro precedente, il Vangelo Pratico) la natura di subalternità del male nei confronti del bene (come qualsiasi altro fattore nell’universo) e successivamente quanto esso può essere utilizzato dalla Divinità stessa per i propri fini. Qui, ci si accorge inoltre che i daimones e/o i demoni se veramente inducono al male oppure comportano sofferenza lo è per portare l’uomo ad aprire gli occhi. A seconda del punto di vista, essi possono allora perdere una chiara definizione di presenze positive o negative, tanto che nella Storia vengono variamente giudicate e ricercate. La nostra analisi serve solo per accorgerci che tutto ruota attorno all’intento di ricordarci chi siamo effettivamente; neppure avrebbe senso votarsi a un demone per ricevere aiuti materiali e spirituali dato che il suo scopo sarebbe solo quello di rafforzare maggiormente quelle catene alla materialità (per il nostro percorso di consapevolezza). E questa sorta di incatenamento è davvero un aiuto perché più si sprofonda nella realtà materiale e maggiormente si toccherà il punto dal quale si vorrà con tutte le forze liberarsene.
Più la vita nella realtà materiale è colpita da insoddisfazioni e problemi, maggiori, tramite essi, saranno le difficoltà che alimenteranno un’occasione di realizzazione. Queste difficoltà saranno proprio finalizzate a fungere da spinta verso l’alto. Il focalizzarsi che non può esservi alcunché di divino nel male porta a credere che gli eventi che personalmente non vediamo a favore dei nostri piaceri e desideri siano giudicati negativi e contrari al bene. Si può arrivare così a convincersi di vivere in una realtà che non sia globalmente positiva o divina e, addirittura, che Dio sia scartato dal male poiché quest’ultimo riuscirebbe a vincere sull’uomo e il mondo. La conseguenza peggiore, pertanto, sarà un immaginare la struttura della realtà come unica e nella quale l’essere umano è vittima di forze esterne (il male). E, inoltre, egli non avrebbe alcuna responsabilità perché alla mercé di due forze in perenne conflitto: il bene e il male, Dio e Satana.
Non esiste abbaglio più grande dal considerare il bene e il male sullo stesso piano o equivalenti. Proprio come porta lontano dalla chiarezza il vedere l’universo come un infinito contrasto fra due elementi opposti. L’uomo è eterno, quindi esiste da sempre: l’essere umano sta già vivendo la vita eterna, se no non sarebbe eterna. Quindi, non vive veramente in una realtà dove ci sono guerre fra poli opposti, lo sta solo sperimentando in questa parentesi terrena. La quale serve, grazie appunto alle sue contraddizioni, a fare accorgere della vera realtà. La vera realtà è divina e quindi senza forma e con il potere di prendere tutte le forme. Anche quella di una realtà temporanea e transitoria, infine.
La materialità può venir ascoltata come un alleato che spiega chi veramente siamo e cosa serba per noi questa esperienza terrena. L’esperienza terrena non è assoluta, ma condizionata da innumerevoli elementi che la differenziano e rendono particolare: è relativa. Per volgerla verso l’assoluto, bisogna impegnarsi in un percorso di consapevolezza. Il quale porta a prendere coscienza di sé e della realtà (di Dio): a poco a poco si prende l’abitudine di osservare e pensare al di fuori degli elementi che relativizzano. Ovvero, innanzitutto, il tempo: la verità, l’assoluto è già qui, anche in questa esperienza, ma senza il dovuto impegno non procediamo verso un’evoluzione che ci permetterebbe di intercettarlo.
Si può ribadire che Dio è concretamente ovunque, addirittura percepibile in ogni cosa percepibile. Ma si rivelerebbe solo se si sono preparati i propri sensi a recepirlo. Anche se si fantasticasse che Egli comparisse di fronte a una folla, non sarebbe visibile se non ci si è predisposti.
Così, laddove avvengono delle indicazioni su dove trovare Dio oppure quando maestri mostrano quale sarebbe la Verità, si sarebbe in realtà al cospetto di imbroglioni. Magari anche in buona fede, i quali, per ignoranza, pensano che Dio, essendo onnipresente, sia individuabile da chiunque, come un qualsiasi oggetto osservabile. E bisogna segnalare pure che esiste un vero e proprio mercato dove si vende la possibilità di fare esperienza di Dio.
Invece, l’Assoluto non è al pari di una località nella quale ci si può andare semplicemente acquistando un biglietto. Infatti, neppure alla presenza di Gesù, molti si rendevano conto di chi avessero davvero di fronte: per loro era un uomo come qualunque altro.
Se la Verità è assoluta, è libera da qualsiasi limitazione e condizione, pertanto è corretto affermare che essa non è trasmissibile. Perlomeno in modo diretto e maneggiabile, neanche Cristo la trattava così. Perché se fosse così, sarebbe duttile, malleabile, passibile di interpretazioni soggettive. Ognuno invece la deve trovare: unica e indiscutibile. E ciò è possibile solo dentro di sé, senza cioè portarla fuori, al giudizio. Questo è il significato di “essere la Verità”: essa non è qualcosa di presente oppure no, non c’è al di fuori dell’essere (non può esserci separatamente dall’essere).
Attraverso il ragionamento mentale non si può conquistare la Verità perché, per pensarla, dovrebbe vincolarsi a qualcosa: contrapporsi a un suo probabile opposto. Così Dio non può essere visto se si arriva a credere che esiste e può essere visto. Lo permetterebbe solo la fede, non la comprensione, ovvero un profondo desiderio di vederLo. E questo incontro non potrà avvenire allora per speculazione filosofica o per fini egoistici: solo attraverso il desiderio amorevole, come quello che si ha verso l’oggetto amato. Questo incontro sarà possibile, pertanto, quando si tende a creare le condizioni ideali perché possa succedere. Le quali sono appunto connesse alla ricerca di servire il Padre, come descritto nel capitolo precedente. ServirLo, appunto, per permetterne la realizzazione.
Allora, la ricerca della Verità può partire anche dal mero studio intellettuale e poi dall’aspirazione di sfruttarne la conoscenza a proprio vantaggio. Ma bisogna mettersi al suo servizio perché essa possa effettivamente realizzarsi in noi. Senza, inoltre, affiancarne commenti e giudizi dovuti da come personalmente si crede debbano essere interpretati gli eventi. Questo mettersi a servizio è amore; il quale può definirsi addirittura disinteressato per una mancanza di controllo sugli esiti degli eventi che da qui in avanti si vivranno.



15/02/23

SI E’ SEMPRE AL SERVIZIO, MA SI PUO’ SCEGLIERE DI CHI - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 27

Qui di seguito il ventisettesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.



SI E’ SEMPRE AL SERVIZIO, MA SI PUO’ SCEGLIERE DI CHI




È necessario soffermarsi ulteriormente sull’analisi dell’espressione: essere servi di Dio. Una difficoltà di comprensione può essere dovuta a un’abitudine a interpretare attraverso chiavi di lettura sociali ed economiche. Le quali porterebbero a immaginare una sorta di sudditanza e classismo.
Non è in questi termini che può essere trattata, sarebbe come definire una parte del mio corpo, come i polmoni, schiavi del mio corpo perché la loro esistenza è a suo beneficio. Non è così: per il loro essere polmoni, essi permettono la vita della totalità del corpo nel quale sono inglobati, ma, per questa stessa caratteristica essi sono il corpo. E tale dinamica è percepibile anche tra l’essere umano e Dio dopo che si è cominciato a contemplare lo stato di unione.
Così, proprio come si è delineato Dio, pure ciascuno di noi, a causa di questo stato di unione, può considerarsi inglobato in tutto: è il tutto. Pertanto, non solo non ha senso classificare delle differenze tra i singoli, ma anche considerare il creato come proprietà. Il creato è stato dato da Dio, ma l’uomo ne è immerso come lo è in Dio poiché tutto è Dio. Infatti, ogni problema in questo mondo parte dalla presunzione di istituire proprietà. Dai problemi personali, che si muovono all’interno di desideri da appagare espressi in oggetti, sentimenti e persone da possedere; fino a quelli comunitari che arrivano addirittura a far muovere nazioni in guerra contro altre.
L’avidità di fondo è anche spiegabile in una conseguente paura di avere meno degli altri. Che si traduce nel rischio di finire prevaricati perché le altre persone (o le altre nazioni) avrebbero di più e quindi sarebbero, per questo, a un livello tale da poter dominare. Nuovamente è sbandierata la paura della morte che si esorcizzerebbe in una sorta di difesa da essa tramite un possedere più cose (sia materiali che astratte). Un’equazione che porta a credere che l’essere si determina dall’avere: l’investire maggiormente nella realtà materiale invece che in quella spirituale come già presentato.
Pure un animale, non appena percepisce l’approssimarsi della morte, cade nel panico. L’uomo, anche nel suo piccolo, vive questo panico proprio non guardando in faccia a nulla e a nessuno. E tale mancanza di riguardo si trasforma in un tendere a possedere più di quel che serve e, ancor peggio, più di quel che personalmente si potrebbe permettere. Questi gesti disperati portano a un porsi in situazioni di assoggettamento a favore di chi fornisce i beni desiderati e i soldi per poterseli accaparrare.
Allora, ci viene rivelata che anche nel caso di chi non capta l’unione con Dio (vivendo il mettersi al Suo servizio), vivrebbe in uno stato di servitù. La quale, non è verso l’invisibile ma la realtà materiale: servendo attraverso una vita che segue il commercio e la materialità le si permetterebbe lo sviluppo. Difatti, più si ha e più ci si sente inglobati (e implicati) in essa, proprio come altrove, in modo contrario, si descriveva lo stato divino di grazia.
Al di là delle mere prassi psicologiche e commerciali, può esserci la stessa dinamica in qualsiasi contesto che si attiva in modo dispotico contro le persone. Come succede nel gruppo riunito attorno a una comune tifoseria sportiva, un ideale o un leader politico, ecc. Esattamente come profetizzava nel XX secolo il reverendo Adolf Keller analizzando l’inaspettata deificazione dello stato totalitario che avveniva da parte del popolo, il quale, in realtà, ne diventava dipendente e sottomesso.
Ci si ritrova a servizio della realtà materiale a seguito di azioni contrarie a quelle che faciliterebbero il ricordarsi del proprio essere spirituali fin qui descritte. Quindi, un perdere la memoria (coscienza) di sé e immedesimarsi in ciò che si percepisce con i sensi. Ciononostante, si deve rammentare che per favorire la realtà materiale così organizzata e quindi essere suoi eccellenti servitori, si deve lasciarsi da essa sempre più condizionare. Di conseguenza, il suo abitante deve inseguire modelli esterni a sé proprio come quando si spiegava di realizzare invece il vero sé per conoscere la realtà spirituale. L’epilogo, pertanto, sarà che anche per alimentare compiutamente la realtà materiale e in essa eccellere, le persone devono perdere se stesse: non ciò di cui sono state indotte a identificarsi, ma ciò che si è veramente, nell’essenza.
La realtà materiale e spirituale, in definitiva, sono due facce della stessa medaglia. Esse si possono sperimentare nelle medesime modalità ma compiute vicendevolmente al contrario, e questo permetterebbe di conoscerle entrambe. Tant’è che quando si vivono considerandole ugualmente necessarie vi si scorge il beneficio. Ad esempio, che è grazie alla realtà materiale che l’uomo può ricordarsi di quella spirituale. E anche accorgersi della fallibilità che si vive nella realtà materiale, non è un dato negativo, come una punizione, ma l’espediente migliore per poter vedere la infallibilità della realtà spirituale. E quando si coglie ciò, allora si può vivere la realtà materiale senza lasciarsi vincere dallo sconforto ma scorgendo in ogni cosa, anche nella sofferenza, un motivo di bellezza e ascesi.
Nella realtà materiale, tutto risponde a regole di causa ed effetto, ogni cosa segue una precisa logica. E la logica, allora, non porta in maniera assoluta al benessere, alla pace, alla felicità. È per via della logica, infatti, che le persone depauperano le risorse a disposizione sentendosi giustificate a utilizzare a loro piacimento il creato. Seppure così fanno tutti, non è detto che sia il vero modo di vivere, il regime più giusto. Sarebbe come se si desse per scontato di essere i proprietari del mondo, malgrado nessuno lo abbia mai dichiarato. Nell’illogicità della realtà spirituale, invece è nell’assenza di proprietà e nel donare che ci si arricchisce.
Si può delineare che l’avidità così presentata comporta un’alterazione di un equilibrio. Il desiderio di prevaricare spinge ad appropriarsi di beni e risorse squilibrando così l’armonia che di base manteneva già la pace e la serenità che invece si vorrebbe trovare facendo così. La realtà materiale non è innanzitutto l’artificialità creata dall’uomo, ma la natura che già vi dimorava. Ed essa ha delle regole precise come un qualsiasi ambiente, stato, contesto. Violare tali leggi altera l’intero sistema dell’universo.
Anche la realtà materiale, infatti, è manifestazione di Dio. Se quella spirituale ne è la vera realtà, quella materiale è comunque un prodotto dell’energia divina. Quindi, come vediamo, non può essere l’uomo a considerarsi il proprietario. La realtà materiale, piuttosto, permette la possibilità di credersi proprietari e dominatori per così favorire la comprensione della verità: che è reale il contrario. Anche l’essere umano, difatti, è un prodotto della potenza divina.
Il fraintendere la lettura della realtà (un essere indotti a peccare di superbia, si potrebbe dire in termini religiosi) è la formula ideale per riprendersi e ricordarsi della vera realtà. Probabilmente, è l’unico modo che esista per poterlo capire: non si deve, infatti, svalutare o discriminare l’esperienza materiale. Il rendersi conto dovrebbe indurre a vivere entrambe le realtà con equilibrio e senza equivocare la materialità.
Un uomo che ha fede finisce per avere sempre meno interesse nei confronti della proprietà. Nel senso che sa che non è lui il proprietario: laddove non si ha fede, c’è l’imperativo del possedere. Il quale, abbiamo già indicato essere il motore della prevaricazione sugli altri: in un mondo senza pace non può che esserci guerra. La pace totale potrà esserci solo nella consapevolezza che il vero benefattore di tutto è Dio. Ed Egli, infatti, fornisce l’ideale necessario per lo sviluppo della vita.
Il fedele, per questo motivo, loda il Padre, Lo ringrazia e conferma il proprio mettersi al Suo servizio. Non solo sa che non gli mancherà nulla, ma è certo che così facendo non sta lodando e ringraziando un estraneo, una persona esterna a sé. Perché Dio è tutto e quindi è come se stesse lodando se stesso e dichiarando di accordarsi al resto del creato. Il fedele non deve, infatti, avere riguardo di approcciarsi al divino, perché il divino è già dentro di lui. Non deve attendere nulla di esterno da sé, come quando si inviano documenti a un ufficio statale e si rimane in attesa di un’eventuale risposta. L’uomo è già la risposta alle domande che si potrebbe porre. È sufficiente vivere.
Anche i concetti di “interno” ed “esterno” non hanno senso in questo contesto. Perché Dio è assoluto, non è interno o esterno, cioè da qualche parte. In questa realtà, si è indotti a credere nel relativo e quindi a non accettare l’assoluto. Come abbiamo imparato dai capitoli precedenti, è nel credere nel tempo che si può lasciare spazio a ragionamenti relativi. Oltrepassando l’idea di tempo, si trova solo e ovunque l’assoluto.




07/02/23

LA MEMORIA DEL VERO SE’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 26

Qui di seguito il ventiseiesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.

LA MEMORIA DEL VERO SE’




Non è l’esperienza nel mondo materiale o addirittura l’identificazione con il corpo a separare gli uomini dal divino e, di conseguenza, dal riconoscerci a propria volta divini perché parte della Divinità. La causa è il mero scordarsi della propria vera natura quando ci si incarna. E, quindi, della propria origine e realtà di appartenenza. Perché l’essere divini non precluderebbe neppure di vivere in una realtà fisica e in essa identificarsi.
Il riprendersi da questa presunzione di verità passa per il ricordarsi. Ricordando non si ipotizza più, non si va a tentativi perché si realizza chi si è veramente. In tale passaggio, le intuizioni sono fondamentali proprio perché forniscono le tracce da seguire che, se a esse ci si affidasse, condurrebbero alla memoria dal vero sé. La quale, per il suo riecheggiare informazioni che paiono discordanti con la realtà fenomenica nella quale siamo inseriti, viene ignorata come si fa con i sogni.
Così, le intuizioni, come gli stimoli prodotti dagli archetipi che nascostamente strutturano i nostri pensieri e l’ambiente che ci circonda, sembrano provenire da fuori di noi. Ma, in realtà, sono già informazioni presenti in noi. Esse vengono solo sollecitate a riemergere: non credendo che siano materiale nostro, lo sospettiamo ispirato da altro. Quello che succede in questi casi, innanzitutto, è che le persone sanno già ogni cosa, inevitabilmente, perché sono Dio: sono già la Verità, per loro stessa natura, formazione.
Nel libro precedente, si confessava che la più grande difficoltà nel percorso di realizzazione è il “sapere troppo”. Ciò non è soltanto un rischiare di non essere in grado di immaginare oltre a quel che già si conosce, ma anche l’accettare esclusivamente quanto può essere prevedibile. Sullo stesso piano, per la stessa presunzione, qui si rivela il timore di fidarsi di ciò che emerge come una sorta di “ricordo”.
La realtà fisica, allora, non è esaustivo identificarla come un sonno dal quale bisognerebbe risvegliarsi perché essendo infiniti, gli esseri umani sarebbero entità che temporaneamente non ricordano di essere infiniti. Quindi, nel loro far parte del tutto, vivono anche l’esperienza superficiale in questa realtà virtuale. E per lo stesso motivo si sbaglierebbe nel giudicare la vita terrena come una mera punizione, una prigione o una caduta.
Infatti, l’uomo che si ricorda della vera realtà, realizza di essere sperimentatore di un’esperienza che essenzialmente sta su un piano diverso rispetto a quella vera. Egli diviene Dio incarnato, sa che starebbe rendendo possibile il far vivere l’esperienza corporale a Dio. Come mostrato nel Vangelo, tant’è che il Nuovo Testamento attesta di questa energia del Figlio che continuamente rinnova ciò che perisce. La quale è trattata indipendentemente dal resoconto storico di Gesù: ovvero, è rinvenibile anche al di là della figura limitata di Gesù come uomo. Rimanendo nei Vangeli, l’esempio più potente è quello di Maria, la madre di Gesù. Essa si arrende completamente a Dio, si lascia piegare, per il rinnovamento che si scoprirà poi essere la gravidanza. Lei non conosce il senso completo, ma accetta per esso di non esistere più. Esattamente come è già stato spiegato a proposito della Passione di Cristo. È un esempio fondamentale perché Maria è un essere umano, non è della Trinità come il figlio. Dimostra quanto questa energia possa far partecipare il Divino in questa realtà; e ciò è possibile grazie alle scelte personali (come ha fatto Maria) perché evidentemente Lo riecheggiamo in noi, Lo siamo. Basta ricordarselo: Maria ne era convinta, lo ha “rammentato” e così lo ha realizzato. Ne è diventata cosciente e la sua coscienza ha creato essendo una cosa sola con quella di Dio. Se non si fosse accorta di ciò, non lo avesse “visto”, nulla si sarebbe concretizzato. Il suo rimanere incinta è diventato vero non come conseguenza di un evento esterno, come una magia, ma perché era convinta di essere tutt’uno con Dio.
Di nuovo bisogna sottolineare che seppure umana, Maria ha concretizzato la stessa esperienza di Cristo. Questo ci sbatte in faccia l’evidenza che chiunque ha la predisposizione di imitarne la via per il semplice fatto di essere in vita. Non c’è uno privilegiato rispetto alla massa, anzi: praticare il Vangelo, la potenza “devastatrice” di Gesù, è l’unico modo per realizzare la propria natura. E il proprio destino: Maria ci insegna che la formula che favorisce la pratica è nell’accettare (che potrebbe essere indicato anche come un “ricordare”) lo stato di esseri spirituali ed eterni. Il quale non significa un vivere da dominatori dell’universo, ma si esemplifica nel servire l’Assoluto. Il sentiero di Cristo porta a realizzare questa nostra vera identità. Maria, infatti, ci testimonia la validità del praticare il Vangelo prima ancora che venisse portato nel mondo.
Si viene illuminati dall’accorgersi che è dal profondo divario tra l’essere spirituale ed essere materiale che nulla di questa realtà può indennizzare dalle sofferenze, come nell’episodio nel capitolo precedente di Gesù che comunque cade afflitto per la morte di Lazzaro benché lo avrebbe fatto tornare in vita di lì a poco. Solo nella nostra vera natura, si possono trovare le migliori condizioni per riempirsi di vita e felicità. Ad esempio, gli animali di uno zoo possono essere ammirati e amati dai visitatori e coccolati e riempiti di tutto il necessario dai loro gestori, ma non vivranno mai realmente perché non sono nella loro vera natura. Da Maria impariamo l’insegnamento che alla vita e alla felicità che ci sono proprie vi si può accedere accettando (ricordando) di essere parti di un Tutto. Quindi sì, spirituali ed eterni, ma servitori.
E questo essere servitori vale a dire “essere a servizio”, non essere schiavi. Nel linguaggio quotidiano, per comprendere appieno il senso della nostra natura bisogna fare uso di questa espressione che sottende una certa gerarchia. La quale, seppure apparente e finalizzata solo a scopo propedeutico, vale perché noi non saremmo ora ad un livello di coscienza tale da poter compiere l’azione di creazione che è di Dio. Solo quando si è coscienti di essere unità, ci si può dividere e quindi creare altro da sé. Ma quando si sarà coscienti di essere unità, allora vi si apparterrà, la saremo.
Si potrebbe anche spiegare la dinamica come se l’uomo fosse partecipante all’unità come amante. Ma questo indurrebbe a credere a un rapporto di uguaglianza come quello all’interno di una coppia, che potrebbe sottintendere anche a conflitti nascosti.
La soluzione è nel non identificarci con l’involucro fatto di corpo e mente. Nell’esempio dello zoo, sarebbe come se l’animale credesse di essere la gabbia e scordasse la sua vera natura. Ed è così quando l’uomo si cura solo di soddisfare i bisogni materiali, compreso l’amore e l’ammirazione dei visitatori della sua gabbia. E lo stesso vale quando cerca alimenti più raffinati per la sua mente come l’arte, la letteratura o una superficiale ricerca spirituale: essere una coscienza non significa identificarsi con la mente. Perché la mente, benché è l’area del nostro corpo dove siamo convinti che avvengano i pensieri, è una parte del proprio corpo come qualsiasi altra. Ascoltare e seguire continuamente la mente sarebbe come se si ascoltasse continuamente e si seguisse un proprio arto o un organo interno.
Abbiamo già affrontato tale questione segnalando che non è possibile conoscere Dio attraverso l’intelletto. Malgrado ci si sforzi, ciò non sarà realizzabile con ragionamenti. Egli può solo essere conosciuto quando Si rivela e abbiamo scorto che ciò avviene per vie trasversali: la vita. E, in queste ultime pagine, scopriamo che Egli è conoscibile anche nell’assenza di vita.
In questa impossibilità di conoscerLo con l’intelletto, non possiamo neppure trovare la formula per spiegarLo. Il Vangelo, infatti, è soltanto un mezzo che ci traghetta alla comprensione del Padre. Ciascuno di noi, infine, Lo conoscerà in una propria modalità. E questa potrebbe essere irripetibile per altri. Ecco perché si dice che Egli può essere conosciuto ma non compreso. E così, ciascuno di noi ne darebbe una spiegazione e descrizione differente, se volesse provare. Per ciò, come già indicato, malgrado lo stesso Padre e la medesima Trinità, le varie culture nel mondo hanno sviluppato materiali religiosi diversi.
In conclusione, solo ravvivando la conoscenza spirituale si possono ottenere risultati che mostrino un progresso. Anche materiale: non è possibile neppure per chi desideri pace e uguaglianza renderle concrete se prima non ricordasse che siamo tutti in pace e uguali spiritualmente.
L’essere umano ha enormemente investito nella realtà materiale così da obnubilare da sé il ricordo della propria vera natura. Ma questo non implica che è sempre stato così nel passato e debba esserlo in futuro: non è obbligatorio essere la propria gabbia.














01/02/23

IN PRINCIPIO C’E’ LA FINE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 25

Qui di seguito il venticinquesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


IN PRINCIPIO C’E’ LA FINE




La morte non esiste, nel Vangelo non se ne parla. Certo, l’evento della morte è riportato in varie occasioni nei resoconti del Nuovo Testamento, eppure non come elemento che segna una conclusione. La morte è un espediente usato per spiegare l’inizio. L’acquisire una nuova coscienza, abbiamo già visto, viene raffigurato come un morire e rinascere una seconda volta. Inoltre, è raccontato pure che una persona deceduta può venire riportata in vita.
La morte che viene comunemente vissuta come un impantanarsi nella sofferenza, si ritrova narrata solo per leggere quando Gesù incappa nei parenti di un defunto al suo funerale. Il loro accodarsi nella mesta cerimonia viene visto come un’incresciosa distorsione sulla realtà vera della vita. È ovvio che il Cristo quando critica simili scene non intende mortificare chi soffre o manifestare verso di loro una cinica insensibilità. Semmai è un segnalare che il credere nella realtà causale di vita e morte è un perdere di vista la Verità che ci sta dietro.
Un efficace modo per chiarire questo aspetto lo si trae se si tiene conto che la vera realtà e il Padre sono eterni e infiniti. Colui che ricerca questa eternità, quindi, inizia a desensibilizzarsi e slegarsi da quanto si vuole interpretare come finito nella nostra vita. L’equilibrio fra esperienza “corporale” e “divina” introdotto nel capitolo precedente non viene meno; pertanto, come si conosce e sperimenta la fine della vita terrena, così si conosce e sperimenta l’infinito della vita non terrena. La coesistenza dell’esperienza “corporale” e di quella “divina” viene proposta, ad esempio, quando Gesù indugia a raggiungere Lazzaro sul letto di morte. Quando vi si recherà, ormai sarà già deceduto e così Egli viene travolto dal dolore del lutto per il caro amico che non c’è più, e allo stesso modo i suoi famigliari. Tuttavia, questa pena sarà d’aiuto a tutti per riconoscere Gesù come il Cristo in quanto la tramuterà in gioia a seguito di uno sviluppo del tutto inimmaginabile: Lazzaro verrà fatto risorgere.
L’uomo, perciò, non deve distrarsi a dimenticare la propria natura eterna. Nel suo essere eterno e infinito (o in un’immagine: un’anima individuale fusa nell’anima universale) fra le infinite cose che è, è anche l’essere umano nel quale sta vivendo in questo mondo. Convincersi di essere soltanto la persona in cui ci si identifica sarebbe come se si credesse di essere un accessorio del proprio abbigliamento o solo un organo del proprio corpo invece che la sua interezza.
Una similitudine potrebbe essere nell’immaginare che il corpo e la mente sono la struttura che serve a permettere l’esperienza in questa realtà allo spirito e a proteggerlo, come lo è la buccia per il frutto. Ma buccia e polpa non sono confondibili e neppure si possono scambiare.
Tornando al Vangelo: il fedele (come vediamo dall’atteggiamento di Gesù sopra ricordato) quando è costantemente immerso nel pensiero del Padre e dei Suoi infiniti eventi e forme che ci permettono di intercettarLo, facilita la sua rinascita a vita nuova. Alla minima lagnanza nei confronti di ciò che si vive, l’uomo sta di fatto lamentandosi di Dio. E lo sbuffare, il bestemmiare sono atteggiamenti così quotidiani che possono essere giudicati costanti come qui si descriverebbe invece la devozione. Quindi, non è un’esagerazione invitare il fedele a pensare continuamente all’Assoluto; sarebbe un po’ come ribaltare i pensieri che si fanno quando si maledice (continuamente) ciò che non è come si desidera.
Allora, pensare sempre a Dio non affliggendosi e criticando è pensare a Suo favore. Ci rendiamo conto che il Cristo compiva questa attività in piena coscienza che Dio è il Padre ed è la vera realtà, la Coscienza Suprema, o, se vogliamo, la Persona Suprema. In conclusione: pensando al Padre non limitatamente a una presenza potente, creatrice e dominatrice, quindi suscettibile di paragoni con altri personaggi astratti o speciali; se una Persona è suprema, assoluta, non può avere equali: è l’unica a non poterne avere.
Allora, ci si rende conto che è qualcosa di sensazionale, l’esistenza della morte. Lo stesso aspetto che la morte è esistente ne smaschera la illogicità di fondo: essa, infatti, è l’assenza di esistenza; più essa è presente e meno lo è la vita. Nella realtà materiale, tutto muore, è morte; nulla può evitare questo principio. Tant’è che la realtà materiale è riscontrabile proprio perché c’è la morte, senza la quale non ci sarebbe il mondo in quanto regolato da leggi fisiche.
La morte è l’invenzione divina per permettere alla realtà che sperimentiamo di esserci. Sofferenza e morte sono doni che contribuiscono in maniera profonda a compiere l’esperienza terrena. Ma dal punto di vista della vera realtà, che sottende l’immortalità, la morte non ci dovrebbe essere. Essa è stata appunto creata appositamente e inserita per favorire l’intero evento dell’universo. La morte è l’emblema dell’intervento del Padre e anche della sua presenza in questa realtà. Egli, infatti, è sempre presente, benché la distorta visione della realtà ci tenterebbe a credere che proprio dove c’è morte non ci sia Dio.
A causa della morte, diventa concreta la crescita, la vecchiaia, la dipartita; e anche il bisogno di curarsi, alimentarsi, fare esperienze; le fioriture, il trascorrere delle stagioni, il sorgere e il tramontare del Sole, il movimento degli astri. Vale a dire che per via della morte, esiste il tempo. Ecco spiegato in modo più approfondito perché Dio dà avvio al tempo.
Il tempo come transitorietà non esisterebbe perché in realtà non c’è la morte. Il tempo rappresenta la creazione, è la creazione; è a causa del tempo che essa è possibile. Questo elemento, che viene interpretato come il progredire della natura, è invece una presenza artificiale che spinge la natura a muoversi e seguire i cicli che ben conosciamo. Io posso considerare naturale quello che percepisco con i sensi o che posso studiare scientificamente, ma non posso indicare come naturale il tempo. Anzi, non è neppure riscontrabile, lo stesso essere umano ha dovuto adattare dei mezzi per poterlo calcolare. E solo come espediente per una più facile organizzazione sociale. Nella stessa maniera in cui si era descritto Dio o la vita, possiamo analizzare il tempo: che si possono solo recepirne gli effetti trasversali (come l’invecchiare, appunto, o la morte). La presenza insinuante del tempo nell’universo non può lasciarci indifferenti nel notarla come segno di un qualcosa di infinitamente più grande di noi. Ogni volta che scorgi il movimento del Sole o delle lancette, oppure l’ingrigirsi dei capelli, stai guardando direttamente Dio.
Non bisogna fraintendere Dio come una minaccia negativa perché è presente nella caducità e promotrice della morte, con la percezione dello scorrere del tempo. In realtà, dietro alla morte si cela l’eternità, la quale è conoscenza e felicità senza fine. Chi pensa in questo modo alla morte e a Dio, non ne avrà paura. Sarà una persona che si alleggerisce dalla sola idea materialistica e sensuale della vita; scoprirà che sottomettersi a Dio significa raggiungere un’ampia libertà. La conseguenza è una congruenza con Dio che nel fedele viene appunto spiegata e intesa come una sorta di affiliazione, appartenenza alla stessa famiglia.
Il contrario sono coloro che non riconoscono un simile ruolo a Dio e non ne concepiscono una presenza così pervasiva. Questo punto di vista non è solo influenzato dall’ignoranza, esso è dato dal non volere cedere così tanto potere a Dio. Sono, quindi, persone che è come se volessero riconoscere di avere loro il potere che andrebbe invece riconosciuto in Dio. Non contemplano la possibilità di essere conquistati da Lui perché è come se si vedessero loro, come Dio. E non nella maniera fin qui descritta dell’arrendersi a qualcosa di immensamente più grande di noi e quindi unirsi all’Assoluto, essere in condivisione con Lui. È un sentirsi Dio perché si reputa se stessi e ciò che si vive come le cose più importanti dell’universo. Ma come ci si potrebbe credere davvero così forti se in realtà si è invidiosi di un potere che si sa di non avere?
Ovviamente, è un’invidia inconscia, conseguente a un non accettare il tempo, e quindi la morte. La grande sfida, il fulcro dell’esperienza come esseri umani, sta proprio in questa croce. Come già si è imparato nel racconto della Passione: Gesù che ama la croce. È possibile solo quando si inizia a realizzare che il tempo, e di conseguenza la morte, è Dio. La vera avventura è riuscire in questo intento palesemente incongruente per la realtà materiale di amare la morte. Ma scorgiamo così che in quella incongruenza, quella crisi, sta il segreto per oltrepassare questa realtà, arrivare in fondo al viaggio: giungere alla vita eterna. Paradossalmente, sarà così che si vincerà la morte.
Mentre il Padre è il principio, l’energia che induce alla creazione, alla nascita, e lo Spirito Santo è quello dello sviluppo della creazione, il Figlio lo è per il rinnovamento. Il quale è manifestato in questa realtà materiale nella fine alla quale ogni cosa giunge per affermare il nuovo. Sotto questa luce, la fine e quindi la morte e la sofferenza non sono trattate come mera devastazione. Seppure lo stesso Cristo dimostra questa intera dinamica nell’esperienza della Passione, assurgendo la Sua croce a Suo simbolo, la morte deve essere considerata come un qualsiasi evento da trasformare.
Per riassumere, lo Spirito Santo disgiunge in parti la creazione che è unità, mentre Gesù è l’azione fondamentale già trattata in passato chiamandola trasformazione, trasmutazione, e in questo significato pure la morte e la sofferenza vengono trattate nei Vangeli. Il mistero di Gesù si affronta nel considerarLo il principio della “devastazione”. E così Si presenta quando afferma che è venuto per portare il fuoco, la spada invece che la pace. La pace è la caratteristica di un altro periodo, non di questo: quello che giungerà con la nuova unione.