22/03/23

DARE VITA ALLA VITA - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 32

Qui di seguito il trentaduesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


DARE VITA ALLA VITA




Personalmente, il primo vero momento di pace vissuto è stato quando, imponendomi di cessare di giudicare, constatavo di essere obiettivamente nell’impossibilità di individuare divisioni e differenze. Questo vale per le persone, le azioni, le esperienze; mentre rifuggire il male e cercare il bene non è giudicare, ma discernere. Se non ero nella posizione di poter dare un giudizio, allora ogni cosa era da accogliere e nulla da respingere. Se ero in difficoltà ad accettare qualcosa o se la presenza di qualcuno mi infastidiva, si trattava per forza di un mio moto contrario (un mio giudicare, quindi) che seguivo senza esserne consapevole.
A quel punto, un’approfondita indagine su come sono mi avrebbe certamente aiutato. La quale mi aprii a una fase di studi sull’uomo, a partire dalla psicologia fino ai comportamenti sociali e agli eventi storici. Malgrado un aumentare delle mie conoscenze mi garantiva apertura a riflessioni nuove, non approdavo alla libertà maggiore che avrei dovuto trovare come conseguenza di un saper dare risposte a sempre più domande. In effetti, avevo già comprovato che l’apertura maggiore e la promessa di libertà erano direttamente precedute da uno smettere di dare valutazioni alle cose, agli eventi e alle persone. Più credevo di sapere e più trovavo limiti a sviluppare i miei pensieri. Ciò era collegato al fatto che la conoscenza di cui mi alimentavo non è assoluta, indiscriminata ma si esprime nel credere in una cosa e non credere in un’altra.
Questa attitudine influenzava così anche la quotidianità, dai pensieri banali alle scelte importanti. Se credevo, a causa delle mie ricerche, che la psiche umana reagisce in un dato modo, allora crederò che non possa comportarsi altrimenti. E questo era pure nei processi scientifici, nelle descrizioni dei fatti, nell’aspetto della natura, nei misteri dell’universo, finanche in ciò che riguarda la spiritualità. E, ovviamente, ancor peggio: nelle relazioni con me e con gli altri.
La conoscenza, allora, può essere una chiusura e me ne accorsi grazie al presupposto iniziale di questa mia ricerca. Questo era il dovermi mantenere scevro dal giudicare. Si trattava certamente di una regola tratta dalla dottrina cattolica, ma, seppure ragazzo, ne avevo colto un potere misterioso: attuandola potevo modificare me e il mondo circostante. Quando si è bambini spesso si scherza e ci si prende in giro; forse perché particolarmente sensibile, io ne soffrivo. Era chiaro che il mio malessere nel venir preso in giro era connesso a un venir giudicato. Perciò, provai a non giudicare gli altri bambini e la conseguenza fu che finirono gli episodi dolorosi e si manteneva un’atmosfera di divertimento. La quale era dovuta proprio al fatto che i miei amici in mia compagnia si sentivano liberi di dire e fare tutto quello che passava loro per la mente. Se non venivano giudicati da me, potevano lasciarsi andare e così io con loro: uno scherzare senza timori di venir rimproverati.
Certamente, il rimprovero che subivamo dagli adulti sotto varie forme, era una sofferenza che esorcizzavamo ripetendola a nostra volta contro gli altri. Essa era dovuta da: paternali a casa, giudizi scolastici, modelli da seguire e non seguire proposti dalla tv, urla a bordo campo negli sport e così via. Ma a queste osservazioni, ci sarei giunto solo più tardi. Nel frattempo, crescevo disorientato nel notare che il contesto in cui vivevo si esprimeva in un modo così ingiusto. Ed era inoltre distante, se non opposto, a quanto noi bambini venivamo educati; comprendendo in questo anche gli insegnamenti cristiani che da varie parti ricevevamo.
È stato così che ho iniziato ad avere la netta sensazione che la mia esperienza del mondo fosse caratterizzata spesso da persone ipocrite e arroganti. Le quali agivano in modo iniquo giustificandosi all’occorrenza per ciò. Forse, è questo che fa nascere in un ragazzo degli atteggiamenti che potrebbero essere interpretati come contestatari. Di certo, io, oltre a questi, avrei nel tempo sentito l’urgenza di capire veramente il giusto modo di comportarsi: non ci stavo a partecipare a quell’abbozzo di felicità, al dirsi che va tutto bene anche se non è così, alla rassegnazione del non poter cambiare le cose.
Il modello che avevo in mente era senza dubbio il mio stare con i miei amici gioiosamente perché protetti dall’assenza di giudizio. Eravamo noi, con quel comportamento, a proteggerci l’un l’altro. Ora che sono adulto, è nel rileggere questo episodio del mio passato che posso garantire che è sufficiente far entrare il Vangelo nella propria vita ed essere convinto della sua realizzabilità, che un processo verrà innestato. Anche se non ne siamo consapevoli e cercassimo di focalizzarci su altro: quando si ricerca la Verità, verrano continuamente forniti degli espedienti per coglierla.
Così che la Verità, la vera realtà, è che c’è solo vita. Tutti siamo immersi in essa senza distinzione e ne costituiamo il flusso, il nostro procedere è in realtà la sua corrente. Se non posso giudicare, non posso creare distinzioni: tutto è un’unica cosa. Se vedevo la vita in questo modo, pertanto, come avrei potuto respingere qualcosa? Sarebbe come respingere me: era, questo insegnamento, la sconfinata libertà di cui andavo in cerca. Addirittura, fa percepire di essere diffusi, non soffermati dal corpo e dalla mente. È percepirsi effettivamente “essere tutto” e così, in modo naturale, anche la conoscenza su tutto diventava leggibile.
Tuttavia, questo stato porta anche a una crisi, dovuta proprio a non sentirsi più. Perlomeno separati e distinti: che senso ha, a questo punto, concentrarmi su quello che voglio o che penso di dover fare? La realtà di tutti i giorni perde la sua gravità: questa crisi, che potremo definire di identità, può essere infatti ben affrontabile solo se si accetta che ogni cosa è intrinsecamente leggera. Non nel senso di poco importante, ma soave, quieta, amabile. La realtà di tutti i giorni è costituita anche da problemi e preoccupazioni, però caratterizzati da mutevolezza e transitorietà, malgrado la loro apparente pesantezza. Come se fossero le nuvole che, anche se si fanno grosse e minacciose, non potranno mai coprire interamente e per sempre il cielo. È il cielo, sottofondo di tutto, la vera realtà, Dio. Il quale è amore, che permane, sempre presente benché ci si soffermi a guardare le nuvole invece che il cielo.
Alla base di questa crisi c’è il dover procedere d’ora in avanti senza affidarsi a nulla di certo. Facendo uso sempre della stessa sintesi del non giudicare: se non posso dare giudizi, non posso neppure sapere cosa accadrà. Si lascia una vita già pianificata dal tendere ad allinearsi al giudizio proprio e degli altri su di sé. E si inaugura allora una vita volta sempre all’imprevedibile. È a questo punto che si scopre che come non si può giudicare e conoscere il mondo esterno, così, in realtà, si ignora il mondo interno.
Tale crisi è sintomo di un progresso verso la Verità, la scoperta del vero sé. Difatti, se siamo tutti uniti in una sostanza, un solo sé, come farei io a osservare ciò? Nel senso che ero arrivato al punto dove “vedevo” che tutto è un’unica cosa. Non mi accorgevo che nel fare ciò, esistevo come “io” che osservava il tutto. Se esiste questa fusione globale, come può esserci un “io” che riesce a scostarsi un poco per guardarla? Scopro che stavo facendo una distinzione; dichiaro che mi si prospetta solo l’ignoto d’ora in avanti, ma mantenendomi attaccato a una posizione nota: me.
Allora, anche quello che io credo di me è una “credenza”, un’idea creata appositamente per potermi descrivere, dare uno scopo, un’immagine. Ovvero, potermi riconoscere in qualcosa e così giudicare e poter essere giudicato. In realtà, anche se dico “io sono” è un esprimere un giudizio: c’è un “io” che “è”; non solo dire com’è specificatamente quell’io. Nell’astenermi dal giudicare, non posso più affermare: “io vado” da qualche parte, “io mangio”, “io sento”, ecc. Non si può neppure affermare: “io”.
Utilizzando l’esempio del capitolo precedente: avevo scoperto che non sono distinto dal resto del mare, ma un’onda che è il mare. Ero solo un’onda che veleggiava nella corrente del mare. Soltanto quello, ma ora riconosco che in realtà non c’è nessuna onda. È solo una interpretazione, un’illusione: c’è solo mare. E non perché io non esisto: perché io sono il mare. Il mio sé è l’unico, vero sé, assoluto: Dio. È il Regno, quello che nella teologia cristiana viene indicato con espressioni come “dimorare” nel Signore (la grazia).
Certo, il me che vive nel mondo c’è sempre. Vado a lavorare, non guadagno mai abbastanza, mi ammalo, rimango a piedi con la macchina. Però ogni cosa viene vissuta rimanendo a contatto con il Divino, e per questo, permane beatitudine, consapevolezza e pace.




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