02/02/14


E' perché mi capita di scorgerne il brutto, che ho la conferma che l'arte è il mio campo d'azione e di permanenza. In molti aspetti della vita e in molte altre materie di cui si può entrare in contatto, non riesco ad avere una critica impulsiva; la devo ragionare, studiare. Oppure, semplicemente non riesco a capirla: sbaglio, vado a casaccio. Anche in un qualche altro campo artistico, che non sia il visivo, non sono in grado di raggiungere una competenza sebbene mi ci applico o me ne interesso. E se devo darne un giudizio, non so da che parte stare: se considerarlo valente oppure no; innovativo o banale. Lo stesso, negli aspetti della vita quotidiana: i rapporti con me, con gli altri, la disciplina... semplicemente non riesco a mettere a fuoco ciò che è buono e ciò che non lo è. Mentre con l'arte non devo sforzarmi a pensare o studiarne un giudizio, ne colgo di impulso cosa è intonato e cosa stonato. E questo è indipendente da molte strutture che ho eretto nel corso degli anni: incomprensioni o approfondimenti. So che l'arte è la mia terra perché ne riesco a vedere ciò che è volgare.
In altri aspetti della vita, allora, posso molto più facilmente sbagliare in quanto mi manca questa capacità di discernimento.
Non si tratta di un risultato acquisito, è una condizione. Non sempre apprezzabile perché mi fa vivere l'arte, a volte, senza leggerezza o ingenuità. Non posso tirarmi fuori dall'arte, ma non posso neppure goderne appieno. L'arte, infatti, non mi fa felice.
Un secondo motivo, ugualmente legato al primo, per cui l'arte non mi procura felicità è la consapevolezza di non raggiungere mai l'obiettivo. Ogni volta che realizzo un lavoro, ad esempio delle nuove immagini, mi impegno in modo da ottenere un'idea che mi pongo di fronte, una meta. Quando poi ho concluso il lavoro, ad esempio ho davanti a me l'intera serie delle composizioni costruite, mi accorgo che manca qualcosa o che ho mancato il bersaglio: non ho in realtà toccato quella meta; come se avessi sbagliato strada. Non che i lavori eseguiti non siano soddisfacenti, ma sono semplicemente dei tentativi mancati: la meta è ancora laggiù, in un orizzonte costantemente distante. Di tutto questo ne sono certo perché appena ultimato un lavoro, inizio a darmi da fare su nuovi progetti: quando giungerò alla meta, alla fine del percorso, di sicuro mi fermerò. Anzi, è proprio nel produrre, che scopro qualche nuova via, qualche nuova alternativa (ad esempio nel comporre le immagini o nel modo in cui considerarle). Forse è frustrante, so solo che non mi permette di mollare la presa.
Pertanto, ogni qualvolta che faccio una mostra, sto esponendo degli errori. Dei tentativi mancati, che mi sono tornati utili solo per capire che non sono la meta: non mi interessano per nient'altro. Il collezionista compra quindi dei meri "buchi nell'acqua".
Di conseguenza, un altro motivo per non sentirmi felice è che alle mostre, esponendo degli "errori di percorso", mi sento in imbarazzo. Non perché non siano validi o non dovrebbero essere esposti, ma perché (solo) io so che non sono ancora la meta prefissata. Quindi, è come se mostrassi a chi viene a vedere l'esposizione dei miei punti deboli, la parte mia più indifesa. Ecco il perché, pure, del pretendere di essere trattato bene, almeno dai curatori delle mostre: per la delicatezza dell'operazione. A volte, purtroppo, dalla persona con la quale mi rapporto per fare una mostra ricevo durezza, superficialità o incomprensione e me ne dispiaccio, perché è come se gli affidassi qualcosa di particolarmente intimo: una confessione, un autodafé. Ripeto, ne sono consapevole: è il mio modo di lavorare ed esporre i miei pezzi. Tuttavia, già da un po' di tempo, preferisco non esporre più con facilità. 
Questo è la mia maniera di vivere e di vivere l'arte, quindi sono contento di averlo capita.

Nessun commento:

Posta un commento