31/05/23

L’INEVITABILITA’ DELL’AMORE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 42

Qui di seguito il quarantaduesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


L’INEVITABILITA’ DELL’AMORE




L’insegnamento maggiore che possiamo apprendere sulla nostra realtà è che tutto è una relazione. Ogni elemento è in reciprocità con un secondo, altrimenti, in assenza di relazione vi sarebbe l’assoluto. E questo è l’argomento centrale del nostro trattato identificando l’assoluto come lo sfondo unico sul quale tutto avviene, il tempo dal quale ogni cosa si muove con un proprio ritmo, l’universale coscienza che è ogni coscienza: Dio. La possibilità di relazionarsi e l’inevitabilità che ogni ente ed evento si possano manifestare solo attraverso una relazione è, invece, questa dimensione. Le cui caratteristiche sembrerebbero proprio essere il migliore aiuto per identificare e diventare coscienti del loro opposto: l’assoluto, appunto. Di conseguenza, grazie a vari esempi, abbiamo riconosciuto che l’assoluto può presentarsi così dietro a ogni cosa contenuta in questa realtà, dagli oggetti alle persone, fino a elementi astratti come i pensieri e le emozioni. Ma non solo: a causa di ciò si può affermare che è impossibile evitare tale interazione fino a vedere anche in sé la manifestazione (l’esistenza) del divino.
La realtà è transitoria e in continuo mutamento, infatti, ripetiamo, l’assenza di ciò sarebbe l’Assoluto. E il mutamento è possibile appunto quando avviene il contatto fra due elementi. Nel loro relazionarsi, che sia un’attrazione, un contrasto o una fusione, accade la trasformazione. Le trasformazioni più importanti per la vita di ciascuno (e quindi per l’universo) avvengono attraverso relazioni scandite dall’amore. Per importanti, si intende che sono maggiormente in sintonia con la Verità, con l’assoluto. Questa formula non è stabilita perché l’amore sarebbe visto come il sentimento più bello o che comporterebbe la felicità, ma perché precisata e ripetuta negli insegnamenti evangelici. Infatti, non è un semplice ordine del buon vivere, il Vangelo, ma presenta dei chiari modi per connettersi al vero sé, all’Assoluto. Tant’è che, fra tutti i tipi di relazioni che si potevano scegliere, è quando ci si scambia amore, che si pratica il Vangelo e se ne attraversano i vari passaggi evolutivi. L’amore direziona alla Verità, la rende concreta: esso è appunto non un semplice sentimento ma un’effettiva forza creativa, benché, a livello superficiale, possa venir percepito come un sentimento.
Già altrove abbiamo avuto lo spazio per far notare che se ogni elemento dell’universo è collegato, allora è sufficiente che il singolo si relazioni con amore che tutto si accorderà di conseguenza. Anche se non vi sia nessuno che gli rivolga amore o venga assillato da previsioni negative sul proprio futuro. Difatti, la convivenza piacevole con gli altri, la pace, il benessere fisico, mentale ed economico non sono le condizioni che permettono una vita dispensatrice di amore ma i suoi effetti collaterali.
Il motivo è che l’amore è una forza che crea, che permette la creazione e la ospita. È a seguito dell’accorgersi di ciò che eravamo giunti qualche capitolo fa a dichiarare che ogni cosa nell’universo nasce come conseguenza dell’amore. Ed è anche il senso per cui si era sovrapposto “amore” al “donare”. In effetti, un elemento si trasforma solo in misura di quanto cede a quello con il quale si relaziona. Maggiore è l’amore, maggiore è la cessione e quindi il cambiamento. Si tenga presente che è solo laddove c’è mutamento e movimento che vi è vita. Questa armonia smette di essere celata e viene scagliata sotto gli occhi di tutti quando Gesù cedette tutto se stesso per gli altri.
Quanto si cede? Quanto si trattiene? Sono domande importanti perché per relazione, in una visione universalista, come già accennato, si intende di qualsiasi genere poiché può avvenire con ogni cosa e in ogni momento in quanto tutto, in questa dimensione, funziona così: è vita. È relazione allora, che comporta una trasformazione, anche il mio stare seduto (nella pressione dei miei tessuti con la sedia), il bere un bicchiere d’acqua (nel processo che avviene del liquido nello stomaco), quello che dico e faccio durante la giornata e così via. Queste azioni banali, che quasi non si badano nel momento che le si compie, trovano modo di compartecipare in modo costruttivo quando vi si diventa sempre più consapevoli aggiungendovi l’amore nel loro compierle vertendo verso un’etica positiva. Diventa più esaustivo quando si affrontano relazioni con altre persone. È lì, infatti, che può esplicitarsi più chiaramente uno scambio contraddistinto dall’amore.
Questa premessa è fondamentale per far sì che a tutti sia chiaro che nessuno può evitare tale relazione e quindi la compartecipazione alla trasformazione, creazione generale. Difatti, potrebbe esserci chi tende a giudicarsi estraneo se si riconoscesse in una vita caratterizzata da pochi contatti sociali o alcuno. C’è chi si vede come una persona che non approfondisce molto i rapporti oppure che li evita e tende a isolarsi. Addirittura, c’è chi sostiene che non riconosce amore nelle relazioni che vive. Tuttavia, in nessuno di questi casi l’individuo può considerarsi esente dall’avere una relazione.
È così anche per colui che si crede solitario, pure se vivesse eremita o lontano dalla società. Non si intende che egli potrebbe comunque stabilire relazioni con il resto del creato, ad esempio con la natura, poiché si tratterebbero di scambi che non permettono un approfondimento necessario per vivere una forma di amore la più germinativa. Certo anche con la natura, ad esempio con gli animali, un uomo può legarsi in un vero rapporto affettivo. Però non sarebbe possibile l’ulteriore approfondimento che è facilitato quando vi è una comunicazione diretta. La quale è permessa se i due sono della stessa specie grazie a un legame invisibile che sarebbe presente pure se non parlassero. La comunicazione in un rapporto fra due specie diverse, per esempio un uomo e un animale, viene pesantemente influenzato dall’uomo che ricercherebbe, anche inconsciamente, risposte che sia in grado di interpretare (dalla parvenza umana) nell’animale. Sarebbe forse un’eccezione se l’uomo fosse nato e cresciuto in una società di quell’animale e non di uomini.
Pertanto, tornando al nostro tema, anche una persona che non incontra mai nessun altro uomo o che è convinta di non amare nessuno, in verità ha una relazione di amore: quella con se stesso. In effetti, egli non può che amarsi, anche se si convincesse del contrario, altrimenti non sarebbe vivo. Inoltre, egli può dedicarsi a sé, alla propria mente, al proprio corpo; non potrebbe veramente affermare che non ha nessuno da amare. Egli incontra sé, continuamente, anche se dovesse fare un viaggio in solitaria attraverso una terra disabitata. La persona che siamo ci obbliga a essere comunque in relazione con qualcuno e di qualcuno amanti.
Pure chi trascorresse la vita sprecandola o dedicandosi alla propria dissoluzione e distruzione oppure nell’indifferenza, sta occupandosi si sé. Seppure in chiave negativa, i suoi atteggiamenti sono comunque d’amore (per la dissoluzione, la distruzione, lo spreco, ecc.) al fine di intraprendere un rapporto con sé.
Allora, si potrebbe supporre che l’incarnazione che abbiamo è lo strumento ideale per sperimentare e trovare in ogni momento l’amore. E, quindi, la vita, Dio. Perciò, tutti noi siamo nell’impossibilità di evitarlo. Questa osservazione non è una sofisticazione allo scopo di convincerci della presenza dell’amore, ma per riconoscere che in modo naturale, per il modo in cui l’uomo è fatto, avviene tale conseguenza: fino a che si ha questa carne addosso, l’essere umano viene costretto a un legame indissolubile, filiale. Proprio come indissolubili sono i sentimenti di appartenenza e comunione che legano i figli con i genitori, infatti. Se l’uomo si abituasse a considerare se stesso, la propria persona come se fosse il proprio figlio da accudire e amare, gran parte dei problemi personali (che poi echeggiano in quelli globali) cesserebbero.
Mi è capitato di incontrare persone che si consideravano sicure di non avere nessuno nella loro vita. A causa di ciò, anche in risposta al mio precedente libro (il Vangelo Pratico), mi facevano notare che per loro era impossibile praticare il Vangelo. Costoro, abbiamo qui la conferma, commettevano un errore di valutazione. Finché si ha un corpo e una mente, hai sempre a che fare con qualcuno. La propria persona è qualcosa che uno ha, di cui deve prendersi cura, proprio come un qualsiasi altro elemento contenuto nella creazione. E per i quali ci è stato dato direttamente il compito di proteggere e custodire (nel libro della Genesi), migliaia di anni fa.




25/05/23

Ci abituiamo a non avere un passato o ce lo riprendiamo?

Se una conoscenza viene proposta estrapolata da un contesto molto più grande, ne possiamo cogliere solo ciò che riusciamo a interpretare e facendo paragoni con quel che possiamo dedurre confrontando con la nostra vita di tutti i giorni.
In questo modo, tale conoscenza finirebbe per non essere vista nella sua forma completa ma ridimensionata, appunto, alle proprie capacità di deduzione e comprensione.
Proprio come se a una persona venisse solo insegnata l’aritmetica, anche se dovesse frequentare la facoltà di matematica, ne capirebbe solo quello che può sapere: l’aritmetica. In questo paragone: è ciò che succede quando si considera l’insegnamento di un Maestro (come il Cristo) senza tenere conto degli insegnamenti impartiti da altri Maestri per far conoscere la Verità. E in tale modo, diventa comprensibile sia il comportamento della persona che appartiene a una Chiesa sia quello di chi respinge tale possibilità: entrambi (per poter aderire o no a un credo) possono solo convincersene non avendo ricevuto gli strumenti culturali per fare una completa lettura.
Con questo video, voglio, con umiltà, raccontare che ciò è la nostra comune esperienza, perché tutti siamo stati al centro di una evoluzione della nostra società che comportò uno scollegamento da altre conoscenze diverse dalla nostra, e così pure dal nostro passato…
Il libro Vangelo Pratico intende portare il lettore a scantonare tale impasse stimolando la possibilità di cogliere la conoscenza più profonda attraverso intuizioni, piuttosto che deduzioni. Che questo video sia da stimolo alla curiosità di conoscere chi siamo e come siamo - senza il bisogno di dover per forza far parte di un credo o opporcisi.
Per me la realtà è un'esperienza da impiegare al meglio e quindi voglio trarci tutto il possibile, e così devo essere libero di utilizzare ogni cosa che in essa vi sia.





24/05/23

IL SE’ E’ L’UNICO MAESTRO PER… SE’ - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 41

Qui di seguito il quarantunesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


IL SE’ E’ L’UNICO MAESTRO PER… SE’




Il fatto stesso che la realtà fenomenica esiste è la prova prima che c’è anche una realtà contraddistinta da assenza di fenomeni. Proprio perché nella vita di tutti i giorni ogni elemento ed evento che ha luogo esiste e si può manifestare solo grazie alla presenza di un suo opposto. All’interno della mappa, quindi, l’avventuriero che è sulla strada giusta inizierà a vederne le inevitabili contraddizioni nei comportamenti di chi gli sta attorno.
Così, la pace può avvenire solo a seguito della guerra, una manifestazione di forza è messa in scena dalla persona che si sente debole, si adottano gesti che vanno a svilire il fisico e la prestanza come il tabagismo quando si vuole invece mostrarsi prestanti, si affrontano i disagi del cambiamento climatico con soluzioni che si rivelano esserne una fonte (ad esempio perché inquinanti), e infiniti paradossi quanti sono gli agenti e gli eventi nell’universo. Inoltre, le contrapposizioni sono anche nella loro finalità, cosicché lo scopo dell’incarnazione su questa terra è quello di svincolarsi dall’incarnazione stessa.
Ciò è esattamente come quando si segnalava che lo scopo di un ponte o di una mappa è quello di venire oltrepassati. Essi rappresentano la conoscenza, la quale ha senso proprio nel suo portare dall’altra parte. Colui che in nessun momento se la lascerà alle spalle è la persona che si è innamorata di tale conoscenza. O meglio, l’amare quello che si diventa tramite la conoscenza. Un amore rivolto a se stesso e che brama l’ammirazione è egoismo, ricordiamo, il quale è l’opposto di un amore incondizionato che si vive nella vera realtà libera da qualsiasi condizione. Quando ci si riconosce abitanti della vera realtà (già chiamata come Dio o il Regno di Dio) si vede solo la realtà quotidiana, quella dove riscontrare contrapposizioni e così gli oggetti da amare. Altrimenti si sarebbe soltanto amore: con la presenza della realtà materica, si trova un destinatario a cui indirizzare l’amore.
L’uomo che raggiunge la Verità, infatti, prova amore verso ogni cosa di questa realtà. Come se fosse costantemente innamorato e con un amore che contatta ciò che è oltre le forme che quegli oggetti da amare hanno. Non si tratta di un amore che è trascorrere il tempo piacevolmente, ovvero intrattenersi benché ci possa anche essere l’affetto, il legame e un rapporto intimo. Perché egli rinviene la presenza di Dio e quindi di se stesso dietro a ogni forma di questa realtà.
Se a ogni elemento dell’universo e ogni evento che vi ha luogo ne togli i nomi che vengono usati per identificarli e le forme che assumono per manifestarsi, dietro vi è la non forma, la vera realtà, il tesoro oltre la realtà materica, Dio. Dietro ai nomi che si possono dare a un oggetto e dietro alla sua forma c’è Dio; e dietro ai nomi e alle forme di tutti gli animali, persone, eventi. L’intero universo e l’incarnazione dell’umanità sono una maschera che l’Assoluto usa per rendersi manifesto ed esperibile.
Se si levano tutte le parole che possono identificarti e descriverti, se si toglie la forma che prende il tuo corpo e i tuoi pensieri, rimane l’assenza di nomi e di forme. Tu sei il travestimento che Dio usa per essere attivo in questo mondo. E questo “travestimento” è la parte effimera e mutabile che sta sopra a quella più sottile e immutabile. Riconoscersi in quest’ultima è ciò a cui deve tendere il praticante.
L’essere umano è già il Dio che vorrebbe trovare, il tesoro oltre la realtà delle forme, la Verità al di là del ponte. Allora, chi meglio di se stesso può indicargli la giusta via? Se è sicuro della presenza divina in sé, allora il proprio discernimento intuitivo è il Vangelo perfetto per lui. Tutti gli altri versetti sacri scritti finora, sono sempre il medesimo eterno Vangelo a cui tutti i maestri hanno contribuito e che non giungerà mai a conclusione finché ci sarà uomo che non vivrà la Verità. Ma la parte che personalmente uno può aggiungere seguendo le proprie intuizioni è quella idealmente a lui più congeniale. Ognuno, quindi, ha la chiave del proprio successo in quest’impresa perché tutte le persone sono diverse ma pure tutte inconsciamente sanno già cosa fare e come raggiungere la meta a cui tendono, per il semplice essere sé stesse.
Il devoto diventa davvero un iniziato alla Verità quando vede che il maestro a lui più adatto che potrebbe mai incontrare è se stesso. Si accorgerà che il corpo, la mente e la vita che gli è capitata è, per come è lui, perfetta per lui allo scopo. Seguire maestri e studiare le testimonianze da loro lasciate daranno i frutti più preziosi quando si percepirà che non saranno mai del tutto sufficienti. I più grandi maestri e profeti sono indispensabili perché con le loro parole stimolano le giuste intuizioni a emergere direttamente nella persona che ascolta. Alla Verità ci si può arrivare solo da soli. E in silenzio, perché è nel silenzio che più facilmente si possono captare le spinte che provengono dal proprio sé originale. Meno si ha bisogno di parole e più la quiete ci circonderà: lì, Dio ci parla, la nostra parte più profonda ci segnala come fare per raggiungerla, perché sia lei a prendere il comando.
Questa conduzione è una rivoluzione, in quanto fino a quel momento era il nostro involucro, il nostro scafandro (vedi capitolo 39) a segnare il passo delle scelte. D’ora in avanti sarà invece la nostra coscienza, l’unica coscienza universale; si vivrà nel mondo come si è sempre vissuti, ma è un’altra coscienza a dirigere la nostra vita e a leggere quanto accade.
Al di là del nome che io possa avere, delle definizioni che posso affiancare dopo le parole “io sono” e della forma che posso prendere in questo mondo, in verità io sono e basta. Pertanto, indipendentemente da quello che possa succedere al mio corpo e all’idea che si ha di me, io sono senza forma e senza nomi. Sono semplicemente quello che è, puro essere e quindi inevitabilmente vero e immortale. E che avrebbe a disposizione l’intero creato, sia materialmente che spiritualmente (tutti i corpi, i nomi e la conoscenza). Perché essendo l’essere l’universale coscienza, tutti gli uomini sono l’unico essere, l’unica coscienza rinvenibile dietro ogni cosa.
Non è possibile contare quante sono le ipotesi che l’uomo ha ideato nel corso della sua Storia per spiegarsi chi è e cosa sia il contesto in cui vive. Tuttavia, al trascorrere dei secoli, quelle che sopravvivono sono quelle che vedono l’essere umano una mera facciata di chi egli è veramente. C’è sempre stato un riconoscere un gioco di mascheramenti e colui che lascia tutte le certezze per giungere alla verità constata che si tratta di una concreta sovrastruttura di più piani percepibili. I quali sono in comunicazione, congiunti o separati a seconda di quanto personalmente l’individuo si convincerà. Pure nella visione del ritenersi tutti anime scisse che si uniranno all’Assoluto dopo l’esperienza terrena.
Il tempo in questo universo è ciclico, come si riconosce, malgrado venga descritto e idealizzato come una linea che prosegue diritta. Pertanto, è logico considerare che le anime ripetano ciclicamente l’esperienza della vita successivamente alla morte corporale fino a che non abbiano individualmente carpito il tesoro della Verità prendendo coscienza di sé e di Dio; e quindi, se vogliono, uscire dalla ciclicità (dalla “mappa”).
Sappiamo che non ha senso perdersi in elucubrazioni e dibattiti su quale interpretazione della realtà sia quella appropriata poiché tutte hanno ragione o torto quando rientrano tra i perimetri della realtà delle forme, della mappa che è solo una pura e semplice esperienza per potervi, in verità, fuoriuscire. Si tratterebbe, oltretutto, di questioni legate strettamente alla sua meccanica. La quale è in modo concreto come viene creduta perché la convinzione dell’individuo la renderebbe reale. Non scordiamo mai dell’equivalenza fra ciò che anima l’essere umano e Dio: l’essere umano, appunto, al di là dei limiti della sua struttura biologica e mentale, è creatore, immortale, pervadente il tutto e onnisciente, come chiarito in questo capitolo.
Facendo partire da questo punto di vista le proprie considerazioni sulla realtà, le scelte della vita e le meditazioni silenziose, il fedele potrà sempre più intercettare esperienze e capacità sublimi. Proprio come se ne terrebbe all’oscuro nel piantare i piedi sull’idea di se stesso come animale o strumento della natura oppure nella convinzione che l’esistenza sia una semplice parentesi prima del nulla senza un solido scopo se non intrattenersi, trattenersi e trattenere il più possibile.









17/05/23

IL TESORO - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 40

Qui di seguito il quarantesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


IL TESORO




La saggezza orientale ci dice che non è una casualità il corpo in cui ci si incarna e quindi la persona che si diventerà. Ciò sarebbe sollecitato in modo complementare con quanto vissuto nelle esistenze precedenti, come una sensata concatenazione di causa ed effetto che accompagna l’individuo. È il personale libero arbitrio, infatti, che contraddistinguerà la qualità delle vite che capiteranno proprio come succede per ogni singola esperienza. Ciascuna di quelle vite, possiamo ribadire, avverrebbe per mettere in scena il percorso ideale per ogni individuo per giungere alla Verità. Di tutti questi aspetti, forse a noi non interessa in modo decisivo perché capiamo che è appunto la Verità lo scopo della nostra vita. Indagare sulla fondatezza di tali processi, anche di quelli che (come desidereremmo) permetterebbero di prendere coscienza di Dio, è comunque un indagare la realtà fenomenica. La quale, abbiamo intuito, è vera solo in misura dell’apertura che ci può suggerire alla realtà che sta dietro ai fenomeni.
Questo non sottende un mancare di rispetto a certe credenze o ostacolarle perché esse sono appunto utili per il progresso al quale accompagnano. Raggiunto il quale, si sarà in grado di procedere verso il successivo. Proprio come quando si faceva notare che cercare di fare luce sul proprio sé investigando sulle proprie vite passate è identico al volerlo fare analizzando la propria infanzia. Ciò che si troverà in quelle ricerche sarà soltanto uno degli innumerevoli dettagli riguardanti noi che hanno costruito quello che si è nel presente, che era mutabile ed effimero proprio come lo è il sé di oggi seppure sta costruendo chi si sarà nel futuro. Il vero sé che si starebbe cercando, invece, è quello che non subisce condizionamenti da ciò che si vive, che è immutabile e puro, ovvero l’unico, universale Sé che piuttosto si intercetta quando si smette di affidarci alla realtà che muta.
Ciò che ero nel passato, difatti, non esiste più: si trattava semplicemente di una concatenazione di eventi atti a farmi accorgere della parte di me che non cambierà mai. Se io aprissi il mio vecchio armadio, ci vedrei gli abiti di quand’ero bambino ricordando così come ci si vestiva all’epoca. Certamente, in questo modo avrei l’illuminazione su come le mode sono cambiate nel tempo e anche potrei cogliere come le varie scelte estetiche mi hanno fatto giungere fino alle abitudini nell’abbigliamento attuale. Focalizzarsi sulla superficie della realtà, che cambia ed è liberamente interpretabile, è un po’ come quest’esempio: sono convinto di scoprire qualcosa su di me e invece starei imparando sull’esterno, la “storia della moda”.
Il proprio passato è una sequenza di vari abiti che si indossano e si sostituiscono e infine si mescolano. Parimenti è la Storia dell’umanità con i vari eventi. Verso la quale non abbiamo nulla in contrario, né staremmo sostenendo che l’essere umano sia vuoto. A contrario, ci entusiasmiamo nel constatare che la realtà che viviamo non è banale o casuale ma un’avventura concreta che ci permette di raggiungere vette impensabili. Dovremmo immaginare la vita come la spedizione di un avventuriero in un paese sconosciuto da attraversare per scoprire un tesoro inestimabile. Il quale è la Verità su tutto, anche sull’avventura stessa, prendendo coscienza di sé e della vera Realtà, di Dio. Cosicché non è fondamentale che la vita sia catalogabile in un modo o in un altro, che sia scandita in susseguenti incarnazioni o ci si incarna una volta sola sicuri che si ritornerà alla “fine dei tempi”. Tutti questi dettagli sono alla stregua di sfumature come i vari incontri, gli enigmi e le insidie che l’avventuriero dovrà affrontare per giungere al tesoro. Tali dettagli sono a lui indispensabili per la meta ma il suo scopo è solo il tesoro, come potrebbe interessargli altro al punto da metterlo al centro della sua vita al pari del tesoro stesso? Se voi sapeste di essere sulle tracce di un tesoro inestimabile che vi sconvolgerà la vita non appena lo avrete tra le mani, vi soffermereste a lambiccarvi sulla comprensione totale dei passaggi e delle strade da fare per ottenerlo? Assolutamente no, vi importerebbe solo del tesoro, tutto il resto è come il ponte fatto dalla conoscenza per giungere alla Verità di un esempio passato.
Colui che non è veramente focalizzato sul tesoro si soffermerà in un punto di quelli che dell’intero viaggio ne sarebbero solo delle tappe intermedie. Proprio come nella spiritualità è chi si concentra invece sulla religione o su una credenza specifica interessandosi a vincere la battaglia contro le altre religioni e su quella che sarebbe il giusto o il migliore credo. Non lo è nessuno e lo sono tutti, perché sono solo degli strumenti. Non appena il nostro avventuriero supera una tappa dell’avventura, se la lascia alle spalle seppure sia stata indispensabile per procedere: non ci pensa più in quanto concentrato totalmente sull’obiettivo. È stata indispensabile solo per quello: per andare avanti, lasciarla alle spalle.
Quello che nella similitudine usata è il focalizzarsi sui dettagli del viaggio, piuttosto che il viaggio vero e proprio e la meta è, purtroppo, una mancanza di vera fede nei confronti del tesoro. Forse pure un dubitare che esista per davvero, altrimenti si verrebbe rapiti dall’idea di poterlo carpire. La fede, infatti, è come un’ubriacatura che attutisce i sensi, che rende insensibili a quanto circonda e spinge così alla meta indipendentemente da cosa bisogna affrontare per arrivarci. Non è ambizione, bramosia o desiderio di possesso: genuinamente amore.
La fede porta alla certezza che vi è qualcosa di inestimabile alla fine dell’intera avventura. Oltre alla realtà finora vissuta vi è la vera realtà, il proprio vero Sé, Dio. Il restante è esclusivamente la mappa del tesoro: chi teme di sconfinare oltre la mappa vi rimarrà dentro. Egli crederà che si tratti dell’unica realtà esperibile e all’interno di essa costruirà ogni cosa, anche imperi e potenze. Eppure, malgrado quello che vi si compie, si tratterà sempre soltanto di ulteriori dettagli che vanno ad aggiungersi a quelli già esistenti sulla via per il tesoro. Il tesoro esiste e ce n’è per tutti ma è oltre qualsiasi cosa possa esserci nel mezzo della mappa. E la mappa, per l’avventuriero, è solo scenografia, un particolare che potrà aiutarlo o ostacolarlo nell’intento.
Se ricordiamo un film di avventura in cui il protagonista deve seguire una mappa del tesoro, potremmo riconoscere il paragone finora fatto. L’avventuriero può giungere anche al cospetto di grandi imperatori, ma per lui non sono nulla, solo un mero sfondo sulla strada per il tesoro. Nulla varrebbe per distrarlo dall’obiettivo. E tutti coloro che egli incontra nel corso del viaggio sono altrettante persone che potrebbero mettersi a loro volta alla ricerca del tesoro, ma non lo fanno rimanendo alle loro vite. Magari queste vite sono trascorse a pochi passi dal tesoro, vicine al bordo della mappa; parliamo di persone che avevano avuto forse una bozza di mappa oppure che hanno desistito dal continuare perché intimoriti dalla complessità o dal dover affrontare l’ultimo tratto. Ecco che quando queste persone vedranno un avventuriero procedere indomito verso il tesoro allora potranno prendere coraggio e ripartire pure loro.
C’è chi non conosce bene la strada o gli manca l’ultimo pezzo. L’incontro con l’avventuriero che raggiunge il traguardo sarà per loro l’occasione per imparare la via giusta. Fuori dalla metafora, l’avventuriero è il maestro che mostra la via. Fortunatamente, l’umanità ha avuto vari maestri che hanno colto il tesoro, seguendo i quali molti hanno allo stesso modo conquistato la destinazione finale. Quindi, ripetiamo, per tutti il tesoro finale è ottenibile.
La mappa è grande, la realtà, il mondo lo sono; tuttavia, per fortuna ci sono stati maestri che l’hanno attraversata in tutte le direzioni. Così, al di là delle moltitudini culturali e linguistiche del mondo, tutti i popoli sono incappati almeno in un maestro che in modo diretto o indiretto ha mostrato un percorso. Forse, per via delle differenze, il percorso è stato spiegato e tramandato in modi svariati ma queste sono solo apparenti perché la meta finale è sempre la stessa. Gli insegnamenti del maestro diventano una religione, una filosofia, una credenza; così che quando queste si accapigliano l’una contro l’altra, stanno solamente perdendo tempo. Il loro scopo non è avere ragione sulle altre ma carpire il tesoro. Oltretutto, questo “tesoro” è talmente sconvolgente, illimitato e inestimabile da non poter essere descrivibile poiché non vi è nulla che vi si può paragonare dal nostro punto di vista (dall’interno della mappa).
Inoltre, se uno raggiunge il tesoro vuol dire che è fuoriuscito dalla mappa, dalla realtà. Pertanto, egli potrà entrarvi e uscirvi a proprio piacimento: se ha un tesoro immenso, nulla gli è interdetto. Così, un gruppo che diventa potente detenendo gli insegnamenti per giungere al tesoro (un clero o un ceto di sapienti) non vuole in realtà (a livello conscio o inconscio) che tutti lo guadagnino in modo indiscriminato e pieno. Perché colui che esce dalla mappa non è più della mappa, in essa non crede più e non ne subirà le condizioni.
A noi importa solo del tesoro, quindi non ci soffermiamo su queste faccende che hanno a che fare con chi vorrebbe che sia questa realtà (la mappa) il proprio tesoro. Pertanto, un ulteriore strumento è la ricerca e lo studio degli insegnamenti dei maestri, il seguire le tracce lasciate dai precedenti avventurieri. Non si sta decidendo di seguire una religione piuttosto che un’altra, ogni maestro è utile se ha raggiunto la meta. Infatti, le parole di qualsiasi maestro è come se fossero pronunciate dalla stessa persona perché trattasi del medesimo viaggio che ha avuto successo a causa del medesimo tipo di fede.
Come si è già precisato, l’espressione finale di tali insegnamenti può variare al variare delle culture e delle lingue. Può darsi che dei messia dei quali si ha memoria, non sono giunti a noi gli esatti resoconti ma semmai un’interpretazione poetica, artistica per poterne facilitare la comprensione o l’amabilità. Io stesso, se fossi in grado, piuttosto che attraverso scritti teorici, esprimerei questi pensieri tramite una narrazione. E forse lo sto già facendo laddove mi faccio aiutare inventando un esempio che fa ricordare un film o una situazione contemporanea.
Comunque, noi qui ci riferiamo principalmente a un maestro specifico, Gesù Cristo, per i motivi già spiegati. E al chiarimento di questo capitolo, possiamo confessare che per l’universalità di quello che tutti troveremo alla fine del viaggio, tutti i maestri sono lo stesso maestro. E tutti i versetti sacri che argomentano di questo traguardo, sono il Vangelo. Siamo tutti all’interno della medesima mappa del tesoro e per tutti il tesoro è oltre la mappa stessa.
È molto probabile che gli impedimenti al percorso hanno senso che esistano proprio per permettere pure al percorso di esserci. Come sappiamo, nella realtà fenomenica (nella mappa) nulla può manifestarsi senza il suo opposto. In questo caso, è evidente che è grazie agli ostacoli, che la gente viene stimolata ad andare oltre. È perché esiste un divieto che viene data la conferma dell’esistenza di qualcosa al di là.









10/05/23

RISPONDERE ALLA DOMANDA “CHI SONO?” - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 39

Qui di seguito il trentanovesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


RISPONDERE ALLA DOMANDA “CHI SONO?”




Il concetto già espresso del “dimorare” in Dio, a questo punto offre ulteriori precisazioni. Si dimora nelle cose come l’acqua dimora in un alveo: il libero arbitrio, l’individuo lo esercita pertanto in che cosa sceglie di dimorare. L’acqua, per dimorare in un alveo, vi accede perché prima è stato rimosso l’argine che manteneva una separazione. Fuor di metafora, l’uomo deve pure lui decidere quali argini togliere, ovvero verso cosa arrendersi. Perché si può dimorare in qualsiasi cosa e in qualsiasi creatura. La libertà maggiore, la cima più alta, è raggiunta quando ci si arrende a Dio e in Lui si prende dimora. Ecco che se si tiene conto dell’immagine dell’acqua che prende posto in un nuovo corso, si intravede il significato che l’uomo e Dio finiscono per essere sovrapposti, confusi, uguali, concreti.
Per lo stesso principio, anche se si fosse coscienti di ciò, non lo si potrebbe mai essere appieno, malgrado sia una rivelazione riformatrice sul proprio considerare ogni cosa. Nel senso che il rendersi conto di non essere una coscienza a sé ma una cosa sola con Dio non permette di affermare anche di essere Dio se si è “qualcuno” che sta facendo quell’affermazione. Perché per poterlo affermare bisognerebbe appunto essere una coscienza separata che osserva il tutto e ne diventa cosciente.
Tale processo è l’occasione per scoprire che Dio è dentro di noi. Ma fino al momento che sentiamo di avere fatto questa scoperta oppure che siamo convinti di stare osservando o prendendo coscienza di ciò, stiamo facendo un’azione possibile soltanto se ne siamo separati: se intendiamo Dio come esterno da noi. Proprio come qualche post fa si puntualizzava che se uno è colui che produce dei pensieri, come potrebbe essere quei pensieri se ne è l’artefice?
Allora, è accettando di trovarci al cospetto di qualcosa che non si può comprendere che ci si potrà aprire a un progresso ulteriore, quello che porta la persona a non comprendere ciò che si potrebbe dire di Dio perché non è comprensibile. Il fedele diverrebbe cosciente che non vi è altro al di fuori di Dio: non possono esserci punti esterni da dove osservarLo. La coscienza della persona è la coscienza di Dio e, per la sua natura umana, la persona fa anche l’esperienza da umano di poterLo osservare e, eventualmente, inventarne un’immagine.
È l’uomo, infatti, che in realtà crea Dio a propria immagine perché diventando cosciente della propria divinità, riconosce nel corpo umano la forma di Dio. Le forme identificabili nella realtà, come abbiamo già trattato, sono appunto le forme che Dio può prendere. Rivolgersi direttamente a Lui è guardando alla propria coscienza. La quale è sempre in presenza di Dio o, se vogliamo, è la continua presenza di Dio nel proprio corpo e in questa realtà.
Si può affermare che chiunque, in qualsiasi momento della propria vita, è in presenza di Dio. Anche se costui passa un’esistenza attratto dai sensi e dalla mondanità o è ignorante delle cose spirituali. Diventarne coscienti cambierà per sempre la vita e non come quando si apprende qualcosa di sconvolgente o rivelatore perché non ha a che fare con nuove nozioni che si imparano o segreti che si svelano ma con il proprio essere più profondo, con il modo in cui si è. Un po’ come dire che si scopre veramente la propria identità e si può rispondere alla domanda: chi sono?
Se un individuo può affermare di essere Dio, non lo sarebbe effettivamente perché non ci sarebbe quell’individuo: se è Dio non può essere “qualcun altro” che si sta osservando. Egli diviene a tutti gli effetti Dio quando si arrende a questa assolutezza non ospitando più tale separazione.
Per fare esperienza in una dimensione differente da quella da cui proviene, un essere umano deve per forza dotarsi di strumenti per adattarvi il proprio stato. Ad esempio, ogni qual volta scende negli abissi di un oceano oppure si muove nello spazio esterno della sua astronave o sulla superficie di un corpo celeste con un’atmosfera diversa (o assente) rispetto a quella terrestre. Quindi, si doterà di una muta o di uno scafandro atti a proteggerlo e fornirgli con una tecnologia sostitutiva delle capacità fisiche e mentali che in quell’ambiente si modificheranno rispetto alle abitudini. Così, egli potrà fare l’esperienza in un’altra dimensione seppure subendo le limitazioni causate dall’involucro che ha addosso e che evidentemente fungerà da filtro alla naturalezza dei movimenti e della capacità di analisi.
Queste congetture servono a fare un paragone anche con l’esperienza dell’uomo nella dimensione che gli è quotidiana. Egli non è il corpo che anima, ma è l’essenza, la coscienza che sta utilizzando quel corpo che è come lo scafandro per poter fare esperienza al pari dell’astronauta che cammina sulla Luna. E questo scafandro è l’essere umano con il suo corpo biologico, la sua personalità e la sua mente, l’Homo Sapiens potremo sintetizzare.
Questo corpo che ci ritroviamo addosso è l’involucro migliore, infatti, che potremmo avere per vivere su questa terra con la sua particolare atmosfera e nelle comunità che la abitano. Senza di esso, non potremmo neppure accedervi, proprio come sarebbe impensabile per il cosmonauta uscire dal modulo lunare senza tuta spaziale.
A questo punto, dobbiamo riconoscere che se fantasticassimo che il selenita che incontra l’astronauta terrestre o il pesce che vede il palombaro sul fondo dell’oceano cercassero di capire chi si trovano di fronte, arriverebbero alla conclusione che quello è il modo in cui è un essere umano. In quella dimensione, l’essere umano non può stare senza lo scafandro, quindi per chi in quella dimensione incappa per la prima volta in un uomo non lo potrebbe considerare indistinto dallo scafandro. Questo, infine, sarebbe riconosciuto proprio come il suo corpo: la forma che ha un essere umano.
Allo stesso modo, se la persona del nostro esempio rimanesse a vivere in quella nuova dimensione, con il passare del tempo finirebbe per ricordare sempre meno la sua vera natura, la sua forma originale. Ancora meno dai suoi figli e con il passare delle generazioni, così che finirebbe del tutto obnubilata la memoria su chi e come è veramente un essere umano. Ed è comprensibile, dato che essi si sono sempre visti in quella guisa per via della natura di quella particolare dimensione. Così, nella nostra similitudine, noi ci siamo scordati della nostra vera natura identificandoci con la struttura biologica e mentale di cui siamo dotati fin dalla nascita. Struttura quindi che non è me ma sarebbe “soltanto” la muta per poter sopravvivere e fare esperienza in questa dimensione. Ci viene costruita addosso proprio perché altrimenti saremmo vacui o non saremmo concreti ed essa è infatti il meglio che potremmo avere per le caratteristiche dell’ambiente che abitiamo.
Infatti, si deve essere grati dell’opportunità che si ha nell’essere incarnati e di poter così sperimentare questa esistenza. La quale, essendo possibile solo attraverso il filtro del corpo e della mente, deve essere vissuta accettandone i limiti e anche le pratiche che permettono di vedere il corpo e la mente per quello che effettivamente sono: caratteristiche degli strumenti (del proprio involucro) che si hanno in dotazione e non del proprio vero sé. Buone pratiche, abbiamo individuato, sono quelle meditative quando finalizzate al semplice percepire la silenziosa separazione tra il sé e il proprio involucro. Se esse sono praticate invece allo scopo di migliorare le condizioni della propria esperienza in questa realtà, porteranno a un rafforzare la credenza e la forza di questa realtà illusoria su di noi (al posto di affermare la Verità). Ad esempio, meditare per stare meglio, rilassarsi, capire o alleggerirsi dal capire troppo, controllare un vizio o attrarre ricchezza, ecc. Contrariamente a ciò, come abbiamo imparato, tutto quello che si necessita verrebbe ottenuto spontaneamente come effetto collaterale.
Il proprio strumento è: la struttura biologica che abbiamo addosso, quindi l’intera gamma di esperienze materiche e sensuali che vanno anche oltre il corpo comprendendo tutto ciò che si compie ed esiste per dargli soddisfazione; la mente, quindi tutti gli edifici di pensieri che si maturano nel ciclo dell’esistenza includendo anche tutta l’intelligenza che è stata necessaria nel corso della Storia per il progresso dell’umanità. Pertanto, se tutto ciò è “solo” il mezzo così che come coscienza ci possiamo manifestare in questa dimensione, la vera esperienza qual è?
Il mio essere una persona non mi descriverebbe, perché quella persona è lo strumento che la mia coscienza adopera per manifestarsi. E pure il mio essere un artista, un italiano, un marito, un Homo Sapiens e, infine, anche l’essere coscienza. Se si mette da parte tutto ciò, quello che rimane è soltanto l’unica Coscienza, l’unico Sé, che essendo un Uno non può ospitare nient’altro. L’uomo, essendo quella Coscienza, alla domanda “chi egli è” può rispondersi solamente che egli “è”. Non può aggiungere nulla a causa dell’universalità della Coscienza che, pertanto, è solo quello: egli può esclusivamente “essere”.
Tutte le parole che posso aggiungere dopo la definizione “io sono” non stanno veramente descrivendo chi sono, ma solo lo strumento che uso e che, per sua natura, cambia continuamente. Allora, il mio affermare di essere un artista è una bugia visto che vent’anni fa non mi sarebbe mai passato per la mente di definirmi così; proprio come il dichiarare di essere un essere umano. Sono entrambe menzogne, o meglio: illusioni di questa realtà oppure, come abbiamo ultimamente puntualizzato, gli espedienti che la vita crea per portarci alla Verità.
Questa realtà non potrà mai per davvero dirti chi sei e, perciò, neppure tu (inteso come componente della realtà) ne avresti la capacità. La meditazione accompagna verso un rendersi conto di tale distinzione e così che pure quello che credi essere te non esiste per il fatto che la parte vera di te è la coscienza, la quale è scevra da definizioni per il suo essere universale e unica. E, oltretutto, presente in ogni cosa: l’unica Coscienza che, se vogliamo, possiamo anche chiamare Dio e che è la vera realtà. È sorprendente che si possa rinvenire questo profondo epilogo del nostro progresso nelle Sacre Scritture già chiaramente svelato all’inizio della stessa Bibbia, quando Dio si presenta con la spiegazione “Io sono colui che è.”
La caratteristica di unicità e universalità della Coscienza, del nostro vero Sé che è Uno, è la vita stessa. La quale può anche prendere forma in qualcosa di caduco e transitorio come la realtà materica. Nella Sua totalità, la Coscienza non può che essere creatrice, e per esserLo non può che essere innanzitutto amore. Un amore che diventa creatore quando è rivolto verso ciò che non ha una forma; mentre amare ciò che ha forma è amarne il surrogato. Questo non significa che è vano il sentimento rivolto alle cose e alle persone di questo mondo, ma si intende che nell’amare le cose di questo mondo si diventa creatori. E si intercetta la vera realtà, Dio, la Verità quando si ama oltre la forma che quelle cose e persone assumono.
Allora, la vita è come se fosse attratta e si aizza quando si va verso la vita e quindi oltre la superficie, oltre le forme: non un amare le cose del mondo per via della loro forma, benché bella e seducente. Quando si sta insieme, quindi, un vero amore sussiste nel momento in cui si intercetta e vive qualcosa che è oltre il nostro mero essere partner, amici, famigliari. Nel momento in cui ci si affeziona alle forme delle cose, si ama solo la superficie e si potrà assistere a quest’esperienza amorosa come qualcosa che finirà prima o poi. Proprio perché la vita si accende quando si va oltre e si svilisce quando si galleggia sulla superficie, anche se lo si fa con sentito trasporto e passione. È un’ulteriore rivelazione che questa realtà, considerata un contesto che ospita forme, è esclusivamente una scusa per aprirci al mondo oltre le forme. Difatti, tutto ciò che si finisce per apprezzare delle forme proviene comunque sempre dalla sostanza che le plasma, dalla “assenza di forma”. Quando si riesce a portare qualcosa del mondo oltre le forme all’interno di una relazione (nel mondo delle forme), quello è il reale amore che è la vita.





03/05/23

VEDERE LA SEPARAZIONE PER VEDERE L’UNIONE - IL GIORNO DELLA SALVEZZA capitolo 38

Qui di seguito il trentottesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto 

IL GIORNO DELLA SALVEZZA


che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima EdizioniSpero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.


VEDERE LA SEPARAZIONE PER VEDERE L’UNIONE




L’esperienza della propria coscienza avviene mentalmente, attraverso i pensieri. La vita in questa dimensione, infatti, è un’avventura psicologica che porta, come conseguenza, a identificarsi nella propria mente. Invece, l’uomo è la coscienza e non i pensieri che sorgono nell’esprimerla e scoprirla.
Se fosse possibile riscontrare ed esprimere la propria coscienza attraverso il corpo fisico, l’uomo finirebbe a identificarsi innanzitutto in quello. Crederebbe che egli sia i propri gesti, movimenti, gli arti e i vari organi del corpo. Ma tutti questi sono solo gli strumenti che la coscienza adopererebbe per manifestarsi. Proprio come fa con il lavoro mentale poiché viene rinvenuta attraverso i pensieri.
La pratica della meditazione fa stare con se stessi individuando i pensieri come elementi del proprio corpo alla stregua di un braccio o i polmoni. Così, mentre si medita, allo stesso modo si percepisce il peso del braccio rilassato, i polmoni persistono con la respirazione e la mente distrae con i pensieri. In quel momento, non serve dare importanza ai pensieri o sentirsi sopraffare dalla difficoltà nel controllarli o arrestarli come, appunto, non avrebbe senso preoccuparsi dell’insistenza dei polmoni nel respirare. In entrambi i casi, è il loro lavoro: quando ci si accorge di questo, i pensieri finiscono per essere una sensazione sì continua ma di sottofondo e quindi che non disturba in realtà o che necessiterebbe di un forzato controllo. Proprio come è la percezione della respirazione e di qualsiasi altra attività costante del corpo. L’accorgersene come da un punto di vista esterno ci dà la prova, inoltre, che questi sono tutti elementi di qualcosa che seppure è noi, perché è da noi percepibile, non è intrinsecamente noi. Noi siamo la coscienza, tutto il resto è lo strumento che la coscienza usa. Un corpo fisico, mentale ed emozionale, come c’è già capitato di tentare di identificarlo. Il quale, bisogna accettare che rimanga in attività in quanto vivente. Non è come l’automobile che non appena si gira la chiave si spegne totalmente.
Così, meditando si arriva a cogliere che nella nostra persona caratterizzata da emozioni in continuo movimento e distrazione, un corpo biologico che un giorno cesserà e la mente che analizza il tutto, vi è una parte che rimane sempre presente, accesa e permette la propria soggettività. Questa è la coscienza, la quale, malgrado quello che capita al resto della persona, ne è una presenza immanente. È la coscienza, allora, la parte di noi genuina e reale: tutto il resto si trasforma di continuo e a un certo punto finirà. Il resto della persona, quindi, è la parte trascendente perché facilita l’intermediazione della coscienza con il resto, con ciò che coscienza non è. Ovvero, permette alla coscienza di “sentire” oltre se stessa: il distaccamento dell’onda, come si è immaginato qualche post fa. Infatti la coscienza è la nostra parte divina, pura, universale: il punto dal quale potersi aprire oltre noi, sperimentare quanto ha a che fare con lo spirito. È l’unica coscienza universale, concentrandosi su di essa si avverte la presenza di sé che equivale ad avvertire la presenza di Dio, di quell’unica coscienza. L’essere coscienti di questa unicità e unità è la vera realtà, unica coscienza e unica entità.
Se ci si focalizza sull’universo e su un singolo corpo umano, si potrebbe constatare che tutti e due sono estremamente molteplici e complessi così che un corpo possa essere un universo per gli organismi infinitamente più piccoli che in esso vivono. Microrganismi che costruiscono organismi più grandi e strutturano delle organizzazioni all’interno delle quali compiono il proprio ciclo vitale. Essi, infatti, se analizzati sul loro piano possono essere valutati (magari con uno sforzo di fantasia perché il nostro punto di osservazione è troppo distante e imponente) come intelligenti e forse anche coscienti. Nella loro individualità, però, essi sono tutti componenti della medesima entità, il nostro corpo. È nella stessa inconsapevolezza che il singolo essere umano ha difficoltà a considerarsi come parte di un’entità maggiore di sé. Ma di cui egli, per il suo semplice esserci, lo è.
Il praticare tali riflessioni e la meditazione portano a prestare attenzione alla fusione con il tutto. Comunque, si tratta di un processo graduale che parte da un commentare ogni cosa che si scorge quando ci si guarda attorno come parte di un’unica entità. Difatti, come per la persona incline al mettere i sensi e il proprio corpo al centro della propria attenzione ogni cosa che scorge è occasione di un’eccitazione sensuale, così chi tende alla spiritualità trae da tutto ciò in cui incappa un motivo per accorgersi di un “oltre”. Magari all’inizio sarà un lavoro di immaginazione o di ragionamenti e solo in seguito realizzerà che in tutto ciò che si individua come un’unica entità c’è pure chi osserva, quindi anche l’osservatore è quell’entità.
Si sospetterà che se ogni cosa è quell’unica entità, allora non posso esserci io che la sto osservando. Perché se la osservo allora non è più unica, saremmo in due. A quel punto, svanisce pure l’idea di esserci. Scompare pure l’osservatore perché io sono l’oggetto che stavo osservando: essere l’osservatore era una mera illusione finalizzata solo a tale scopo. Altrimenti sarebbe come credere che ci siano due persone nella stanza quando ci si guarda allo specchio.
È a partire da questo momento che pure l’intera realtà in cui si abita appare come questa illusione atta a farmi accorgere che esiste solo l’Uno. Come l’onda del mare era l’espediente per far vedere all’onda che tutto è mare e, di conseguenza, che essa stessa non esiste come onda: è anch’essa mare, è il mare.
Come già precisato altrove, questo non deve portare a considerare la realtà materica come una prigione, una punizione o una condanna in quanto la vera realtà è oltre. Essa è l’espediente perfetto creato apposta dalla vera realtà (da Dio) per fare accorgere di essa. Nell’esempio dell’onda: è come se il mare avesse inventato appositamente il vento per permettere la creazione dell’onda. Pertanto, si tratta di un gesto amorevole del quale si deve sempre ringraziare e non lamentarsi.
Anzi, come notato in più occasioni, esso si dispiega di fronte a ciascuno di noi nella maniera ideale perché si possa infine aprire gli occhi. Così, se si tratta lo scoprire la verità su di sé e sulla realtà come il motivo stesso per cui esiste un sé e la realtà, allora si scopre pure che ciò è lo scopo della vita. Tutte le cose che capitano a una persona non sono finalizzate a renderlo felice, soddisfatto e realizzato ma per farle fare questa scoperta. Felicità e serenità giungeranno come effetto collaterale all’impegno e al successo in questo obiettivo.
I personali traguardi che riguardano i desideri, la carriera, ecc. verrebbero raggiunti o mancati non perché fini a se stessi ma allo scopo di avvicinare sempre più la persona al suo vero obiettivo: la Verità. Ad esempio, un individuo che desidera ottenere successo in un campo della vita, se lo dovesse ottenere, non dovrebbe considerarsi appagato e quindi “arrivato”. Tale successo è solamente la via che la vita ha trovato per aiutarlo a raggiungere la Verità. Questo è il motivo per cui il suo senso di soddisfazione non potrà essere completo se ricercato solo negli effetti derivanti dal successo. Cosicché gli continuino ugualmente ad accadere fatti nella vita al fine di scoprire la Verità. Anche quando egli dovesse invece interpretarli come avanzamenti o fallimenti sulla strada dell’ottenimento dei personali desideri.
Tant’è che ogni cosa che capita è una facilitazione per la strada della Verità (della salvezza). E quindi da accogliere e ringraziare come ricordato poc’anzi. Anche se questa apparisse come un successo tutt’altro che spirituale o un insuccesso che corrompe.
La macchinosità in tale dinamica e l’eventuale impossibilità nel controllarla non devono scoraggiare il fedele. Né tantomeno il compiacersi dei trionfi o dei fallimenti deve arrogare la decisione di credere solo nelle proprie possibilità e nei propri risultati. La pratica e la fede fin qui garantite sono la modalità per poter affrontare una simile rivoluzione. Possibile, ripetiamo, se ci si arrende alla constatazione che tutto ciò e quindi tutto quello che si è, è qualcosa di infinitamente più grande di noi e di quello che possiamo controllare. E, allora, un arrendersi, un lasciare fare a qualcosa che non potremo neppure comprendere.