30/04/14


Che succede ai curatori?
In ogni testo di presentazione o critica di una mostra, di un'opera, di un artista, il curatore adopera dei riferimenti ad altri artisti e ad altre opere per rafforzare gli argomenti. Ho notato che dall'anno scorso fra queste citazioni sono aumentate quelle collegate ad artisti presenti alla mostra della biennale "Il palazzo enciclopedico". Ovviamente, è possibile che la frequenza del portare ad esempio artisti di quei livelli sia perché essi sono tra i più esemplari e conosciuti; tuttavia, spesso viene proprio messo in luce il discorso che su di loro viene fatto nel catalogo della biennale e la loro opera lì pubblicata.
Sarà che io ho l'abitudine di guardare le figure piuttosto che i testi, ma non appena leggo il titolo di un'opera di un artista noto citata in una presentazione di un curatore, all'istante mi viene in mente la sua opera presente nel catalogo della biennale e... ci azzecco.

29/04/14


"un ricotruttore è in un qualche modo un regista "per procura"".
Ray Edmondson, Etica e principi del restauro.

L'ambizione di portare un'immagine a un probabile stato successivo ha come conseguenza la creazione di nuove realtà percettive. Tutte le operazioni verso questo intento ingrandiscono la separazione tra la condizione futura dell'immagine e il suo aspetto di base, di partenza che possiamo definire come "modello", "prototipo". Il risultato di un simile intervento bisogna considerarlo uno sviluppo, che realizzo elaborando l'immagine: attraverso una privazione o un sovraccarico di informazioni. Da un punto di vista teorico, questo processo può essere paragonato a un'ulteriore scrittura accostabile per somiglianza a quella che già esiste nell'immagine di partenza (primitiva o meno evoluta), di cui essa intende esserne l'evoluzione. D'altra parte, se non ci si avventura in tale impresa, sarebbe come ammettere che si possa per davvero bloccare una porzione della realtà in un'immagine (seppure le nostre percezioni non sono in grado di afferrarlo e quindi affermarne l'esistenza), e non solo: congelare anche la stessa immagine in un dato istante della sua esistenza (del suo progressivo invecchiamento (di senso e di materia), della sua collocazione nel contesto...), e far finta così che non abbia una storia. Proprio come avviene quando cerco di sforzarne il corso.
Si può dire che il mio modo di rielaborare un'immagine è da una parte smantellamento e cancellazione delle qualità palesi, come un bisogno di ribaltamento o meglio di creazione (ex novo), dall'altra è pratico a un'attualizzazione che si deve in un qualche modo affrontare (anche solo per sperimentare la realtà o la personale percezione di essa) e a un suo riconoscimento nel/per il presente.
Certe volte, ho il sospetto di essere ossessionato dalla fotografia, ma risolvo rendendomi conto che le foto (e qui si intende esclusivamente le stampe fotografiche) non sono immagini statiche, ma in movimento. Sono viventi, delle creature, come degli animali: carichi di espressione (per non dire personalità), crescita, ciclicità, chimica che reagisce ed errori incorreggibili. Maggiormente rispetto a un'altra pratica artistica che è più statica (compresa la pittura), e anche rispetto ai prodotti digitali, informatici, ai robot fantascientifici, le fotografie possono essere trattate come un'altra specie vivente.

25/04/14


Lavorare molto, specialmente restando a casa davanti al computer, mi ha fatto scordare che avevo l'abitudine di fare qualcosa di meraviglioso ogni volta che uscivo di casa. Lavorare così tanto e lo stare a casa sono motivati anche dal mio particolare stato: "al verde". Così, ho deciso di uscire per rompere questa ragnatela e fare comunque quello che voglio, cioè andare a visitare i miei amici sparsi per il Friuli. In particolare lo scrittore Emanuele Franz che non si può muovere dal suo paesino in mezzo alle Alpi, e tra poco partirà per l'Asia.
Avevo bisogno di un break.
Così, ho dovuto viaggiare in autostop e intendo ripartire anche fra qualche giorno, per raggiungere altre persone.

Friuli far west o balcanico:


23/04/14


Vedere come arte contemporanea anche il parlare (in questo momento) di arte, il lottare per il proprio lavoro e considerarlo pure nel crearsi dei contatti per farsi conoscere. Discutere su questo è ciò che più mi ha dato vitalità dall'incontro di ieri con il collezionista Fasol.
Sicuramente l'incoraggiamento migliore da un bel po' di mesi a questa parte.

19/04/14


Se per creare le mie immagini uso fotografie stampate, provenienti dalla pellicola e non da una macchina digitale, se uso quindi film e tecnologie sorpassate e svalutate, è normale che io poi non sia al passo con le novità, che non conosca tutti gli aggiornamenti più recenti o che non mi seducano e magari possa sembrare anacronistico. Perché mi immedesimo con un periodo passato: quando c'erano le macchine che fotografavano a pellicola, ecc. ecc. E' spontaneo per me immedesimarmi.
In questo modo, diventa più verosimile l'immagine che vado a creare; se usassi la pellicola e contemporaneamente assecondassi un interesse per il moderno, sarei meno persuasivo. Ne verrebbe fuori un lavoro falso e sterile anche se perfetto da un punto di vista dell'aspetto. Non vado comunque troppo indietro nel tempo perché non posso confrontarmi con chi in quel periodo creava con la fotografia: è come se dovessi sviscerare un'opzione rispetto a quanto è stato allora realizzato, come una sorta di pratica artistica rimasta nascosta. In realtà, è come se riprendessi il filo del discorso contribuendo con l'esperienza che si è aggiunta fino ad ora.
Più che altro si tratta di un procedimento che serve a me per lavorare al meglio, con onestà. Non sono sicuro che dall'esterno possa essere compreso, specialmente perché ci sono persone che credono che la mia sia una scelta superficiale e non estetica e poetica: se sento ancora qualcuno (ricordo che siamo nel 2014) che usa ancora l'epiteto "alternativo", lo sbatto al tappeto. (vedi qui sotto un K.O. filmato a pellicola)


18/04/14


Ho visitato un piccolo gruppo di case abbandonato con Lara. Molti luoghi ho deciso di non fotografarli perché erano troppo brutti e altri perché troppo belli.
Sto rifinendo il testo di una nuova performance di Kriptoscopia che si chiamerà "Il sermone di Kriptoscopia". Sarà un rituale.

17/04/14


Vuol dire che rapportarsi ad una fotografia è un'azione mentale, perché guardare significa capire. In questo caso deve essere invece un'azione esclusivamente fisica. Questo punto di vista mi permette di spingermi verso l'evitare di rappresentare nell'immagine quale dovrebbe essere la reazione del pubblico nel vedere l'immagine: l'artista deve mostrare di non cogliere la reazione che vuole suscitare nel vedere la sua opera.

15/04/14


Le osservazioni che ho fatto riguardanti il mio considerare una fotografia prima di tutto come un oggetto oppure come materia, hanno mosso delle critiche; o forse non sono state effettivamente capite, non ho spiegato in modo chiaro.
Intendevo dire che non bisogna soffermarsi su ciò che è rappresentato nell'immagine della fotografia. Cioè una fotografia rappresenta soltanto una fotografia.

14/04/14


Oggi mi sono fermato e ho ragionato su un progetto di sound art; è solo un pensiero, non sono ancora in grado di immaginarlo. Si può dire che si tratta di una modalità per diffondere dei suoni, in fase di concetto e non ancora di tecnica.
E' stato improvviso ma lo aspettavo da un pezzo. Sono molto fiero della sua originalità, seppure in questo momento non so neppure come spiegarlo. Non è così scontato che capire e spiegare siano in accordo nell'arco della stessa giornata.

12/04/14


Tra i motivi che hanno a che fare con la creatività, che mi inducono ad approfondire l'esperienza delle residenze d'artista all'estero, ci sono alcune riflessioni partite da un mio progetto riguardante lo studio dell'arte classica (si trova un esempio qui: http://www.premioterna.it/pt04/mobile/opera/all-rome). Si tratta di un tema importante perché secondo me è molto comune per un artista italiano ritrovarsi a dialogare con i Classici, la storia dell'arte e ciò che è venuto prima di noi. La ragione è che il Paese è sovrabbondante della presenza del passato, e lo s’incontra ovunque e facendo una qualsiasi attività. Quindi, per me, cercare di coinvolgere la mia produzione personale con ciò che è suscitato dalla nostra cultura e dal contesto, fa parte di un percorso di lavoro, almeno durante la fase di studio dell'opera. Questo proviene direttamente dall'osservazione e dalla fruizione di ciò che incontro intorno a me. Per me, questo atteggiamento o caratteristica determina l'artista "italiano": forse se fossi all'estero e quindi non trovando queste condizioni, non sarei un artista italiano? Questo è il motivo per cui sono interessato a replicare tali procedure fuori dall'Italia.
Nelle mie esperienze all'estero, mi sono spesso reso conto di differenziarmi dagli altri artisti specialmente per il modo in cui porto avanti le ricerche che costituiranno un lavoro. A volte, rispetto al contesto, ho avuto il sospetto di elaborare le mie cose e anche il giudicarle e giudicare quanto trovavo proposto nelle mostre, in un modo atipico. Oppure sono semplicemente io così...
Ho intrattenuto un discorso via mail con dei curatori tedeschi a proposito di questi pensieri, proponendomi per una residenza. Il fatto che abbiano smesso di scrivermi potrebbe significare che siano rimasti convinti oppure... l'opposto. A mio avviso, non trovo che queste riflessioni siano infondate perché influenzano anche in modo trasversale; però forse sono raccolte meglio da qualcuno che conosce in modo diretto il territorio italiano.

10/04/14


Per collegare tutti i testi fin qui scritti.
Le mie opere utilizzano la tecnica della fotografia, del video e della performance e sono influenzate dagli esperimenti multidisciplinari sulle relazioni reciproche tra suono e immagini. All'inizio, qualche anno fa, ho eseguito performance coinvolgendo i passanti che casualmente incrociavo nelle strade. Le performance erano ispirate da mie poesie e le ho poi tradotte in lavori fotografici. Da qui, mi sono mantenuto un infaticabile viaggiatore: il diverso ritmo di ciascuna città costituisce un'influenza necessaria nei miei progetti.
Molti lavori fotografici elaborati in studio, appaiono non ancora terminati; come se ne fosse stato interrotto il processo di composizione e ancora oltre si potrebbe andare aggiungendo o sottraendo elementi. La superficie della pellicola diventa un campo su cui mettere alla prova la percezione visiva della realtà. Ogni opera parte da un'immagine reale, una fotografia, che raffigura un’esperienza della vita riconoscibile da tutti, su cui inizio a modificarne l'aspetto aggiungendo o sottraendo elementi. Non è cercato un procedimento abituale e premeditato: il sottrarsi di varie immagini e di varie pellicole permette la mutazione del visivo. L'avanzamento avviene per intuizione ed è tutto ciò su cui mi concentro privilegiando il lato estetico che raggiunge un aspetto astratto, piuttosto che quello figurativo, descrittivo. Il risultato è un generale senso pittorico, seppure si tratta di composizione fotografica; da qui il senso di ambiguità che suscita ogni quadro, oltre al sospetto che siano incompiuti. Si esita anche di fronte alle superfici su cui sono intervenuto materialmente, poiché viene mostrato un conflitto con lo spazio del quadro attraverso un lavorio di danneggiamento o mancanza di rispetto nei confronti della carta su cui la foto è stampata. Diversi livelli sormontati, mescolati, che si accavallano grazie a graffi o piegature non permettono all'osservatore di soffermarsi su una linea, una forma, una sfumatura. Gli elementi entrano in contraddizione fra loro a causa di uno stato emotivo agitato e ansioso che mi anima al momento della composizione. Seppure ogni lavoro è anticipato da riflessioni e studi, il momento della sua esecuzione è breve, repentino: è il momento in cui il mio immaginario di indefinitezza e precarietà del reale incrocia il materiale, il fisico.
Per mantenere un gioco di rimandi tra i miei mondi reali e immaginari, impiego per questi processi principalmente fotografie rinvenute per strada o negli edifici abbandonati che visito. Utilizzo, pertanto, la testimonianza del vissuto di qualcuno e lo avvio ad una metamorfosi. Tuttavia, non considero mia esclusiva la possibilità di tradurre una polita scena reale in qualcosa di estraneo, ma di ciascuno di noi; è la difficoltà di comunicare che rende unico il mio punto di vista: il senso di alienazione che suscita il mio lavoro è la prova di quanto l'uomo non sia nelle condizioni di esprimersi liberamente. In questa condizione, sono allora presenti diverse fasi di lavorazione distinte che ribadiscono la possibilità di entrare in conflitto fra loro: la casualità nel ritrovamento di immagini, l'intervento meticoloso e preciso sulla pellicola, la sua riproduzione in digitale per un adattamento che permetta la stampa, un ulteriore smantellamento materiale della stampa scandita da un ritmo nervoso che paradossalmente comporterà un risultato aperto ad imprevisti e casualità. Tale lavorazione propone un dialogo tra le tecnologie analogiche, quelle digitali e l'azione manuale ovvero sul ruolo che oggi ricopre la tecnologia e l'informazione tramite il confronto tra automatismo meccanico e digitale ed espressione individuale e impulsiva.
Più che un metodo per riportare il mondo attorno a sé, per me la fotografia è una pratica mentale, poetica, forse spirituale generata come modalità per smontare i segni visivi che incontro e a partire da loro, inventarne di nuovi: un mondo nuovo, in cui più realtà si sovrappongono, si smontano e si associano di continuo. Nei miei progetti, studio e rimetto in scena la storia completa della fotografia, dalle sperimentazioni con componenti obsolete alle inventive artistiche di un secolo fa fino alla commistione con la pittura. Praticando l'intera gamma delle possibilità e tecniche fotografiche converto il linguaggio visivo con nuovi segni caricati di emotività e simboli. Sono interessato, quindi, alla fotografia come oggetto e non come medium, infine sulle sue possibilità formali più che descrittive o di denuncia. Realizzo i miei lavori in serie suscitando una relazione fra ciascuna immagine: ogni pezzo, in una serie, ha lo stesso titolo che indica un'unica opera che si sviluppa in svariati progetti in comunicazione. Per realizzare un nuovo linguaggio, cerco di inserire quanto mi convinco di vedere nei sogni e nelle visioni, motivato dalla certezza che ogni individuo condivide una coscienza comune dalla quale provengono gli archetipi e i miti.
La confusione dei miei lavori è quindi organizzata a suggerire una sorta di energia che l'individuo si porta dentro e che può presentarsi con un simile lento ammassare immagini trovate e fonderle su più strati. Ogni lavoro lo si può considerare come testimonianza di un'azione, di un progredire o di uno "strabordare" del mondo interno e quello esterno.


Per completare il testo precedente: il modello sono le apparenze. Le quali sono come rifrazioni, quindi effetti ottici; quindi tutto ciò che potrebbe essere effettivamente visibile.
Come se non riuscissi a vedere ciò che ho di fronte ma mi sforzo di mostrarlo. Davanti alla nebbia mi muovo in modo confusionario, non ordinato. Nel senso che non so perfettamente cosa sto facendo ma intuisco la strada da prendere. Non bisogna confondere tutto ciò come una mera ricerca di un mondo nuovo o una proposta di alternative alla nostra società, perché io parto dalle immagini del nostro quotidiano: per me questa società è un valore fondamentale per il mio lavoro. Un valore positivo o negativo a seconda se riesco a creare delle opposizioni, delle crisi durante il lavoro. Non è mai una debolezza.


08/04/14


Negli ultimi giorni sono rimasto bloccato, malato, e così ho avuto un po' più di tempo per pensare. Ho pensato alla bellezza, e guardando ai miei lavori, ho cercato di capire se mi piacciono, se genericamente piacciono. Sono convinto che possono piacere per qualcosa che suscitano nell'osservatore oppure per la loro curiosità, particolarità, mistero... Di certo, non sono belli, perché la bellezza sta dove si respira un'atmosfera di completezza. Non è semplicemente "ordine" ma sapere o percepire che gli elementi che compongono quell’atmosfera siano al posto in cui dovrebbero essere, misurati, adatti, che siano giusti. Che vengono aggiustati da tutto il resto o lo aggiustino.
In un'immagine invece che non è integra, ma parziale o imperfetta (come nei miei lavori), non dico che non la posso trovare la bellezza, ma che non vi è possibile riconoscerla all'istante. Non offre l'armonia, l'interezza, alla quale si associa la bellezza.
Sono convinto che quando lavoro ad un’immagine forse non sto pensando in primo luogo alla bellezza, ma piuttosto alla correttezza. Come a dire che la composizione abbia una legge, seguendo la quale si siano arrangiate quelle forme e se ne possa giustificare la presenza. Spesso, le stesse leggi non sono tramandate da lavoro a lavoro, e per ognuno c'è una loro variante, una costituzione a sé secondo il background dell'immagine.
Quand'ero bambino, il gioco che facevo più insistentemente era disegnare cartine geografiche di mondi che non esistono. Vi inventavo la struttura fisica, la divisione politica, la distribuzione delle città e della popolazione a seconda di un ipotetico sviluppo storico ed economico, infine i nomi per ogni località a seconda della lingua parlata che improvvisavo. Lo stesso, immaginando una sorta di zoom, disegnavo la mappa stradale e la toponomastica delle città. Ecco, credo che sia questo il mio modello.

03/04/14


Quando definisco l'immagine come una rappresentazione di informazioni, non intendo che è una rappresentazione di un pensiero. L'immagine, attraverso le informazioni contenute, non mette in scena un pensiero, un concetto, un aspetto, una creazione, ma lo è. In altre parole, è come se fosse un lavoro di trasposizione: le informazioni si tramutano in uno stato di pensiero, che si traduce in un'immagine, la quale poi, se ad esempio fosse spiegata a parole o con un testo, diventerebbe un'altra cosa ancora. Ovvero, ogni diverso modo di tradurre le informazioni apporta una distinta interpretazione. Se io con la mia elaborazione ho creato un pezzo a sé a partire da alcune informazioni (una fotografia o sue parti), in un modo identico bisogna considerare ciò che deriva dal pezzo che ho realizzato: sono ulteriori interpretazioni e quindi a sé stanti. Non voglio screditare l'originalità della produzione di un artista, ma considerare come fondamentale che può essere vissuta e letta in svariati modi. Questo comprende anche la documentazione fotografica di un’opera, il testo critico, la collocazione del pezzo all’interno dell’area espositiva...: è il senso attorno al quale l'arte acquisisce valore e dignità. Forse, artisti si diventa quando si sa bene che quello che si fa è solo un’interpretazione di informazioni connessa non all'autore ma a chi legge l'opera.
Come autore, sono nell'attesa che qualcosa di completamente opposto potrà accadere: fare un'opera che permetta una sola interpretazione. Innanzitutto, c'è da specificare che questo momento lo attendo ma non lo desidero: mi sentirei finito e persisto nel vedere ancora esplorabile il mondo degli equivoci. Tuttavia, ogni tanto, mi sembra che stia per emergere: inizio un lavoro e già vedo al primo tocco che quel segno potrebbe dire tutto, cioè che il pensiero sarà leggibile proprio come voglio che venga letto. Ma poi scorgo che potrebbe essere colto da un altro punto perché vedo che un esercito di roba banale avanza. E' come se ogni volta l'immagine possa essere invalidata, che non si potrà mai manifestare un pensiero in maniera da apparire come un'inequivocabile riflessione (arte corale direi, visto che sarà unica per tutti e l'interpretazione principale (che fa l'opera un'opera d'arte) è di chi legge, non di chi scrive). Tenendo conto che è questa la caratteristica dell'arte o della mia arte, non mi scoraggio troppo per la mia inettitudine. Anzi, sono sicuro che prima o poi il "coro" giungerà.
Come lettore di un'opera d'arte, mi sento spaesato (che non ci capisco un cazzo) quando sono davanti ad un'opera d'arte. Quanto l'adoro quel momento.

02/04/14


Nelle mie immagini prevale l'effetto sfocatura perché permette di mescolare le informazioni presenti nelle fotografie. Lo sfocato mette tutto allo stesso livello, lo annacqua: gli elementi principali con quelli di contorno e così le loro linee e colori. Come già detto precedentemente, questa caratteristica (che è nella quasi totalità delle immagini) manifesta innanzitutto il rapporto che ho io con la realtà (rappresentata nella foto), ovvero la mia incapacità nel provare sentimenti di sicurezza e stabilità verso ciò che ho davanti agli occhi (base della mia estetica). Ripeto anche che non è il centro del mio lavoro, o, peggio, il motivo, come a dire che ho trovato una soluzione originale per presentare le immagini e pertanto la replico: in realtà, succede che basta che scenda un po' la luminosità e non riesco più a distinguere ciò che è lontano da ciò che è vicino... Vedi, come esempio, il ritratto sottostante fatto a Michele ad ottobre. Devo dire che mi piace essere alla mercè di qualcosa di così pesante e doverlo fronteggiare: spesso mi accorgo che il desiderio di realizzare un’immagine è mosso da quello di affrontare una sfida.
Quando affermo che è così che io vedo, tra l'altro, intendo che non voglio ammettere che ci sia qualcosa di preciso e finito in ciò che ho di fronte (base della mia poetica), ma anche che ho effettivamente dei problemi di vista a causa dei quali ho difficoltà a percepire a fuoco. Questa facilità di perdere la messa a fuoco devo di certo riconoscerla come il punto di partenza dei miei dubbi sulla stabilità e unicità della realtà... Ricordo che quando ho deciso di non portare più gli occhiali, a vent'anni, ho faticato molto a vedere in modo chiaro, poi mi sono riabituato a questa sorta di facilità nel cascare nello sfocato...
Per ricercare lo stesso effetto anche quando lavoro manualmente, ricopro l'immagine con resine oppure delle colle per sfumare i contorni. I pennelli sono addirittura troppo precisi per i miei intenti e così ho lasciato che s’incrostassero per usarli come spatole, anzi, visto che sono grossi e grossolani sembrano più dei tergivetri.
Qui deriva la mia insofferenza nei confronti della critica indirizzata all'estetica delle mie immagini (o più semplicemente al loro aspetto). Vale a dire che ho scoperto, riconosciuto e costituito un mio mondo caratterizzato da delle precise convinzioni e posizioni, sicuramente derivanti dal mio background come pure dal mio difetto visivo sopra spiegato. Pertanto, se uno vuole in modo idoneo criticare i miei lavori, deve entrare in questo mondo. Oppure, si mantiene in una critica basata sul comparare fra loro le diverse cose che ho fatto negli anni... E' un discorso arrogante? No, perché suggerisco anche come fare: cercare di vedere in modo distinto i dettagli di ciò che si ha davanti al viso... nuotando sott'acqua.



Quando utilizzo la fotografia per costruire delle composizioni, non è vero che scelgo la foto di partenza a seconda del suo contenuto. Mi è stato fatto notare che tendo a scegliere i soggetti più inediti o eccentrici. Invece, la realtà è che un contenuto di "straoridinarietà" si può scorgere un po' in tutti gli scatti, pure una scena quotidiana contiene elementi attrattivi. Anzi, più la situazione rappresentata è banale e più ha sostanza perché fa parte delle nostre esperienze di tutti i giorni e quindi abbiamo verso di lei delle aspettative che più facilmente potrebbero venir disattese o confermate. Ad esempio, le foto noiose di un pranzo in famiglia ci destano curiosità proprio per quelle differenze o uguaglianze anche piccole che potremmo scorgere confrontandole con le personali esperienze di un pranzo o nell'arredamento, e così via. Se cercassi foto con soggetti fuori dall'ordinario non mi tornerebbero neppure utili, non saprei come usarle e giustificarle.
Spiegato questo, ripeto che non è comunque importante il soggetto, è più che sufficiente pescare in un album qualsiasi. Da questo punto di vista, la foto, infatti, non è giudicabile; ed è qui che ne ricavo la valenza: è come se fosse qualcosa di aleatorio o solo suggerito. Già ho scritto in passato che le foto le vedo solo come forme, quando le lavoro, mentre quando le osservo, le considero e le studio, come se fossero un elenco di informazioni. La composizione stessa che ne farò risultare sarà un'ulteriore composizione informativa...
Quindi, l'interessamento per una foto (che poi elaborerò) principalmente non dipende se la rappresentazione che mostra è fuori dall'ordinario; al massimo per qualche particolare che isolato può sorprendere. Perciò, non ha nessun peso il porsi un problema sulla scena rappresentata nella foto perché essa, infatti, mostra sì, la realtà, ma sempre in modo "volubile".
Avere un simile riguardo verso le foto, mi permette una gran libertà quando vi dovrò costruire sopra una nuova composizione. La quale, infatti, apparirà opposta a come era l'immagine iniziale: per lo più insisto su foto banali? la conseguenza sarà un’immagine forte. Perché? perché ciò che è senza violenza è sempre mediocre. Se ha carattere, è d’impatto. Lo so perché io sono violento.