Qui di seguito il trentottesimo capitolo del nuovo libro che ho scritto
IL GIORNO DELLA SALVEZZA
che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima Edizioni. Spero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.
VEDERE LA SEPARAZIONE PER VEDERE L’UNIONE
L’esperienza della propria coscienza avviene mentalmente, attraverso i pensieri. La vita in questa dimensione, infatti, è un’avventura psicologica che porta, come conseguenza, a identificarsi nella propria mente. Invece, l’uomo è la coscienza e non i pensieri che sorgono nell’esprimerla e scoprirla.
Se fosse possibile riscontrare ed esprimere la propria coscienza attraverso il corpo fisico, l’uomo finirebbe a identificarsi innanzitutto in quello. Crederebbe che egli sia i propri gesti, movimenti, gli arti e i vari organi del corpo. Ma tutti questi sono solo gli strumenti che la coscienza adopererebbe per manifestarsi. Proprio come fa con il lavoro mentale poiché viene rinvenuta attraverso i pensieri.
La pratica della meditazione fa stare con se stessi individuando i pensieri come elementi del proprio corpo alla stregua di un braccio o i polmoni. Così, mentre si medita, allo stesso modo si percepisce il peso del braccio rilassato, i polmoni persistono con la respirazione e la mente distrae con i pensieri. In quel momento, non serve dare importanza ai pensieri o sentirsi sopraffare dalla difficoltà nel controllarli o arrestarli come, appunto, non avrebbe senso preoccuparsi dell’insistenza dei polmoni nel respirare. In entrambi i casi, è il loro lavoro: quando ci si accorge di questo, i pensieri finiscono per essere una sensazione sì continua ma di sottofondo e quindi che non disturba in realtà o che necessiterebbe di un forzato controllo. Proprio come è la percezione della respirazione e di qualsiasi altra attività costante del corpo. L’accorgersene come da un punto di vista esterno ci dà la prova, inoltre, che questi sono tutti elementi di qualcosa che seppure è noi, perché è da noi percepibile, non è intrinsecamente noi. Noi siamo la coscienza, tutto il resto è lo strumento che la coscienza usa. Un corpo fisico, mentale ed emozionale, come c’è già capitato di tentare di identificarlo. Il quale, bisogna accettare che rimanga in attività in quanto vivente. Non è come l’automobile che non appena si gira la chiave si spegne totalmente.
Così, meditando si arriva a cogliere che nella nostra persona caratterizzata da emozioni in continuo movimento e distrazione, un corpo biologico che un giorno cesserà e la mente che analizza il tutto, vi è una parte che rimane sempre presente, accesa e permette la propria soggettività. Questa è la coscienza, la quale, malgrado quello che capita al resto della persona, ne è una presenza immanente. È la coscienza, allora, la parte di noi genuina e reale: tutto il resto si trasforma di continuo e a un certo punto finirà. Il resto della persona, quindi, è la parte trascendente perché facilita l’intermediazione della coscienza con il resto, con ciò che coscienza non è. Ovvero, permette alla coscienza di “sentire” oltre se stessa: il distaccamento dell’onda, come si è immaginato qualche post fa. Infatti la coscienza è la nostra parte divina, pura, universale: il punto dal quale potersi aprire oltre noi, sperimentare quanto ha a che fare con lo spirito. È l’unica coscienza universale, concentrandosi su di essa si avverte la presenza di sé che equivale ad avvertire la presenza di Dio, di quell’unica coscienza. L’essere coscienti di questa unicità e unità è la vera realtà, unica coscienza e unica entità.
Se ci si focalizza sull’universo e su un singolo corpo umano, si potrebbe constatare che tutti e due sono estremamente molteplici e complessi così che un corpo possa essere un universo per gli organismi infinitamente più piccoli che in esso vivono. Microrganismi che costruiscono organismi più grandi e strutturano delle organizzazioni all’interno delle quali compiono il proprio ciclo vitale. Essi, infatti, se analizzati sul loro piano possono essere valutati (magari con uno sforzo di fantasia perché il nostro punto di osservazione è troppo distante e imponente) come intelligenti e forse anche coscienti. Nella loro individualità, però, essi sono tutti componenti della medesima entità, il nostro corpo. È nella stessa inconsapevolezza che il singolo essere umano ha difficoltà a considerarsi come parte di un’entità maggiore di sé. Ma di cui egli, per il suo semplice esserci, lo è.
Il praticare tali riflessioni e la meditazione portano a prestare attenzione alla fusione con il tutto. Comunque, si tratta di un processo graduale che parte da un commentare ogni cosa che si scorge quando ci si guarda attorno come parte di un’unica entità. Difatti, come per la persona incline al mettere i sensi e il proprio corpo al centro della propria attenzione ogni cosa che scorge è occasione di un’eccitazione sensuale, così chi tende alla spiritualità trae da tutto ciò in cui incappa un motivo per accorgersi di un “oltre”. Magari all’inizio sarà un lavoro di immaginazione o di ragionamenti e solo in seguito realizzerà che in tutto ciò che si individua come un’unica entità c’è pure chi osserva, quindi anche l’osservatore è quell’entità.
Si sospetterà che se ogni cosa è quell’unica entità, allora non posso esserci io che la sto osservando. Perché se la osservo allora non è più unica, saremmo in due. A quel punto, svanisce pure l’idea di esserci. Scompare pure l’osservatore perché io sono l’oggetto che stavo osservando: essere l’osservatore era una mera illusione finalizzata solo a tale scopo. Altrimenti sarebbe come credere che ci siano due persone nella stanza quando ci si guarda allo specchio.
È a partire da questo momento che pure l’intera realtà in cui si abita appare come questa illusione atta a farmi accorgere che esiste solo l’Uno. Come l’onda del mare era l’espediente per far vedere all’onda che tutto è mare e, di conseguenza, che essa stessa non esiste come onda: è anch’essa mare, è il mare.
Come già precisato altrove, questo non deve portare a considerare la realtà materica come una prigione, una punizione o una condanna in quanto la vera realtà è oltre. Essa è l’espediente perfetto creato apposta dalla vera realtà (da Dio) per fare accorgere di essa. Nell’esempio dell’onda: è come se il mare avesse inventato appositamente il vento per permettere la creazione dell’onda. Pertanto, si tratta di un gesto amorevole del quale si deve sempre ringraziare e non lamentarsi.
Anzi, come notato in più occasioni, esso si dispiega di fronte a ciascuno di noi nella maniera ideale perché si possa infine aprire gli occhi. Così, se si tratta lo scoprire la verità su di sé e sulla realtà come il motivo stesso per cui esiste un sé e la realtà, allora si scopre pure che ciò è lo scopo della vita. Tutte le cose che capitano a una persona non sono finalizzate a renderlo felice, soddisfatto e realizzato ma per farle fare questa scoperta. Felicità e serenità giungeranno come effetto collaterale all’impegno e al successo in questo obiettivo.
I personali traguardi che riguardano i desideri, la carriera, ecc. verrebbero raggiunti o mancati non perché fini a se stessi ma allo scopo di avvicinare sempre più la persona al suo vero obiettivo: la Verità. Ad esempio, un individuo che desidera ottenere successo in un campo della vita, se lo dovesse ottenere, non dovrebbe considerarsi appagato e quindi “arrivato”. Tale successo è solamente la via che la vita ha trovato per aiutarlo a raggiungere la Verità. Questo è il motivo per cui il suo senso di soddisfazione non potrà essere completo se ricercato solo negli effetti derivanti dal successo. Cosicché gli continuino ugualmente ad accadere fatti nella vita al fine di scoprire la Verità. Anche quando egli dovesse invece interpretarli come avanzamenti o fallimenti sulla strada dell’ottenimento dei personali desideri.
Tant’è che ogni cosa che capita è una facilitazione per la strada della Verità (della salvezza). E quindi da accogliere e ringraziare come ricordato poc’anzi. Anche se questa apparisse come un successo tutt’altro che spirituale o un insuccesso che corrompe.
La macchinosità in tale dinamica e l’eventuale impossibilità nel controllarla non devono scoraggiare il fedele. Né tantomeno il compiacersi dei trionfi o dei fallimenti deve arrogare la decisione di credere solo nelle proprie possibilità e nei propri risultati. La pratica e la fede fin qui garantite sono la modalità per poter affrontare una simile rivoluzione. Possibile, ripetiamo, se ci si arrende alla constatazione che tutto ciò e quindi tutto quello che si è, è qualcosa di infinitamente più grande di noi e di quello che possiamo controllare. E, allora, un arrendersi, un lasciare fare a qualcosa che non potremo neppure comprendere.
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