Qui di seguito il quarantaquattresimo capitolo del nuovo libro che ho scritto
IL GIORNO DELLA SALVEZZA
che è il diretto seguito del Vangelo Pratico, edito da Anima Edizioni. Spero così di fare cosa gradita a coloro che desiderano conoscere meglio il Vangelo Pratico e sapere come continuano gli approfondimenti. Attendo i vostri commenti e le vostre opinioni, anche in privato.
LA COSCIENZA PRODOTTA O PRODUTTRICE
Nel nostro trattato, abbiamo parlato di coscienza intendendola come il sé osservante. Quella che in percorsi spirituali che fanno più attenzione a un lessico canonico viene forse chiamata “anima”. È chiaro che non si è mai adoperato il termine “coscienza” nel significato dato dal materialismo: un’attività mentale come diretta conseguenza del cervello. Il materialismo fa sorgere ogni cosa dal fisico e se ne studia solo quanto si deduce dalle evidenze materiali. Nel caso della mente, riconosce che ogni pensiero, emozione e sentimento siano un prodotto del lavoro del cervello. E malgrado a tutt’oggi non esistano prove di ciò, sia l’uomo comune che lo scienziato e il medico indugiano spesso ad avere una visione dell’interiorità influenzata da questa supposizione.
Ecco che da questo punto di vista la propria coscienza sarebbe il risultato di attività neuronali, chimiche, oscillazioni elettriche e quant’altro. Così che da questo dipenderebbero lo stato mentale, la personalità e le proprie decisioni. Se ne deduce che per la scienza materialista non esiste il libero arbitrio e la vita di una persona è limitata alla vita del proprio cervello.
Tale approccio scientifico confida che giungerà un giorno in cui verranno rinvenute prove innegabili su queste ipotesi. Per ora, c’è solo la congettura che le attività mentali sembrerebbero essere ospitate nel cervello e conseguentemente le due cose dovrebbero essere anche collegate. È probabile che il cervello permette i pensieri ma non si ha idea di come dovrebbe succedere. Non si conosce neppure come la memoria funzioni e dove dovrebbero essere archiviati i ricordi.
Si è constatato, infatti, ad esempio, che se un individuo subisce un danno nella parte del cervello che si sa coinvolta nel registrare una tipologia di ricordi, egli potrebbe comunque continuare a ricordare quei ricordi quando invece dovrebbe essere logico che ciò non fosse più possibile. Lo stesso vale per altrettante attività cerebrali e per varie tipologie di lesioni e alterazioni. Inoltre, i nostri ricordi sono mantenuti malgrado le cellule del cervello (come quelle del resto del corpo) muoiono e vengono sostituite.
Oggigiorno si è nelle condizioni di riuscire a individuare con esattezza quale area del cervello si attiva quando il paziente sotto osservazione fa un determinato pensiero. Questo dovrebbe portare come ovvia deduzione che l’attivarsi di quell’area permetta l’azione del pensare. Ma come faremmo a esserne veramente certi? Per via delle discrepanze notate fra attività mentale e cervello, potrebbe essere vero anche il contrario. Ovvero che è l’azione del pensare che fa accendere quel punto del cervello.
Questo genere di domande sono poste da quegli scienziati e medici che non accettano di buon grado il continuare ad archiviare come irrisolvibile per le nostre conoscenze attuali tutti quei casi che mostrano un’attività mentale indipendentemente dallo stato del cervello. Infatti, in molti pazienti continuano a venire registrate attività quando, secondo le teorie, a seguito di lesioni o malattie non dovrebbero.
Oltretutto, molti pazienti riferiscono di essere coscienti anche quando il cervello appare disattivato, come in una situazione di coma, infiammazione, malattia o morte apparente. Questo essere presenti spazia da un avere coscienza di quanto accade loro, pure osservandosi da un punto di vista esterno al proprio corpo, fino a vivere vere e proprie esperienze altrove. Quelle che in passato un neurochirurgo giudicava essere dei meri sogni o banali rimescolamenti di attività mentali, oggi non possono che essere tenute in considerazione proprio grazie ai progressi che la neurochirurgia ha fatto tramite l’analisi e la tecnologia adottata. Queste, infatti, mostrando che vi è assenza di attività cerebrale dovrebbero logicamente anche confermare una assenza di attività mentale. Il fatto che ciò non sia così scontato è la prova che non vi è un collegamento tra mente e cervello come ci si aspetterebbe. Di certo, la mente non è una conseguenza del cervello, non è un suo prodotto. Anzi, essa esisterebbe a prescindere dal cervello, ma grazie ad esso, la mente (e la coscienza) può manifestarsi.
Per questa dinamica e per la sua struttura, sarebbe allora appropriato vedere il cervello come atto a ricevere la coscienza, come un’antenna, e renderla trasmissibile, come un decodificatore. Abbiamo finora considerato la propria coscienza come l’unica e universale coscienza; il cervello, quindi, non potrebbe permettere l’esperienza adattandola alla soggettività dell’individuo e ai limiti dello spazio e del tempo di questa dimensione? In effetti, se la coscienza è universale e onnipervasiva, perché possa fare esperienza in una realtà personale e limitata, il cervello ne sarebbe il perfetto filtro. Proprio come fa il rubinetto che regola un flusso altrimenti incontrollato.
Difatti, quando maggiormente è reso latente il cervello, un’esperienza di pura coscienza è possibile. Esperienza che è caratterizzata quindi da assenza di limiti spazio-temporali e conoscitivi. Proprio come liberamente ci si accorge di fare nelle porzioni che ricordiamo dei sogni, nei pensieri in coma, nella serenità della meditazione. Queste esperienze, pertanto, non sarebbero perdita di coscienza, come usualmente vengono considerate, ma il perfetto opposto. Quando si sogna, saremmo i veri noi allo stato puro, senza l’orpello del fisico; anche quello è vivere, seppure su uno stato diverso. Quello che si crede di aver sognato durante un coma, potenzialmente sarebbe una diretta esperienza della coscienza unica e universale che siamo, proprio in misura della disattivazione che si sta in quel momento vivendo del collegamento con il corpo e con il cervello. Cosa che avviene, infatti, anche nei pazienti in cui non sarebbe possibile alcun sogno (alcuna attività mentale) a causa dello stato di salute del cervello. Il cosiddetto coma vigile, addirittura, caratterizzato da una reazione fisica a stimoli esterni, non denota affatto lo stato di coscienza perché, come finora attestato, il corpo (e quindi neppure il cervello) è collegato in modo inscindibile alla coscienza.
Gli neuroscienziati, difatti, sanno che non possono esimersi dal notare che anche una persona che per un certo lasso di tempo non dà cenni di attività cerebrali o è a tutti gli effetti morto, quando poi, eccezionalmente, ritorna a uno stato cosciente racconta che, in realtà, cosciente lo era anche in quel periodo di apparente assenza. La coscienza esiste e persiste indipendentemente da quello che succede al corpo. Così, come si rimane coscienti quando si dorme e quando si è in coma, lo si rimane anche quando si muore. Noi siamo la nostra coscienza, quindi dovremmo precisare che è il corpo a dormire, andare in coma e morire, non noi. Allo stesso modo di quando in alcuni capitoli precedenti si palesava la visione della (nostra) coscienza come esistente sia prima, che durante e pure dopo la persona che siamo in questa realtà.
Allora, la realtà fisica oggettiva è in un modo perché quello è il modo in cui pensiamo che sia, così che essa cambia a seconda di cosa crediamo, oppure i nostri pensieri sono invece condizionati dall’ambiente che ci circonda? A queste osservazioni, gli scienziati che non si vogliono fermare alle spiegazioni materialistiche ne propongono una ipotesi opposta. Che è la coscienza ad animare il cervello e quindi anche la persona e non viceversa. Tramite i propri pensieri, l’uomo definisce il mondo e lo arricchisce di significati, non sarebbe il mondo a condizionarlo. La coscienza finirebbe per parassitare il corpo creando una simbiosi perfetta che rende possibile l’esperienza in questa realtà. Il cervello fungerebbe come ponte di unione tra la coscienza infinita e un mondo finito decodificando e traducendo due linguaggi altrimenti inconciliabili.
Quindi, la coscienza sarebbe davvero indipendente dal cervello e dalle attività mentali? Per capire meglio, il cervello può essere paragonato all’antenna ricevente di un televisore. La coscienza è il segnale che porta la trasmissione ed esiste anche se il televisore è spento, funziona male o non dovesse avere un’antenna. Inoltre, il segnale è unico e universale per tutti i televisori, proprio come è la coscienza: benché possa essere ricevuto da innumerevoli televisori, non è che esisterebbero realmente tante trasmissioni quanti sono i televisori. Sono le antenne a permettere che il segnale venga incanalato e il televisore a decodificarlo. Dopodiché, la trasmissione avrà luogo in modalità e contesti ogni volta unici.
A questo punto, tuttavia, ci accorgiamo che non dobbiamo cedere alla tentazione di considerare che il televisore sia un involucro spento senza trasmissione. Proprio come poco sopra si arrivava a dedurre la mente come creatrice della realtà. Pure il televisore, infatti, esisterebbe indipendentemente dalla capacità o meno di decodificare e trasmettere il segnale. Ovvero, l’essere umano esiste anche quando impedisce alla coscienza di prendere spazio dentro di sé. Proprio come si è affermato che il contrario, cioè l’arrendersi alla coscienza universale, non impedisce all’essere umano di vivere da essere umano come chiunque altro. Uno può esistere come un “televisore” sbiadito e l’altro come sgargiante e in alta definizione. Tant’è che in tutti i capitoli si è ripetuto che quello che possiamo fare al massimo come esseri umani è (per utilizzare lo stesso esempio) diventare televisori che permettono una perfetta trasmissione. Questo è il servizio più alto che possiamo fare alla coscienza, a Dio.
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