Se dipingessi, dovrei avere
un'idea sul primo tratto da fare sulla tela: anche se dipingessi pittura
astratta, dovrei ugualmente partire da un'immagine di partenza. Adoperando come
base una fotografia, invece, ho già essa come punto di partenza. Di
conseguenza, sono lanciato nel vuoto perché non sono io a dirigere: le mie
scelte sull'operare sull'immagine sono condizionate non da me, ma dalla foto.
Pertanto, se gli interventi che faccio su una foto all'inizio pensavo fossero casuali,
ora scopro che sono influenzati; sempre casuali, per me, perché non partono da
una mia diretta indicazione. Fondamentali, quindi, sono le scelte che la foto
mi spinge a fare, e la casualità che ne segna il loro sviluppo.
L'unicità dell'opera sta proprio
nella produzione del mio intervento che non è mai lo stesso perché condizionato
dal mio modo di reagire alla scena raffigurata nella foto di partenza. Sento
questo lavoro come più di un dialogo fra me e la fotografia, anche una specie
di traduzione o correzione della scena fotografata grazie alla quale sarà
possibile vedere una sorta di realtà oltre il primo strato superficiale.
Il mio lavoro è, infatti, quello
di fare da accompagnatore verso un altro mondo. E' giusto che questo lavoro
diventi un mero pezzo di arredamento? Sì, più entra a far parte dell'ordinario
è più ha valenza.
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