20/03/14


Uno degli argomenti principali che si intavolano al momento di discutere di fotografia è il dove mettere il confine fra quella digitale e quella analogica. Per me è un ragionamento che occupa molto spazio di solito, perché lavoro indifferentemente in entrambi i modi a seconda dell’estetica che voglio raggiungere; il più delle volte utilizzo le stampe e le pellicole per elaborarle poi in digitale. Per me non ha senso scegliere una modalità e rinunciare ad un'altra, per il semplice fatto che la fotografia non è affidabile totalmente nel trasmettere la realtà. Proprio come non lo è la pittura, e quindi sarebbe come un pittore che si dovesse attenere esclusivamente ad una tecnica, ad un tipo di pennello o di colore: se non credo che la fotografia sia affidabile, allora posso adoperare tutti gli stili disparati che mi vengono in mente.
Vale a dire che a differenza della fotografia, con i miei lavori, la mia immagine, seppure fotografica, non testimonia il reale, ma mette in scena qualcosa che potrebbe esserlo. Anche se questo qualcosa è assurdo si precisa sempre che "potrebbe esserlo", reale, perché la fotografia ha comunque un ineluttabile riconoscimento (o dogma, forse) di affidabilità. Che allora mi torna utile proprio per aumentare l'assurdità. Cioè, i miei lavori mettono in parallelo il reale con qualcosa di non comprensibile: dare una forma e quindi una possibilità di incontro a un non visibile. Più faccio fatica a comprendere l'immagine che sto realizzando e più so che sto ottenendo il risultato; meno è ovvia la lettura e maggiormente posso considerare buona quell'immagine. Le immagini di facile lettura le trovo senza senso e non c'è bisogno di farne, non aggiungono niente a quelle che già ci sono: impegnarsi a mettere in scena qualcosa di oscuro ti permette di tenerti lontano dal mettere in scena roba senza senso, idiota. (questo anche per compensare che mi son dato dell'imbecille nel testo precedente)

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