"Pare un
assurdo, e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non
v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni."
Leopardi,
Zibaldone
Il motivo per cui ho atteso
almeno dieci anni prima di mostrare i miei lavori di arte visiva.
Avevo dei problemi con il
linguaggio. Creare un'immagine è il linguaggio; un'immagine può palesarsi non
semplicemente con una stampa bidimensionale, ma con una struttura
tridimensionale, come anche nell'accostamento (composizione, armonia,
equilibrio) di più oggetti: ad esempio, quando lavoro nell'orto con mio padre,
lasciare le erbacce significa rovinare l'immagine dell'orto (che vogliamo).
Così, tra le varianti disponibili, il linguaggio che più a lungo ho preferito è
stata la poesia in versi: con la parola potevo suscitare delle immagini nel
modo più vago che conoscessi. Perché aver bisogno della vaghezza? per
ambientarsi nell'indefinito dato che consideravo la realtà assolutamente
inaffidabile ovvero, innanzitutto, il prodotto delle percezioni sensoriali
tanto personali quanto irriproducibili. Spiego meglio ricordando che il mio
immaginario proveniva esclusivamente da esperienze avute in sogni o sogni
realistici, visioni dove tutto può accadere e quindi nulla è saldamente come
appare.
Il passaggio a mostrare le
immagini in una chiave più visibile, tangibile succede nel rendersi conto che
comunque si deve scrivere e poi leggere l'immagine\l'opera attraverso proprio
quelle percezioni personali. Pertanto, in ogni opera ci posso trovare sempre me
stesso, perché la utilizzo: sia come autore che come pubblico... Quindi, anche
se l'immagine rappresentata è astratta, diventa reale, perché io (e il modo in
cui mi convinco di percepire il mondo) sono reale. Purtroppo, questa è
un'affermazione molto traballante, perché è proprio qui che sta l'impedimento
all'emergere come artista visivo: ero convinto che non fossi reale.
Effettivamente, quando lavoro mi
baso sulla fotografia ma non significa che mi fido di essa (della sua capacità
o funzione di testimone): l'ho già affermato più volte, la fotografia è solo un
segno. Se vogliamo, la si può anche identificare come la parte da cui
scaturisce la teoria del mio lavoro, mentre la parte pratica del mio lavoro è
possibile solo con la condivisione: utilizzo di foto altrui, performance,
azioni, collaborazioni, confronti, sfide, ecc; anche se non emerge mai,
raramente faccio qualcosa da solo e sono principalmente delle performance che faccio
senza pubblico, con una finalità strettamente personale (come dei riti). Più
propriamente, bisognerebbe dire che tutta questa attenzione nei confronti della
condivisione si concentra in questo periodo perché è attraverso riflessioni su
questa materia che mi è stato possibile giungere alla soluzione, al
dispiegamento del mio nuovo progetto " ". Il quale appunto si
sviluppa tutto grazie alla condivisione, cioè condividendo si accresce. Tutti i
pensieri a tal proposito mi erano sorti già da un pezzo (tra l'altro pensando
al sesso): che in un modo o nell'altro, per produrre qualcosa, per combinare
qualcosa bisogna essere in due; bisogna dividere\dividersi. (n.b.: sesso deriva
infatti dal verbo secare: dividere. Tagliando in due ci si moltiplica, non si
diminuisce.)
Allora, essendo in due, quello
che si crea è altamente imprevedibile, quindi la formula ideale di quanto vado
in cerca con i miei lavori. Non so cosa mi porteranno queste esperienze, per
ora è una sorta di curiosità del mistero, una curiosità spirituale sapendo che
la verità, anche se rientra nell'illusione, sta comunque sull'altro lato della
superficie, sull'altro corpo. O forse, sarebbe meglio dire che creando in due
si porta la verità dalla nostra parte, su di noi, nella nostra procreazione, zona
franca fra il visibile e il non visibile.
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