Per me le foto sono innanzitutto
degli oggetti, non rispetto del tutto quanto vi è rappresentato. Cioé non mi
faccio influenzare dall'idea che con il mio intervento potrei coprire o
alterare l'aspetto di una figura umana raffigurata nella fotografia. Ciò mi
permette una libertà che una volta non conoscevo: in principio tenevo in
considerazione la figura umana per comporre la nuova immagine, la quale era
quindi in funzione di essa.
Ora la foto è per me prima di
tutto una composizione costituita da forme e colori, che unendosi costruiscono
delle figure umane oppure lo sfondo o i dettagli in primo piano e per questo
principio possono allora essere smontate e rimontate per formare qualcos'altro.
All'inizio, quindi, io vi vedevo delle persone con delle vite e per questo
spesso intervenivo con dei limiti e dei riguardi. Non ero giunto ancora alla
ricerca delle forme e alle trasformazioni attuali, il mio intervento era una
sorta di commiato a quelle persone, da diversi punti di vista. Fondamentalmente
mi convincevo che le figure umane delle foto sono prima di tutto delle persone
che ora non ci sono più. Così accadeva che mi interessava dar loro commiato
dalla vita, ovvero estrapolare, estraniare il soggetto dall'ambiente
circostante (ciò che attornia la persona fotografata), il quale corrisponde
alla sua vita di tutti i giorni, le abitudini, il lavoro.
Forse, ora sto rappresentando in
un modo più neutro, ma allora trattavo di qualcosa non facilmente
rappresentabile: i morti. Il cambiamento è accaduto sicuramente quando
ragionando su questo ho scorto la morte raffigurata in tutta l'arte. Vorrei che
i miei lavori siano sempre così: cercare la rivoluzione e accorgersi di fallire
mostrando così che quello contro cui mi scontro è ineluttabilmente invincibile,
il nemico più grosso.
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